lunedì 8 ottobre 2018

Il Fatto 8.10.18
Africa, contro i vecchi tiranni l’urlo dei nuovi Lumumba
Dall’idolo trash pop Bobby Wine che canta “Freeee Uganda” in faccia al presidente Museveni alla pasionaria rwandese Diane Rwigara: il continente prova a ribaltare il potere
di Michela A. G. Iaccarino

“Questa lotta non inizia e non finisce con me. Nella mia voce c’è l’eco di milioni di persone. Il presidente è al potere da quando avevo 4 anni”. Basco rosso, stella dorata, denti bianchi. Robert Kyagulanyi quando canta è Bobby Wine. Uscito dai set dei suoi video trash pop, è entrato in politica. “Freeee Uganda: siamo una generazione ottimista, non abbiamo niente da perdere oltre la nostra vita. Basta corruzione, basta povertà: liberiamo l’Uganda”. Bobby ha 36 anni, 74 ne ha Yoweri Museveni, presidente di un Paese dove “l’85% della popolazione ha meno di 35 anni”. Accusato dal capo dello Stato di tradimento, Bobby è finito in carcere ed è stato torturato, diventando però la speranza di tutti i giovani ugandesi che, da fan, sono diventati suoi sostenitori politici. Museveni è abbastanza vecchio da avere paura di Bobby, che è abbastanza giovane da non averne e sfidarlo: “Non me ne andrò. Certo che ho paura, ma ho un solo Paese”.
Il continente con i presidenti più vecchi al mondo ha la popolazione mondiale più giovane in assoluto e ora i tasselli del mosaico africano si stanno muovendo. Giovani rivoluzionari crescono, eredi di quel Patrice Lumumba ucciso dal regime del generale Mobutu in Congo nel 1961. I candidati sfidanti oggi sono capitani coraggiosi, velleitari e impreparati, ma vogliono tirare giù dal trono la vecchia guardia dei presidenti-dinosauro, che abbandonano il loro potere stantio e corrotto solo alla morte. L’Africa che cerca di arginare la fuga in Europa, creando condizioni di vita migliori, si trova in Zimbawue, Cameroon, Sudafrica, Rwanda. Se c’è una nuova faglia politica che ora spacca in due la storia è questa: “Da un lato gli oppressi, dall’altro gli oppressori”, ripete Wine.
In Rwanda Diane Rwigara, 38 anni, è finita in prigione “per incitamento alla rivolta” per aver pubblicamente criticato il regime di Paul Kagame. Attivista per i diritti delle donne, si è candidata alle elezioni presidenziali 2017 e poche ore dopo sono state diffuse foto in cui era nuda. Offesa e vilipesa, non è diventata muta: ha continuato a parlare di sanità per tutti e libertà di parola, per finire estromessa, per dettagli tecnici, dalla corsa elettorale. Il vecchio presidente ha vinto con quasi il 99% delle preferenze.
Sta per finire l’anno delle urne africane. Milioni di votanti e migliaia i candidati nel 2018: delle 54 nazioni più di 20 hanno scelto candidati da nord a sud, ma sono stati giorni di cronaca nera più che politica, per i morti degli scontri, politici e tribali. In Sierra Leone, a Kambia, in scontri violenti tra i due partiti del Paese, l’Apc, Congresso di tutto il popolo, e il Slpp, Partito del popolo, c’è stata anche una vittima.
Ieri il Camerun ha scelto se sostituire Paul Biya, un presidente di 85 anni, che rimane in carica da 36. Il Paese resta polarizzato dagli implacabili scontri tra le regioni anglofone – che si sentono discriminate – e quelle della maggioranza, francofone. La divisione, arrivata con l’uomo bianco, risale a quando il Camerun neppure era Stato, ma solo una colonia.
In Sudafrica il quasi 70enne Ramaphosa verrà sfidato alle prossime elezioni 2019 da Mmusi Maimane, nato nel 1980, e Julius Malema, classe 1981. Nessuno spodesta invece Teodoro Obiang, da 39 anni a capo della Guinea Equatoriale, dove sedeva prima suo zio, defenestrato dal nipote nel 1979. Nello Stato microscopico, con vastissimi giacimenti di petrolio, una corte francese ha condannato il figlio di Obiang per corruzione. Da Teodoro a Teodorin: il rampollo playboy è anche vicepresidente del padre, ha milioni di dollari investiti in America, decine di Ferrari e una collezione di oggetti di Michael Jackson dal valore di 2 milioni.
Joseph Kabila, da 17 anni al vertice della Repubblica democratica del Congo, ha detto che le elezioni del prossimo 23 dicembre sono “irreversibili”, o almeno così le ha definite, con baffi neri e barba bianca, nel suo ultimo discorso all’Onu, promettendo “di fare tutto per garantire che siano pacifiche”. Lui non si ricandiderà ma lo farà il suo delfino, quello che tutti chiamano il “Medvedev” di Kinshasa, l’uomo ombra, Emmanuel Ramazani Shadary, 58 anni. Omar Bashir in Sudan governa da 28 anni, un anno in più di Idris Deby in Ciad. Da 19 anni sono al potere Denis Sassou Nguess in Congo e in Algeria Abdelaziz Bouteflika. In Eritrea l’autocrate Isaias Afeweki resiste da 25 anni.
Erano 24 i candidati, vecchi e giovani, alle presidenziali dello scorso 29 luglio in Mali. Accesso ad internet limitato, terrorismo islamico che fa scorrere sangue quanto quello tribale: le urne sono diventate teatro di sparatorie e attentati e chi è andato a votare in alcune zone è andato a morire. Alla fine, dopo un ballottaggio contro il candidato d’opposizione Soumaila Cisse, l’uomo che era già al potere ci è rimasto: il presidente Ibrahim Boubacar Keita, 72 anni, già premier dal 1994. Emmerson Mnangagwa, 76 anni, successore di Mugabe, 94 anni, ha appena proposto di alzare il limite di età (attualmente è 40 anni) per i candidati alla presidenza dello Zimbabwe per “fermare gli immaturi”. In mente ha un uomo, il suo sfidante Nelson Chamisa, il volto 40enne del Movimento per il cambiamento democratico. Contro una gioventù che ritiene imprudente e canaglia si scaglia la vecchia guardia quando osserva quella nuova, a cui assomigliava terribilmente mezzo secolo prima, quando ha conquistato il potere mai abbandonato. Forse la storia questa volta sarà nuova e i giovani africani la cambieranno. Oppure andrà come è sempre andata. Lo ha detto anche Bobby Wine: “Lo so, lo so che il presidente ha promesso le stesse cose quando aveva la mia età”.

