il manifesto 11.10.18
Cina, la catena di montaggio dell’Intelligenza artificiale
Cina
e Big Data. La corsa di Pechino all'intelligenza artificiale si basa
sul lavoro di migliaia di persone impiegate nell'attività di
«etichettatura» di tutti i dati. Un lavoratore che pone le etichette può
elaborare 40 oggetti al giorno, guadagnando 10 yuan all’ora, circa 1
euro, per uno stipendio mensile totale di 300 euro
di Simone Pieranni
Etichettare
qualsiasi cosa: guardare una foto su uno schermo e apporre manualmente
etichette, guardare un video e apporre etichette, ascoltare un audio e
apporre etichette. Su qualsiasi cosa: il volto di una persona, una
strada, una lunga fila di macchine, panorami e luoghi geografici,
animali, tutto. Solo in questo modo il fantastico mondo dell’internet
delle cose potrà essere possibile nel prossimo futuro. Solo in questo
modo le auto senza guida potranno viaggiare, si potranno controllare da
remoto tutti gli elettrodomestici di una casa o usare la propria faccia
per pagare, prenotare, comprare qualsiasi cosa, o perché le telecamere
intelligenti possano fare il loro dovere in questa epoca dalle tendenze
sempre più totalizzanti nel controllo sociale.
E COME SEMPRE
ACCADE in un sistema capitalistico c’è chi usufruirà – persone,
corporation e Stati – dei servizi realizzati da altre persone sfruttate,
e non poco, per rendere sempre migliori i servizi. In Cina un
«data-tagger», ovvero un lavoratore che pone le etichette alle foto,
video e audio che finiranno fagocitati dalle macchine e dagli algoritmi,
può anche elaborare 40 foto al giorno, guadagnando 10 yuan all’ora,
circa 1 euro, per uno stipendio mensile totale di 300 euro.
Il
magazine cinese Jiqizhixin specializzato in intelligenza artificiale e
Big Data, ha raccontato che «proprio come agli albori delle fabbriche di
iPhone di Foxconn, che hanno simboleggiato il ruolo della Cina nella
parte più bassa della catena del valore della produzione globale, la
rivoluzione dell’Ai ha creato una nuova ondata di lavori di fascia bassa
e ad alta intensità di manodopera che la Cina sta assorbendo sempre di
più». Come ha scritto il South China Morning sul mondo di BasicFinder
una delle principali «fabbriche» del settore, «le condizioni nello
stabilimento costituiscono un mondo a parte dai brillanti campus nella
Silicon Valley, o persino nei centri tecnologici cinesi di Pechino e
Shenzhen».
PER COMINCIARE, «è un lavoro con salario minimo. Non ci
sono mense per il personale che offrono pizze artigianali o strutture
ricreative come pareti da arrampicata al coperto o campi da basket con
aria condizionata. Neanche i tavoli da biliardo. Eppure il lavoro svolto
qui è di vitale importanza se l’Ai deve mantenere le promesse».
Il fantasmagorico piano cinese che prevede di aumentare investimenti e
risultati di tutto quanto è collegato all’intelligenza artificiale,
infatti, beneficia del lavoro più tradizionale, «in linea». Perché
algoritmi e macchine «ragionino» ed elaborino informazioni, infatti, è
necessario che le informazioni arrivino, catalogate nella maniera più
dettagliata e precisa. Tutte le immagini ad esempio, devono essere
«taggate», cioè associate a un elemento, a caratteristiche, ad altri
dati: dati per elaborare, in tempi sempre più rapidi, altri dati.
MA
PERCHÉ LE MACCHINE elaborino tutta questa immensa mole di informazioni,
serve qualcuno che li prepari. Si scopre così che dietro la più
avanzata industria del paese si nascondo loro, le nuove tute blu del
mondo hi-tech. E non solo lì: analogo discorso potrebbe essere
effettuato sullo sforzo cinese riguardo i semiconduttori, necessario per
accelerare la corsa del Made in China 2025 e per diminuire la
dipendenza dalla loro importazione dagli Stati uniti. E analogo discorso
da tempo viene sottolineato anche in Occidente: dietro ai dati e alle
funzionalità della app-economy c’è lavoro.
