Il Fatto 8.10.18
“Orbán ci sta comprando, è come prima del 1989”
Il
primo ministro sta spingendo oligarchi amici all’acquisto di quanti più
media possibile: hanno già cambiato proprietà 550 giornali, 20 canali
televisivi e 11 radio. E chi non si adegua ha problemi
di Cosimo Caridi
Un
enorme ficus, alto quasi cinque metri, ha il posto d’onore nel grande
open space dove lavorano 60 giornalisti: la redazione di Index. Ma tutto
sta per cambiare. La proprietà del più grande, e influente, giornale
online dell’Ungheria è passata di mano pochi giorni fa. “Da un’oligarca
vicino a un altro molto vicino al governo – spiega Gabor Miklòsi,
caporedattore del quotidiano web – ma in mezzo c’è una fondazione e
tutta la questione di chi comanda e dove verremo spostati rimane
oscura”.
In questo momento ogni cambio di proprietà dei media
viene percepito, dalla società civile ungherese, come un tentativo del
governo per ottenere maggiore controllo dell’informazione e mitigare i
contenuti pubblicati. Dal 2010, quando Fidezs, il partito di Viktor
Orbán, ha vinto le prime elezioni, il Paese è sceso di 50 posizioni
nella classifica, redatta annualmente da Reporter senza frontiere, della
libertà di stampa.
“Se io non potrò continuare a lavorare qui –
dice Miklòsi – perché Index perderà indipendenza, allora non potrò fare
il mio mestiere in nessun altro posto. Ci sono altri media indipendenti,
però non riescono a crescere. Il mercato è distorto dallo stesso
governo”. Orbán sta incoraggiando gli imprenditori che gli sono vicino a
comprare più media possibile. Questa spinta a omogenizzare l’editoria
cancella, di fatto, la diversità che ha caratterizzato la stampa
ungheresi dalla transizione del 1989. L’impressione di Miklòsi è che
“stia tornado lo Stato-partito. Ero bambino sotto il comunismo, ma ora,
da giornalista adulto, è molto duro vedere che la libertà di stampa
viene, a poco e poco, cancellata”.
Sono in mani amiche del
governo, oltre alle maggiori televisioni commerciali nazionali, tutti i
giornali regionali. A chiudere il cerchio c’è un mercato pubblicitario
viziato. I piccoli editori non ricevono sovvenzioni statali, ma “l’80/90
percento delle loro entrate pubblicitarie – spiega il giornalista di
Index – arriva da campagne governative”. Pubblicare un articolo contro
l’esecutivo vorrebbe dire andare a perdere la fonte di sostentamento dei
giornalisti stessi. Non c’è bisogno di censura in un sistema che fa
dell’autocensura l’unica possibilità di riceve un salario.
La
volontà di addomesticare la stampa fa parte del programma di Orbàn sin
dal suo primo giorno di governo. Da quando ha preso il potere hanno
cambiato proprietà: 11 radio, 20 canali televisivi e 550 giornali .
Tutti sono passati nelle mani di uomini d’affari vicini all’esecutivo.
Lo
scorso mese è toccato a Hir Tv. Uno dei nuovi proprietari, Zsolt
Nyerges, la mattina stessa in cui veniva resa nota la notizia, ha
rassicurato la redazione dicendo che nessuno avrebbe mai interferito con
il lavoro dei giornalisti. Quella sera non è andato in onda il
telegiornale e nemmeno l’approfondimento politico, uno dei programmi di
punta della rete. Al loro posto è stato trasmesso, a ripetizione, un
recente discorso del capo del governo.
Il tentativo di controllo
non si ferma ai soli media nazionali. A inizio maggio Magyar Idök, un
quotidiano con ampia diffusione, ha pubblicato un articolo critico verso
il lavoro di diversi corrispondenti internazionali. Sono stati citati i
giornalisti di Der Spiegel (Germania), Dar Standard (Austria),
Libération (Francia), Tages-Anzeiger (Svizzera). “Il governo ungherese –
si poteva leggere nel pezzo – dovrebbe considerare delle azioni di
risposta al servile lavoro di Keno Verseck, Gregor Mayer, Bernhard
Odehnal, Florence La Bruyère e tutti gli altri corrispondenti da
Budapest che diffondono le più abominevoli menzogne”. I giornalisti,
contrariamente alla richiesta del quotidiano, non sono stati espulsi, ma
aver pubblicato una lista, averli schedati pubblicamente, è servito a
intimidirli e a rendere sempre più difficile il loro lavoro. Magyar Idök
appartiene a Lörinc Mészáros, uno degli uomini più ricchi dell’Ungheria
nonché amico d’infanzia di Orbán. Mediaworks Holding, la società di
Mészáros, possiede i due terzi dei giornali locali ungheresi. “In
Ungheria – continua Miklosì – come in molti altri Paesi, la libertà di
stampa è legata al livello di scolarizzazione della popolazione. Chi
vive nelle grandi città tende a essere più attento a un’informazione di
qualità: ha un migliore acceso a internet e ad attività culturali, ha a
disposizioni più fonti, dai giornali online a quelli stranieri. Le
persone che invece, hanno avuto un breve percorso scolastico, hanno meno
possibilità di informarsi, di avere un’idea completa su quanto accade”.
In quest’ultimo caso i giornali locali e i telegiornali sono le uniche
possibili fonti di notizie. Con una campagna lunga anni, che mischia
antisemitismo, criminalizzazione delle ong, notizie false, islamofobia e
xenofobismo il governo è stato molto bravo a stigmatizzare i media
indipendenti. Per Miklosì alcuni temi sono stati trattati “dalla stampa
di propaganda con molta forza, creando una falsa percezione. Per esempio
al momento non c’è un problema sulla questione migratoria, anche se si
continua a parlare di invasione”. In Ungheria, che ha una popolazione di
10 milioni di abitanti, la quota di richiedenti asilo fissata da Orbàn e
di 5 mila profughi l’anno, lo 0,0005% dei cittadini.
“Da tempo il
governo ripete senza sosta – dice Blanka Zöldi, giornalista
investigativa in forza alla redazione di Direkt36 – che in Ungheria non
c’è posto per stranieri, soprattutto per chi scappa da guerre e
persecuzioni. Contemporaneamente, lo stesso primo ministro, ha allestito
il programma ‘visti d’oro’. Si tratta di una struttura legislativa che
permette a investitori stranieri di ottenere diversi tipi di documenti:
dalla residenza alla cittadinanza ungherese”. C’è un vero e proprio
tariffario ministeriale, con 250 mila euro si ottiene la residenza, per
la cittadinanza oltre il doppio. “Questi soldi non vanno direttamente al
Stato – continua la Zöldi – ma passano da un ristretto gruppo di
aziende con sede legale in paradisi fiscali. Stiamo parlando di quasi 20
mila casi, ognuno dei quali ha pagato tra i 20 e i 30 mila euro per il
servizio a ditte offshore. Non sappiamo chi ha veramente beneficiato di
questi soldi, ma diverse inchieste giornalistiche collegano le imprese
d’intermediazione con l’élite politica di Budapest”.
La risposta
dei media vicini al regime ungherese, la maggior parte, all’inchiesta di
Direkt36 è stata una forte campagna contro la redazione. “Non abbiamo
ricevuto alcuna pressione dal governo – conclude la giornalista – ma
siamo messi sotto torchio da altri giornali. Con una gestione così
falsata dell’informazione la grande sfida di questa redazione è quella
di non diventare un gruppo di attivisti, di non essere contro il governo
a priori. Dobbiamo continuare a raccontare quanto accade senza alcun
pregiudizio”.