Il Fatto 8.10.18
Attenzione, attraversamento migranti sull’autostrada
Il cartello commissionato dalla California, feticcio per i collezionisti, mette i messicani in fuga sullo stesso piano dei cervi: irresponsabili e pericolosi per gli automobilisti. Un’immagine che rivela molto di noi
di Salvatore Settis


L’iconografa non è una scienza esatta, ma qualcosa dice. Il segnale stradale che invita gli automobilisti alla prudenza per non travolgere famiglie intere che attraversano l’autostrada fu commissionato nel 1989 dal California Department of Transportation a un grafico di ascendenza indo-americana, John Hood, ma fu messo in opera in un solo tratto stradale, l’ultima parte della Interstate 5, quella prossima al confine messicano, lungo la costa del Pacifico oltre San Diego. Dunque, gli esseri umani a cui gli automobilisti sono invitati a prestare attenzione sono migranti illegali che hanno appena attraversato il confine e, pur di raggiungere il territorio Usa, potrebbero azzardarsi ad attraversare un’affollatissima autostrada.
Questo segnale stradale non si può confondere con quelli collocati presso edifici scolastici, che mostrano bambini quietamente diretti a scuola. La famiglia di migranti del cartello californiano, invece, sta correndo, scappa via da qualcuno che teme. Il padre e la madre poggiano al suolo un solo piede, mentre la bambina con le treccine, presa per mano dalla mamma, nemmeno tocca terra. Fuggono per evitare che la polizia li arresti, ma potrebbero essere investiti e uccisi.
Il parallelo iconografico giusto è dunque un altro, quello con i cartelli stradali che mettono in guardia gli automobilisti dagli animali selvaggi che potrebbero tagliar loro la strada. In America spesso viene indicato anche il nome della bestia in questione: per esempio, dove c’è rischio di imbattersi in un cervo ci sono segnali stradali che ne mostrano la sagoma mentre corre, con la scritta “Deer Crossing”.
I cartelli con la famiglia di migranti collocati sulla Freeway erano varie decine, ma sul posto ne sono rimasti pochi, anche perché intanto sono diventati di moda come oggetto di collezione, e infatti se ne trovano in vendita ogni tanto su eBay e simili. Ora, nessuno negherà che chi ha commissionato, disegnato, prodotto, collocato quei cartelli avesse anche l’intenzione di salvare vite umane. Ma c’è qualcosa di più in questo ridurre un’intera famiglia di esseri umani ad anonime sagome che corrono nel buio come bestie selvagge, senza sapersi fermare nemmeno davanti all’imponente nastro d’asfalto di una trafficatissima autostrada.
Il migrante viene qui rappresentato come radicalmente altro dal cittadino americano che sta guidando e che potrebbe ucciderlo. Sul cartello non è scritto (come nel caso del cervo) il nome di chi corre per la strada, ma una sola parola: “Caution”, attenzione. Esortazione rivolta, come tutti i cartelli di tutte le autostrade, a chi guida: sia prudente l’automobilista, visto che il migrante non sa esserlo! La prudenza è virtù degli americani, non di un qualche migrante che potrebbe far cose che un bravo yankee non farebbe mai, attraversare un’autostrada trascinando anche i bambini in un rischio mortale. Forse sarà così selvaggio da non sapere che cos’è un’autostrada? O non capisce niente perché preso dal terrore di essere arrestato mentre tenta di valicare il confine? L’automobilista viene invitato a salvare la vita dei migranti, ma anche a guardare dall’alto in basso la loro condizione umana. E che cosa mai penserà chi ha acquistato su eBay un cartello come questo? Lo considererà forse una neutra “opera d’arte” da appendere in salotto? Intanto Banksy ha interpretato da par suo questo segnale stradale (2011): le sagome sono identiche, ma corrono per far volare un aquilone, la loro speranza di una vita migliore.
L’esperienza dei migranti sul confine Usa-Messico è stata descritta mille volte, per esempio in un’impressionante installazione di Alejandro Iñárritu alla Fondazione Prada di Milano, Carne y Arena, che costringeva gli spettatori a mettersi nei panni dei migranti. Un ex agente della polizia americana di confine, Francisco Cantù (origini messicane, cognome brianzolo), ha descritto in un libro, The Line Becomes a River (2017), la sua lenta conversione dalla routine dei respingimenti all’identificazione emotiva con le ragioni dei migranti. Ma il miglior commento a quel che accade su quella linea di confine si legge in un racconto di Carlos Fuentes, Rio Grande, Rio Bravo, dove l’agente-protagonista “detesta i migranti illegali, ma al tempo stesso li ama, perché ne ha strettamente bisogno”. Senza di loro, infatti, non ci sarebbero operazioni di polizia, pattuglie, discorsi sui respingimenti, spese per le armi o gli elicotteri, eccetera. Ma nonostante tutto, nonostante Donald Trump, i muri e le restrizioni e i cartelli stradali, quel confine non può essere sigillato, come nessun confine mai poté esserlo nella storia umana. Qualcosa da imparare da storie come questa c’è forse anche per chi si affaccia su quel vasto intreccio di autostrade che si chiama Mediterraneo. Perché anche dalle nostre parti c’è chi detesta i migranti ma ne ha bisogno, e se ne serve per i propri scopi.