L’argomento, dunque, è
evidente, nonostante la stampa cinese tenda a descrivere con toni
trionfalistici la corsa all’Ai che, unitamente al 5G, dovrebbe portare
alla definitiva consacrazione dell’internet delle cose. Di recente
TechRepublic – sito specializzato in It e lavoro – ha pubblicato un
articolo dal titolo Is data labeling the new blu collar job of the AI
era?, perché la questione è aperta – naturalmente – anche negli Stati
uniti. Ma in Cina si realizzano alcune caratteristiche particolari,
determinate da orari, dai salari e dalla quantità di dati che la corsa
all’Ai cinese (rengong zhineng) sta richiedendo. Pechino ha lanciato
ormai da un paio d’anni il suo «A Next Generation Artificial
Intelligence Development Plan». Il piano prevede tre fasi, che dovranno
concludersi nel 2030.
L’OBIETTIVO È AMBIZIOSO: «entro il 2030,
scrive Steve Dickinson su Chinalawblog, le teorie, le tecnologie e le
applicazioni di Ai cinesi gireranno il mondo, rendendo la Cina il
principale centro mondiale di innovazione dell’intelligenza
artificiale». In questo momento siamo nella fase che terminerà nel 2020.
Il piano è stato rilasciato dal ministero dell’Industry e
dell’Information Technology cinese e prospetta «la promozione dello
sviluppo di un’industria dell’Ai di nuova generazione».
Il
progetto del Pcc prevede di concentrarsi su alcuni aspetti in
particolare: Intelligent Connected Vehicles o anche auto senza guida
(driverless car), uno degli obiettivi più contesi tanto da Usa quanto da
Cina (e sul quale influirà non poco la corsa al 5G). Poi c’è tutto il
settore della robotica, quello dei droni, il riconoscimento facciale,
gli assistenti personali vocali.
Secondo quasi tutti gli esperti e
gli analisti che realizzano ormai con frequenza report sul tema (benché
non ci sia ancora uniformità riguardo la vera e proprio «classifica»
nella corsa all’Ai, settore nel quale gli Usa sono ancora ampiamente in
vantaggio, mentre sono indietro sul 5G) tutti sono invece concordi nel
sottolineare l’incredibile forza cinese dipendente da un dato oggettivo:
perché l’internet delle cose possa davvero esistere nella vita
quotidiana servono due cose, la velocità di elaborazione dei dati, ma
soprattutto servono tanti, tantissimi, dati.
Il Financial Times
nel maggio 2018 in un articolo da titolo China and US compete to
dominate Big Data a firma di Louise Lucas e Richard Waters ha riassunto
il vantaggio competitivo cinese, partendo dal caso di un’azienda, la
Malong Technologies, con sede a Shenzhen, che «ha addestrato i suoi
algoritmi di riconoscimento delle immagini su masse di dati cinesi –
analizzando centinaia di migliaia di foto delle sfilate di moda per
identificare le tendenze nel settore dell’abbigliamento e ora sta
sperimentando la tecnologia con le società di e-commerce negli Usa».
UNA
DIFFERENZA CHIAVE IN CINA – racconta al quotidiano finanziario il capo
della tecnologia Matt Scott, un ex ricercatore di Microsoft che si è
trasferito in Cina per co-fondare la società – «è che ci sono più
persone, più dati, più aziende: avendo accesso a questi dati in Cina,
possiamo esportare la nostra tecnologia in tutto il mondo».
