il manifesto 12.10.18
Figli per la patria, gli antiabortisti e il governo amico
Aborto.
Madre-patria, o meglio, Matria: quanto può giocare ancora questa
esaltazione immaginativa nel coprire, agli occhi stessi delle donne, la
violenza del patriarcato?
di Lea Melandri
Il 12 maggio
2013 ci fu la la terza “marcia per la vita”, benedetta dal papa come
«un’occasione di difesa della vita e di lotta contro l’ingiustizia della
Legge 194». Ritornava l’ossessione della cultura maschile più
conservatrice, fatta propria purtroppo anche dalle donne. Non si osava
toccare la legge, ma si raccoglievano firme per provvedimenti a livello
europeo. Non si diceva che le donne sono delle assassine, ma lo si
lasciava intendere.
Ci voleva la svolta operata dal nuovo governo
perché tornassero in campo, arroganti, vigorose e soprattutto più
esplicite che in passato, le voci degli antiabortisti, dei difensori
della famiglia “naturale” e della funzione materna della donna. A
legittimarle, come se non bastassero i ruoli istituzionali di alcuni
protagonisti di questa ondata di fustigatori della libertà femminile e
delle nuove forme che ha preso la vita intima, è intervenuto ancora una
volta il Papa nel discorso ai fedeli il 10 ottobre in piazza San Pietro:
«Interrompere una gravidanza è come fare fuori uno (…) è come affittare
un sicario per risolvere un problema».
Le dichiarazioni del ministro
della Famiglia, Fontana, come quelle del senatore della Lega, Pillon,
promotore del Ddl sull’”affido condiviso”, attualmente in esame al
senato, sono note, così come la mozione approvata dal consiglio di
amministrazione di Verona «per la prevenzione dell’aborto», con cui si
decide di finanziare «le associazioni cattoliche che hanno l’obiettivo
di promuovere iniziative contro l’aborto».
Se la sequenza, pressoché
quotidiana, dei femminicidi ha potuto ancora una volta passare in
cronaca ed eclissare il rilievo culturale e politico che ha la violenza
maschile contro le donne, rispetto ad altri fenomeni visti come
“emergenze” – il respingimento dei migranti, l’odio per lo straniero, le
aggressioni di matrice fascista – la rapidità con cui si sta allargando
in Italia, come in altri Stati, la campagna contro l’aborto non può far
passare in secondo piano i legami che ci sono sempre stati tra il
sessismo, il razzismo, le ideologie di patria e nazione.
Dovevano
bastare i Fertily Day e i Family Day a far capire che in una società
dove è in crescita la presenza di lingue, culture diverse, insieme alla
caduta di pregiudizi, convinzioni e leggi del passato, crescono anche
paure, fantasie di spossessamento, perdita di tratti identitari, sia
pure mitizzati. Lo spettro che si aggira per l’Europa e che minaccia di
far arretrare i diritti più elementari di democrazia e rispetto umano, è
la crisi demografica – quella che guarda alla “integrità della
stirpe”-, e, dietro di essa, la libertà delle donne di decidere sulla
propria vita e le proprie scelte, a partire da quello che è stato per
secoli l’ “obbligo procreativo”.
Con la rozzezza che è ormai delle
più alte cariche dello Stato, così si esprime il senatore Pillon in una
intervista alla Stampa: «Via l’aborto, prima o poi in Italia faremo come
in Argentina (…) sostenere la maternità altrimenti nel 2050 ci
estinguiamo come italiani». Più minaccioso di lui è stato il ministro
Fontana che sabato 13 ottobre sarà a Milano per la manifestazione No194,
insieme a Forza Nuova: «Le Famiglie gay non esistono. Più figli, meno
aborti».
Se si aggiunge il Ddl Pillon sull’ “affido condiviso”, che
ha come obiettivo evidente la volontà di mettere un argine ai
cambiamenti interni alla famiglia – separazioni, divorzi, coppie dello
stesso sesso, unioni civili, maternità surrogate, ecc.- il quadro è
completo. Il dominio del sesso maschile, in quanto atto fondativo della
politica e di ogni civiltà finora conosciuta, è anche il fulcro intorno a
cui si muovono tutti i governi che si appellano all’ “ordine” e alla
“sicurezza” per imporre leggi e sistemi autoritari.
Non sono mancate
finora risposte forti da parte dei movimenti delle donne e altre
manifestazioni sono in preparazione fin da ora, come si è visto
dall’assemblea nazionale di Non Una di Meno pochi giorni fa a Bologna.
Ma non possiamo fare finta che questo ritorno in forza e sfrontatezza
del peggiore machismo non goda del sostegno di tante donne. Le grandi
manifestazioni contro Trump e contro Bolsonaro, e in Argentina per
l’aborto, dicono che consapevolezze e libertà acquisite possono contare
oggi su una forza organizzativa estesa, tenace nel ricomparire dopo ogni
sconfitta.
Ma il consenso che incontra oggi la violenza degli
uomini, comunque lo si voglia chiamare – complicità, adattamento,
ignoranza- dice, per un altro verso, che è necessario porsi degli
interrogativi. Per quanto sia amaro riconoscerlo, l’emancipazione sembra
aver reso più evidente che le donne hanno incorporato la
rappresentazione maschile del mondo e che le pratiche di liberazione dai
modelli imposti ha ancora molta strada da fare.
Di fronte a una
campagna di odio che dilaga nel sentire comune, legittimata dall’alto,
il rischio di attestarsi su posizioni solo protestatarie e di lotta
induce alla semplificazione di fenomeni, come il nazionalismo, gli
arroccamenti identitari, senza riuscire a vederne l’ambiguità. La
nascita della nazione rimanda senza dubbio alla genealogia patriarcale,
ma è anche richiamo a una “coesione organica”, a una sorta di unità
mistica, che ha a che fare col corpo materno.
É madre-patria, o,
meglio ancora, matria: una creazione maschile che ha avuto bisogno di
incarnarsi, sia pure simbolicamente , in figure di femminili.
Quanto
può giocare ancora questa esaltazione immaginativa nel coprire, agli
occhi stessi delle donne, la violenza del patriarcato?