La Stampa 8.10.18
Tentazioni illiberali sull’aborto
di Vladimiro Zagrebelsky

La mozione approvata dal Consiglio comunale di Verona su una proposta leghista e con il voto favorevole della capogruppo Pd in tema di aborto ha dato spazio all’abituale, insopportabile schieramento di opposte tifoserie, pronte ad alterare i fatti pur di sostenere i propri slogan radicali e semplicistici.
Sempre più raramente ormai, anche su temi complessi e delicati come è certo quello dell’interruzione di gravidanza, si sente argomentare riconoscendo che esistono ragioni contrapposte, che occorre trovare un accomodamento ragionevole, che i concreti fatti della vita sono vari e richiedono risposte adatte e diverse. Da una parte si è sentito dire che la legge n.194 del 1978 avrebbe finalmente riconosciuto la libertà della donna di abortire e dall’altra si è detto che ogni aborto è un crimine, un omicidio. Ma né il documento veronese, né, soprattutto, la legge e la Costituzione danno sostegno all’una o all’altra affermazione.
La legge non riconosce un diritto all’aborto nel senso che si tratti di una libertà della donna. La legge nega che l’aborto possa essere mezzo per il controllo delle nascite e impegna lo Stato, le Regioni e gli enti locali a sviluppare i servizi socio-sanitari e ad assumere iniziative per evitare che l’aborto sia usato al fine di limitare le nascite. Con questa premessa, la legge poi prevede condizioni e procedure per consentire entro i primi novanta giorni l’interruzione di una gravidanza che comporti un serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o alla previsione di anomalie o malformazioni del concepito. L’accesso all’intervento abortivo è dalla legge garantito in quelle circostanze, cosicché parlare di libertà di aborto è una forzatura che la legge non consente.
Certo dal 1978 a oggi molte cose sono cambiate e ad esempio lo sviluppo delle pillole abortive ha modificato il quadro delle possibilità praticamente disponibili, ma la legge non è stata modificata. E la Corte costituzionale ha stabilito che la tutela del concepito ha fondamento costituzionale poiché la Costituzione riconosce i diritti inviolabili dell’uomo «fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito». Tuttavia «non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare». Nello stesso senso, nel quadro della Convenzione europea, si è pronunciata la Corte europea dei diritti umani, che ha ritenuto equilibrata la soluzione adottata dalla legge n. 194 nel contemperare le esigenze della donna con l’interesse del feto, meritevole di tutela. Non esiste dunque una libertà o un diritto senza limiti di porre termine alla gravidanza. Di diritto si può parlare quando siano presenti le condizioni stabilite dalla legge.
È probabile che nella realtà le condizioni poste dalla legge siano ignorate o superate. E che quindi il richiamo alla legge sia in qualche misura ipocrita, come per altro verso è ipocrita gran parte del massiccio fenomeno dell’obiezione di coscienza dei medici. Il Comitato nazionale di bioetica ha affermato che l’obiezione di coscienza non può essere strumento di sabotaggio della legge, tanto più se «nelle mani di minoranze fortemente organizzate, oppure oggetto di abuso opportunistico da parte di singoli». E il Comitato europeo dei diritti sociali ha constatato che spesso l’Italia non garantisce alle donne l’applicazione della legge n. 194. Stando così le cose è senza senso e, nei confronti di donne che si trovano in grandi difficoltà, è disumano parlare dell’aborto come di un crimine o un omicidio. Per la verità, non in questi termini si è espresso il Consiglio comunale di Verona, anche se il retroterra implicito sembra proprio essere quello.
Il linguaggio intollerante che, anche questa volta, è stato usato da una parte e dall’altra per squalificare le posizioni contrapposte, insieme all’inclinazione alla censura, è particolarmente preoccupante. In Francia sono sanzionate le organizzazioni (cattoliche) che, rispondendo alla richiesta di informazioni e sostegno da parte di donne incinte, le sconsigliano di ricorrere all’aborto. A Roma, recentemente si sono fatti staccare manifesti di un’associazione contraria all’aborto. Facciamo attenzione: l’espressione di opinioni è un diritto da tutelare con scrupolo sempre, anche da parte di chi le trova sbagliate e sgradevoli. C’è già troppa «democrazia illiberale» che incombe perché le si prepari il terreno, proprio da parte di chi, in nome della libertà, dovrebbe contrastarla.