Tanti dati e un’attitudine a concederli: «questo – prosegue l’articolo –
è un paese in cui le persone ordinano, acquistano, pagano e giocano
online, lasciando enormi impronte di dati» che poi consentono agli
addetti ai lavori di puntare con precisione su annunci e promozioni. «La
densità delle persone è proporzionale alla densità dei dati», afferma
al Ft uno scienziato cinese di intelligenza artificiale.
TANTI
DATI E TANTI LAVORATORI disposti ad accettare salari bassi. Il centro
del data-tagging, come di gran parte delle attività che si occupano di
Big Data in Cina, è il Guizhou, una delle regioni più povere del paese
divenuto da tempo un centro mondiale dei Big Data.
STIPENDI BASSI
non solo per le nuove tute blu, ma anche per analisti, studiosi,
ricercatori. Sixth Tone un magazine che si occupa delle principali
tendenze ha provato a raccontare il mondo dei data-tagger: «Ogni giorno
centinaia di studenti delle scuole professionali affollano una fabbrica
dopo la lezione e si siedono di fronte a file di computer per
etichettare le foto e analizzare il linguaggio umano. I dati che
generano vengono utilizzati in una varietà di progetti tecnologici, dal
riconoscimento facciale e vocale alla guida autonoma».
I
giornalisti di Sixth Tone sono andati a vedere che succede a Bainiaohe
Digital Town, un parco scientifico e tecnologico a circa 50 chilometri
da Guiyang, la capitale della provincia di Guizhou. «Prima di una
conferenza sull’intelligenza artificiale tenutasi a dicembre dello
scorso anno, Bainiaohe era praticamente sconosciuta». Non mancano alcune
storie spassose, come quella di Deng Xuechun, uno studente di 20 anni
del Guizhou Forerunner College, «che ha appena iniziato il suo turno
presso la fabbrica Guizhou Mengdong Technology Co. Ltd». Il suo compito è
quello di identificare i veicoli in fotogrammi fissi dalle riprese
della telecamera di strada, così come tutti gli oggetti che potrebbero
ostruire la vista: è obbligata a stare seduta dritta in ogni momento ed
evitare di parlare con i suoi compagni di scuola seduti accanto a lei».
Solo
che Deng è cresciuta in montagna dove le macchine sono poche e non
sempre riesce a taggare al meglio i brand delle auto. Anche per questo
nel suo primo mese di lavoro Deng ha guadagnato solo 800 yuan, poco più
di 80 euro: troppo lenta.
MA ANCHE QUESTO BUSINESS capace di
attirare molti neolaureati, non richiedendo specializzazioni
particolari, ormai si sta spostando anche in altre aree del paese.
Queste fabbriche «etichettatrici» gestite da lavoratori con salario
minimo sono il nuovo volto dell’outsourcing globale. E molto prima
dell’elettronica e dei vestiti, «la Cina sta rapidamente diventando il
laboratorio globale per l’intelligenza artificiale. Ci sono segnali che
l’industria dell’etichettatura dei dati si sta spostando verso l’interno
in aree come Shandong, Henan, Hebei e Shanxi, dove i costi del lavoro
sono inferiori».
L’importanza di questi lavoratori è riconosciuta
dalle stesse aziende: Basic Finder è tra le aziende di etichettatura che
prosperano sul mercato dei Big Data, e ha clienti che vanno dalle
università statunitensi come Berkeley, ai progetti di veicoli senza
guida della Silicon Valley per arrivare ai leader cinesi di intelligenza
artificiale SenseTime e iFlyTek.
«Gli ordini d’oltremare
rappresentano circa il 30 per cento del totale degli affari», secondo Du
Lin, co-fondatore e amministratore delegato della start-up con sede a
Pechino.
PER QUALSIASI SISTEMA intelligente, si tratta di «un
processo di apprendimento conoscitivo, che richiede agli esseri umani di
etichettare il mangime», ha raccontato un laureato alla Shanghai
University, a Jiqizhixin, «non importa quanto sia stravagante, quanto in
alto siano le aziende, non si può vivere senza grandi quantità di dati
supervisionati e lavorati».