il manifesto 12.10.18
Caso Cucchi, quando la verità vince sulla demagogia
Giustizia.
La famiglia di Stefano Cucchi ha creduto fino in fondo nella legge, si è
affidata ai giudici e alle istituzioni, si è mossa nel solco della
legalità. Viceversa, coloro che hanno detto che per principio erano
dalla parte dei carabinieri hanno manifestato una cultura che disprezza
la legalità
di Patrizio Gonnella*
Il processo per
l’omicidio di Stefano Cucchi resterà nella storia della giustizia
italiana. Una storia fatta di violenza istituzionale, di morte, di
coperture, di silenzi, di indifferenza, di opacità ma allo stesso tempo
di determinazione, di forza morale, di rottura del muro della reticenza.
Verità processuale e verità storica si stanno lentamente approssimando
nonostante le umiliazioni e le dichiarazioni di quei politici che hanno
urlato nel tempo una verità dogmatica e stereotipata.
Oggi, di fronte
alla confessione di uno dei carabinieri che ha ammesso le violenze sul
corpo di Stefano, sanno di ridicolo e tragico quelle frasi che si sono
sentite nell’etere e lette sui social. C’è chi disse: «É morto perché
era anoressico» (Carlo Giovanardi), chi chiedeva alla famiglia di
Stefano «dove era quando lui si drogava» (Maurizio Gasparri), chi
affermava che Ilaria Cucchi «mi fa schifo» (Matteo Salvini).
A nove
anni dalla morte di Stefano Cucchi ci sono tre parole, di cui una
composta, che vengono esaltate da questa storia: empatia, spirito di
corpo, legalità.
Da alcune settimane il bellissimo film di Alessio
Cremonini Sulla mia pelle, delicato ma rigoroso allo stesso tempo, sta
riempiendo le sale cinematografiche, le piazze, le università.
Gruppi
di persone organizzano visioni comunitarie in luoghi pubblici e
privati. Ragazzi e ragazze, anche molto giovani, vedono il film e
restano senza parole, immedesimandosi in Stefano e in sua sorella
Ilaria. L’empatia è un motore che ha una forza dirompente. Favorisce
processi di indignazione. Ha la capacità di trasformarsi in valanga.
Stefano Cucchi è sentito come un amico o un fratello nei licei, nelle
università, nelle palestre e negli stadi. Ilaria è diventata una sorella
di tutti quelli che vogliono giustizia, che credono che non si possa
morire ammazzati, pestati a sangue, in una camera di sicurezza delle
forze dell’ordine.
Non tutti però sono Stefano. Non tutte però sono
Ilaria. Non sempre l’empatia porta a giustizia. In questo caso invece
sta accadendo un fatto straordinario, ossia la giustizia (e ne siamo
grati alla procura di Roma) si è messa al servizio delle vittime di
tortura. Accade raramente. Anche perché spesso a vincere è lo spirito di
corpo, primo nemico della verità.
Ieri, con la confessione di uno
dei carabinieri coinvolti nel pestaggio, si è definitivamente rotto lo
spirito di corpo nell’Arma. I fatti di violenza o di tortura avvengono
molto spesso in circostanze tali per cui gli unici testimoni possibili
sono altri poliziotti o carabinieri. Solo se si rompe il vincolo di
colleganza, tanto più quando la vittima del pestaggio muore, la verità
storica potrà uscire fuori.
Ma affinché lo spirito di corpo si
incrini ci vogliono messaggi inequivocabili di trasparenza da parte dei
vertici delle forze di Polizia, ci vuole la rottura dell’indifferenza da
parte dell’opinione pubblica (quell’indifferenza che ha fatto chiudere
gli occhi a quei tanti funzionari che hanno fatto finta di non vedere il
volto tumefatto di Stefano che stava morendo di dolore), ci vogliono
sindacati di Polizia che caccino i loro iscritti infedeli alla
Costituzione e alla divisa indossata, ci vogliono procuratori che non
guardino in faccia nessuno, ci vogliono governanti e politici che non
siano ambigui nei loro messaggi di legalità.
La terza parola è
legalità. La legalità è una. É inammissibile una legalità doppia. Non
esistono persone immuni dalla legge. La legge non è un totem, può ben
essere criticata. La legalità comprende in sé la critica alla legalità.
Una cosa però non è accettabile, ossia che la legalità sia mitizzata,
esaltata e applicata a senso unico.
Caserme di Polizia e carceri sono
i luoghi dove più di altri dovrebbe essere rispettata la legge. Non si
può nel nome della legge violarla impunemente.
La famiglia di Stefano
Cucchi ha creduto fino in fondo nella legge, si è affidata ai giudici e
alle istituzioni, si è mossa nel solco della legalità. Viceversa,
coloro che hanno detto che per principio erano dalla parte dei
carabinieri hanno manifestato una cultura che disprezza la legalità. La
legalità si può criticare, ma è una sia per lor signori che per tutti
gli altri.
*Presidente di Antigone