Il Fatto 8.10.18
Non avrai altro Dio all’infuori della Pasta
Venerano il Prodigioso Spaghetto Volante, il loro Paradiso è un vulcano che erutta birra, indossano uno scolapasta come copricapo: è la Chiesa pastafariana in cerca di un riconoscimento e dell’8 per mille
di Lorenzo Giarelli

Venerano uno spaghetto volante, il loro Paradiso è un vulcano che erutta birra e indossano uno scolapasta come copricapo religioso. Tutto questo è la Chiesa pastafariana italiana, emanazione nostrana di un culto nato nel 2005 negli Stati Uniti per volere di Bobby Henderson, che reagì alla decisione del consiglio per l’istruzione del Kansas di insegnare il creazionismo nelle scuole come un’alternativa alla teoria dell’evoluzione. Henderson decise allora di spargere il mito del Prodigioso Spaghetto Volante, la divinità a forma di spaghetti e polpette da cui tutto ebbe inizio, chiedendo che gli venisse riconosciuta pari dignità rispetto a tutte le altre religioni. Da allora – carboidrati a go-go – i suoi adepti ne hanno fatta di strada, tanto che adesso la capa spirituale italiana porterà il suo culto anche in un blog su MicroMega.
Lei si chiama Emanuela Marmo, ha 39 anni ed è nata a Sarno (Salerno) ma si firmerà col suo nome religioso: Pappessa Scialatiella Piccante I. E guai a chi non prende seriamente la cosa: certo, vien facile dire che il pastafarianesimo sia una grande provocazione per smascherare le contraddizioni delle altre religioni – e forse lo è – ma gli adepti considerano il loro credo tutt’altro che scherzoso. L’ironia, semmai, è nel modo di comunicare, non certo nei contenuti: “Perché una divinità con una testa d’elefante – si chiede la Pappessa – è ritenuta credibile e un dio fatto di spaghetti no? Per quale motivo non ci facciamo problemi per un Dio che cammina sulle acque ma sorridiamo del pastafarianesimo?”.
Domande su cui da tempo le chiese dello Spaghetto volante di tutto il mondo incalzano le istituzioni locali. In Italia per il momento il culto non è riconosciuto come una religione: “Siamo un’associazione religiosa – spiega Pappessa Scialatiella Piccante I – e abbiamo intenzione di chiedere il riconoscimento, ma per poterlo fare dobbiamo avere dei requisiti giuridici che stiamo perfezionando”.
Serviranno tempo e nuovi iscritti (per il momento i soci sono solo 300), ma intanto in giro per il mondo i pastafariani lottano a mani nude contro la burocrazia. Senza dimenticare, molto prosaicamente, il vil denaro: se i pastafariani riuscissero a farsi riconoscere come religione, potrebbero rientrare nella distribuzione dell’8 per mille, il gettito che ogni anno garantisce circa un miliardo di euro alla Chiesa cattolica e 200 milioni ad altre undici confessioni. A quel punto, altro che spaghettate.
Nel 2014 Jessica Steinhauser, residente nello Utah, è riuscita a farsi accettare come foto della patente una sua immagine con lo scolapasta in testa. Nello stesso anno Christopher Schaeffer, membro del consiglio comunale di Pomfret, ha giurato con in testa il sacro copricapo, diventando il primo politico pastafariano americano eletto a incarico pubblico. In Nuova Zelanda il culto ha invece ottenuto il suo scopo fino in fondo ed è riconosciutao come religione, mentre in Olanda dopo un primo permesso è arrivato lo stop da parte del Consiglio di Stato.
Piccoli passi che danno coraggio ai pastafariani italiani, che intanto diffondono il verbo: “La birra è la nostra bevanda sacra, Bobby Henderson è il nostro profeta e, a differenza delle altri religioni, noi non ci fondiamo su dogmi e pure la capa spiriturale può fallire”. Non c’è alcuna punizione per chi non crede e nessun divieto di offendere il Prodogioso. È tutto scritto negli otto condimenti, dettati dallo Spaghetto Volante al pirata Mosey sul monte Sugo. Che c’entra un pirata in questa storia? I pirati sono il popolo eletto dal Prodigioso: non a caso, spiegano i pastafariani, da quando il numero di pirati sulla Terra è diminuito sono iniziati molti dei guai del mondo, a partire dal surriscaldamento globale.
Un’altra provocazione? Forse, ma serve a dimostrare che non sempre correlazione vuol dire causalità. Il pastafarinesimo, poi, porta con sé diverse battaglie sociali: “Il nostro culto è intimo – chiarisce la Pappessa – e pensiamo che la laicità sia la condizione primaria di qualsiasi democrazia, altrimenti le religioni entrano in conflitto per condizionare il pubblico con i propri insegnamenti”. E poi ci sono le manifestazioni per la libertà sessuale, per l’eutanasia e “per tutto ciò che esalti la scelta dell’individuo”. Facendo i conti con chi prende tutto come un gioco un po’ da matti: “È un paradosso, – dice la Pappessa – se sei felice, ridi del mondo e utilizzi l’ironia sembra che tu non possa dire cose serie. Non abbiamo bisogno di piangere o di picchiare per denunciare quel che non va”.

Corriere 8.10.18
L’anomalia italiana
La sinistra e il popolo «tradito»
di Ernesto Galli della Loggia

L’avanzata populista-sovranista caratterizza da tempo l’intero scenario continentale ma in Europa occidentale solo l’Italia vede un governo di questo tipo. Solo in Italia una forte maggioranza dell’elettorato appoggia questo orientamento.
È un caso? Non credo. È piuttosto una conseguenza — avanzo questa ipotesi — dell’assenza specialmente a sinistra, nel corso dell’esperienza storica repubblicana, di un partito espressione autentica degli strati popolari, che poi qui da noi sono stati sempre quanto mai contigui e intrecciati a una frastagliata e vasta piccola borghesia. Espressione non solo e non tanto delle rivendicazioni materiali di questi strati sociali ma soprattutto di un humus culturale, di una mentalità, se vogliamo pure di certi pregiudizi, di un linguaggio, di un semplice senso delle cose, che potessero dirsi davvero di tono popolare. Popolare e perciò nazionale. Ci è mancato insomma quel tipo di partito che altrove nell’Europa occidentale è stato e continua ad essere per molti aspetti incarnato, pur tra non poche difficoltà, dai partiti della socialdemocrazia classica in stretta unione con le centrali sindacali.
In Italia, invece, come si sa, al posto di un tale partito c’è stato il Partito comunista. Ora il Partito comunista non è mai stato e non ha mai voluto essere un partito popolare tipo il Partito laburista o la Spd tedesca.
partiti cioè nati e in certa misura rimasti in prevalenza culturalmente e antropologicamente popolari e nazionali (spesso guidati non a caso anche da leader usciti dagli strati popolari). Il Partito comunista è sempre stato una cosa diversa. Esso nacque come partito di avanguardie rivoluzionarie perlopiù intellettuali, le quali verso il popolo come tale e verso il suo universo nutrivano una notevole diffidenza. Nei confronti della stessa classe operaia quelle avanguardie si ponevano in un ruolo superiore di guida, autoassegnandosi il compito di correggere in senso rivoluzionario la spontanea, presunta tendenza popolare alle rivendicazioni, definite sprezzantemente «corporative» (leggi più alti salari e migliori condizioni di vita).
Certo, il Pci di Togliatti è poi stato un’altra cosa. Per decenni la sua storia è stata anche una storia, e come!, di rivendicazioni «corporative». Ma fino all’ultimo, diciamo fino a Berlinguer , c’è stata sempre nei dirigenti e nei quadri del Pci, l’idea che in realtà quelle rivendicazioni dovessero servire a un fine storico ben più importante: al «superamento del capitalismo», alla trasformazione della società, come minimo ad un grande incontro epocale con «i cattolici». Proprio perché funzionali a un simile obiettivo politico trascendente, le rivendicazioni «corporative» potevano/dovevano essere, diciamo così, gestite «politicamente»: cioè accentuate o smorzate a seconda delle circostanze in vista del fine generale. E anche il «nazional-popolare» predicato dal Pci è stato in grandissima parte solo una facciata per nascondere l’antioccidentalismo filosovietico.
Le rivendicazioni «corporative», poi, furono sempre gestite da una leadership per mezzo secolo rappresentata in grande maggioranza da intellettuali (nella direzione del Pci le personalità di origine operaia o popolare sono state sempre rarissime), con i gusti, le frequentazioni, gli abiti di vita, tipici degli intellettuali (causa non ultima, peraltro, dell’influenza esercitata da quel partito sulla cultura italiana). In Italia perfino la Cgil è stata affidata per anni a un raffinato intellettuale come Bruno Trentin, i cui diari testimoniano il vero e proprio disgusto che gli destavano le pratiche quotidiane e le vicende minute della litigiosa vita sindacale.
L’avversione profonda del Partito comunista verso ogni elemento genuinamente popolaresco, verso le inevitabili incoerenze, umoralità generose, velleità e spontaneismi, spesso propri di tale elemento si è espresso in una sua caratteristica storica precisa: nella diffidenza venata di disprezzo che il Pci ha sempre nutrito verso la tradizione del socialismo italiano, considerata il riassunto delle cose negative appena dette. Diffidenza presente fin dalle origini nel dna comunista e che non è venuta mai meno. Fino alla logica conseguenza che, quando dopo l’89 il nome «comunista» è divenuto impresentabile, il Pci ha preferito cambiarlo chiamandosi «di sinistra» e poi «democratico», ma dio ne scampi, giammai socialista o socialdemocratico.
A ben vedere, poi, neppure la Democrazia cristiana – che pure traeva origine da un’esperienza che non aveva esitato a definirsi «popolare» (quella del Partito fondato da don Sturzo) – ha rappresentato un’esperienza in cui l’autentico elemento popolare italiano abbia potuto davvero riconoscersi antropologicamente e culturalmente, non bastando certo a questo scopo la comune fede cattolica. Non da ultimo, infine, perché anche in questo caso come nel caso del Pci la base non ha mai avuto di fatto molta voce in capitolo nella scelta né dei vertici né della piattaforma politica del partito.
Dunque nel corso della prima Repubblica l’elemento popolare-piccolo borghese è stato in realtà più che altro l’oggetto di un vasto disciplinamento socio-ideologico ad opera dei due partiti maggiori. Di fatto esso non ha maturato un’educazione politica fondata in qualche misura sulla sua identità, non è stato il centro motore in prima persona di un’esperienza politica. Molto probabilmente non poteva essere che così a causa di motivi storici legati all’arretratezza del Paese, ma il fatto che le cose siano andate così ha avuto l’effetto che quando i maestri si sono allontanati dall’aula, allora la classe ha cominciato a fare per conto proprio, con una buona dose d’improntitudine e d’improvvisazione. E di aggressività, proprio come succede alle scolaresche lasciate a se stesse. Ha cominciato a guardare con simpatia a leader politici che si muovevano e parlavano come lei, che sbagliavano i congiuntivi e indossavano la felpa al pari di lei, che ostentavano di ragionare e mostravano di reagire come lei. Che non si vergognavano – anzi! – di essere e soprattutto di apparire «popolo» e piccola borghesia come lei.
Fuor di metafora, scomparsi il Partito comunista e la Democrazia cristiana ed evaporatasi in pochi anni la loro lezione, si è aperto nel Paese un gigantesco vuoto di direzione politico-culturale. Nel quale il «popolo piccolo borghese» (ormai è un tutt’uno) ha avuto modo in certo di autonomizzarsi e di prendersi quel ruolo di protagonismo che l’antica costellazione del partitismo italiano, specie quello di sinistra, gli aveva sostanzialmente negato e al quale non si è mai curato di prepararlo affidandosi al più alla cooptazione dall’alto.
I «barbari» della cui invasione qualcuno oggi parla non sono affatto tali, dunque. In realtà essi sono stati qui con noi da sempre. Erano il pubblico dei «nostri» comizi, gli iscritti dei «nostri» bei partiti, quasi sempre anche i «nostri» elettori. Solo che abbiamo dimenticato di mandarli a delle buone scuole, di impartirgli lezioni di buona politica, di ascoltare ciò che avevano da dire, di prepararli alla vita. E così è finita che appena ci siamo distratti loro hanno deciso di fare da soli.

Il Fatto 8.10.18
Tra Padre Pio e l’ulivista Scoppola, Conte si proclama bergogliano
L’intervista di “Famiglia Cristiana” al premier: il dossier Viganò è un “vile e meschino attacco” al papa
di Fabrizio d’Esposito

Il governo gialloverde e la questione cattolica, come si diceva un tempo. Sinora l’ostentazione della fede cristiana, pacchiana e strumentale allo stesso tempo, è stata un tratto distintivo della parte di estrema destra della maggioranza, quella leghista. E non solo per l’ormai famoso rosario stretto da Matteo Salvini al comizio conclusivo davanti al Duomo di Milano, alle ultime Politiche, ma anche per le sortite tradizionaliste del ministro Fontana contro l’aborto e la dottrina dell’omosessualismo, come la chiamano i clericali anti-Bergoglio sui loro siti d’informazione.
Per riassumere: un “governo crociato”, così definito dalla copertina dall’Espresso di due settimane fa, perfettamente allineato, inoltre, con l’opposizione farisea che contrasta papa Francesco con ogni mezzo, dalle confutazioni teologiche ai dossier sulla pedofilia.
A tentare di spezzare questa narrazione di un cattolicesimo guerriero e padano è arrivata giovedì scorso la lunga intervista del premier Giuseppe Conte al condirettore di Famiglia Cristiana, Luciano Regolo. Ossia al settimanale di maggior diffusione tra i credenti che l’estate scorsa ha accostato il ministro dell’Interno a Satana (Vade retro Salvini) per i migranti fermati in mezzo al mare.
Il premier fa una difesa scontata del suo governo, peraltro molto ingessata, ma concede un paio di novità non secondarie su altri punti. Partendo ovviamente dalla sua devozione per Padre Pio – Conte è di San Giovanni Rotondo – il giurista chiamato a Palazzo Chigi giudica “vili e meschini” gli attacchi a Bergoglio da parte della “destra radicale e sovranista”. Compreso quel monsignor Viganò, inquisitore a scoppio ritardato sulla pedofilia in Vaticano.
E quando poi Regolo gli chiede un’opinione sul ritorno di un partito dei cattolici, Conte risponde: “Per parafrasare liberamente il pensiero di Scoppola, più che a una rinnovata ‘democrazia cristiana’ penso piuttosto a una ‘democrazia dei cristiani’”. Pietro Scoppola, già senatore dc, è stato tra i più grandi esponenti e studiosi del cattolicesimo democratico. Nonché ulivista convinto.

Il Fatto 8.10.18
Qualche consiglio personale a chi farà la fiction tv sul Duce di Scurati
Il successo del progetto della casa di produzione Wildside potrebbe dipendere dal ruolo che si darà al revisionismo storico
di Pietrangelo Buttafuoco

Il “tomo del momento”, per come lo definisce sul Fatto Fabrizio d’Esposito, diventa una serie televisiva. M. Il figlio del secolo, il libro Bompiani con cui Antonio Scurati prova a raccontare Benito Mussolini e il fascismo come un romanzo di un io corale è già un progetto di Wildside, la casa di produzione di Lorenzo Mieli e Mario Gianani, per farne un successo nel solco di altri fortunati titoli, da The Young Pope di Paolo Sorrentino a L’amica geniale tratto dal felicissimo bestseller di Elena Ferrante. Buon per loro, anzi, beati loro così pronti a mieter piccioli dall’ingegno, ma il caso M – inevitabilmente “autobiografia dell’Italia”, dunque ghiotta occasione – ci solletica un consiglio non richiesto. Ed è quello di dar fondo a un’immaginazione ancor più impegnativa. C’è da farne, insomma – del figlio del fabbro – una sorta di Chanson de Benito. Altrimenti niente, neppure metterci mano. Nel solco dell’intuizione di Scurati – farne un romanzo “in cui d’inventato non c’è nulla” – non si può inciampare nel dogma dell’anti. Ogni anti proviene – come ogni anti – dallo stesso fondamento essenziale di ciò contro cui è anti. La sceneggiatura patirebbe, manco a dirlo, di ovvietà. E fare per come s’è fatto sempre – l’anti – garantisce forse la proiezione in anteprima al Quirinale ma non arriva a quagliare il climax narrativo, si smoscia nell’etica, sbanda nell’etichetta e s’imbraca nella rimozione del non detto. Il motivo principale per cui M di Scurati piace è proprio nella potenza totemica di M, la M in quanto tale stampata sulla copertina del libro di cui è perfino secondario – nella consacrazione del successo – leggerlo per intero. Un precedente – un caso editoriale internazionale – fu il Mussolini di Renzo De Felice: un capolavoro della storiografia in più tomi voracemente acquistato dal pubblico e neppure letto ma “posseduto”. Un bestseller, quello, “voluto” in virtù di un crisma, il revisionismo, presto svelatosi nella magia del mercato come un procedimento di distanza – un vero e proprio occhio terzo nella lettura critica – perfetto anche per farne chanson a-ideologica. Giuliano Ferrara sostiene, giustamente, che in tema di comunismo l’unico revisionismo che funziona è quello fatto dagli ex comunisti. François Furet, lo storico francese, fa testo. Renzo De Felice, storico del fascismo, non era certo un ex fascista, motivo per cui il revisionismo su M non arriva mai a compimento. Ma sono i famosi dettagli della storia. Intanto, il consiglio non richiesto alla spett. Wildside: il revisionismo è un metodo di coerenza drammaturgica, specie nella serialità “in cui d’inventato non c’è nulla”. C’è l’epos e – trattandosi di uno specialissimo “io” – immedesimazione. Quella che garantisce il successo a un prodotto commerciale.

Caro Pietrangelo, io sono “anti” com’è “anti” la nostra Costituzione, e proprio per questo non censuro il tuo articolo, che è “pro”. Ovviamente una serie televisiva biografica dovrebbe raccontare Mussolini per quello che è stato: tante cose, ma soprattutto un tiranno che rovinò l’Italia con la guerra, la privò della libertà con la dittatura e le tolse la dignità con le leggi razziali.
M.Trav


Il Fatto 8.10.18
Ospedali: servono 20 mila medici
Codice rosso - A causa dei pensionamenti e della mancata programmazione del futuro le previsioni sono sempre più negative. Introvabili anche anestesisti, pediatri, ginecologi
di Chiara Daina

Il Sistema sanitario italiano, nell’anno del suo quarantesimo compleanno, è a secco di medici. Ne mancano già almeno 10mila. Introvabili anestesisti, pediatri, ginecologi e medici di pronto soccorso. Reparti ridotti all’osso, con turni massacranti anche di 70 ore a settimana, e assistenza a rischio tilt: la direttiva europea sull’orario di lavoro per il personale sanitario impone un limite di 48 ore di lavoro settimanali (straordinari compresi) ma nei nostri ospedali viene spesso violata.
Il sindacato Anaao – che ha proclamato diversi giorni di sciopero per ottobre – stima tra 5 anni la fuoriuscita di più di 45mila camici bianchi che saranno sostituiti da 25mila colleghi creando un vuoto di 20mila posti; causa l’impennata di pensionamenti: 35mila da qui al 2022 (e circa 10mila tra il 2015 e il 2017), e una mancata programmazione per il futuro. A bloccare l’ingresso di nuovi medici è l’imbuto formativo. ll Miur per il 2017/2018 ha finanziato 6200 borse di formazione, meno delle 8569 richieste dalle Regioni. Il risultato è che ai bandi non si presenta quasi più nessuno. Un quadro che si complica con la fuga di medici dal pubblico al privato, che offre contratti più vantaggiosi. Matteo Scardigli, anestesista, si è licenziato dall’azienda ospedaliera di Verona per trasferirsi in una clinica privata di Firenze: “Guadagno più del triplo e non ho turni infernali, di notte o nei festivi, con 18 pazienti da seguire da solo”. Carlo Palermo, segretario nazionale Anaao, spiega: “Se passa quota 100 nel 2019 spariranno 25mila medici in più, un disastro. La sopravvivenza del sistema sanitario non è una questione di soldi ma di scelte politiche. Abbiamo chiesto al governo di aumentare i contratti di formazione e assumere gli specializzandi all’ultimo anno per coprire i turni”. Intanto per tamponare l’emergenza le aziende infilano nei pronto soccorso medici senza specializzazione, acquistano prestazioni in intramoenia, e ricorrono a specialisti a gettone, assunti da cooperative o società esterne, che prendono fino a 90 euro lorde l’ora.
Alto Adige. Per frenare la fuga verso l’Austria la Provincia autonoma di Bolzano con una legge di luglio consente l’assunzione di medici senza specializzazione come in Austria, contrariamente a quanto previsto dalla normativa nazionale che vieta qualsiasi forma di assunzione a medici privi di specializzazione.
Trentino. L’azienda provinciale è andata a caccia di medici all’estero, pagando annunci sulla stampa tedesca, austriaca, francese, inglese. Per attirare personale ha trasformato i concorsi per posti temporanei, che vanno deserti, in concorsi per assunzioni a tempo indeterminato.
Lombardia. “Negli ospedali di Tradate, Codogno, Merate e Voghera di notte l’anestesista è solo reperibile e a Pavia uno dei due di turno è in reperibilità sostitutiva”, denuncia Cristina Mascheroni di Aaroi-Emac. Per non avere morti sulla coscienza c’è chi dorme in hotel o in reparto (con il cartellino non timbrato). Chiuso ad aprile il punto nascita di Codogno per carenza di ginecologi. La Regione ha varato una legge che consente agli specializzandi all’ultimo anno di fare assistenza ma il governo ha impugnato la norma.
Veneto. Esodo di almeno 70 medici nel privato da gennaio. Il caso più critico a Camposampiero: su 8 pediatri, 3 hanno dato le dimissioni e altri 3 le hanno annunciate. In altre pediatrie l’attività è portata avanti da medici gettonisti. A Rovigo vogliono esternalizzare il 118 perché nei reparti sono a corto di anestesisti. Centri trasfusionali ko: orari ridotti di prelievo, ritardi nella elaborazione dei dati e molti meno donatori.
Piemonte. Su 25 pediatrie 10 ricorrono a medici a chiamata. Il reparto più sofferente ad Alba: i pediatri gettonisti coprono 25 notti al mese. Tutto il punto nascite di Borgosesia è passato nelle mani di una cooperativa. Affidati totalmente a medici a chiamata, da fuori regione (dalla Sicilia anche), il pronto soccorso di Cuorgnè e Lanzo. Quello di Chivasso solo parzialmente.
Friuli Venezia Giulia. Appaltati a una cooperativa i pronto soccorso di Sacile e Maniago. Valtiero Fregonese (Anaao): “Un solo medico reperibile allo stesso tempo nei reparti di urologia e gastroenterologia dei 4 presidi ospedalieri dell’Aas2 Basso Friulana-Isontina distanti tra di loro circa 30 km, con disagi lavorativi e logistici”.
Valle d’Aosta. Stop agli incentivi per chi arriva da fuori regione e per tappare i buchi si ricorre a una decina di “medici in affitto”. Nella stagione estiva 3 gettonisti hanno garantito l’apertura del pronto soccorso ortopedico dell’ospedale Parini. Esternalizzate visite ed ecografie cardiologiche presso cliniche private convenzionate.
Liguria. “Fino a 4 mesi di ferie accumulate e 200mila ore di lavoro extra”, denuncia il segretario Anaao Giovanni Battista Traverso. I disagi peggiori nell’Asl di Savona: per la mancanza di anestesisti e ortopedici si fanno 500 operazioni in meno l’anno (-15%). La gestione di 3 presidi (Albenga, Cairo Montenotte, Bordighera) passerà al privato accreditato che dovrà riaprire i pronto soccorso in ciascuna struttura.
Sardegna. Ridotte le visite cardiologiche in tutti i presidi dell’Ats (azienda per la tutela della salute). Decimati i radiologi, soprattutto a Sassari, con tempi dilatati per ecografie, tac e risonanze. A Oristano l’emodinamica è aperta solo 6 ore al giorno, l’Obi è stato chiuso e si fanno 15 interventi in meno alla settimana.
Emilia Romagna. Per evitare il collasso dei pronto soccorso richiesta la collaborazione di medici neolaureati e specializzandi (in partita iva) per i codici più semplici. Al Maggiore di Parma è andato deserto un bando per il pronto soccorso: la scadenza è stata posticipata sperando si presenti qualcuno.
Toscana. Oltre 10 milioni di euro investiti dalla Regione per comprare prestazioni in regime di intramoenia: esami di diagnostica, visite ambulatoriali e interventi chirurgici. “Molti specializzandi del Sud finito il percorso di formazione tornano a casa e ci lasciano a piedi. Bisogna formare medici che restino in Toscana” è la richiesta del segretario Anaao Flavio Civitelli.
Umbria. Nell’azienda ospedaliera di Perugia “i dottorandi fanno attività clinica nonostante il contratto di ricerca – spiega David Giannandrea di Anaao giovani –, gli specializzandi assistono i pazienti senza tutor e negli ambulatori ci sono medici assunti da associazioni terze”.
Lazio. Nell’Asl di Latina 204 medici su 770, quasi il 30%, sono precari e in corsia si lavora fino a 70 ore a settimana. All’ospedale Spaziani di Frosinone le sale operatorie sono rallentate dalla carenza di anestesisti. “Ci sono pazienti con tumore in attesa da maggio e uno da dicembre” denuncia Tommaso Trementozzi di Anaao.
Abruzzo. Specialisti in fuga nelle cliniche del Nord. Spariti gli allergologi all’Aquila, a Castel di Sangro il pronto soccorso funziona a singhiozzo.
Marche. Tutte le guardie notturne pediatriche all’ospedale di Urbino sono state appaltate a pediatri in pensione. Nella provincia di Ancona i bandi per i pronto soccorso sono andati a vuoto e si continua a lavorare saltando riposi e ferie. Preoccupato il segretario Anaao Oriano Mercante: “Per coprire 30 notti perdiamo 60 turni diurni, metà del personale, perché dopo 12 ore di lavoro la legge impone 11 ore di riposo”.
Molise. Un reparto di ortopedia e uno di pediatria dovranno chiudere perché nessuno partecipa ai bandi e si fa fatica a trovare anche i liberi professionisti. A Isernia per esempio mancano 4 ortopedici su 8 e a breve uno andrà in pensione: con 3 soli ortopedici il reparto si blocca se non si accorpano le risorse.
Puglia. A rischio chiusura il punto nascita di San Severo e 3 ortopedie su 4 dell’Asl di Taranto. Al Ss. Annunziata il 118 ha metà dell’organico e il pronto soccorso ricorrerà ai neolaureati per i codici bianchi e verdi. A Manduria al bando hanno risposto 2 urologi dall’Albania. E la Asl di Foggia “nel 2017 ha sforato di 200mila euro il tetto di spesa per comprare prestazioni in intramoenia”, spiega Giosafatte Pallotta di Anaao,
Basilicata. Il budget di 900mila euro per comprare prestazioni aggiuntive quest’anno verrà usato tutto, mentre nel 2017 la spesa si era fermata a 800mila euro. Medici reperibili anche dopo la guardia notturna e psichiatri in prestito dall’Asl2 di Salerno per sopperire alle carenze nell’ospedale di Villa d’Agri.
Campania. A Napoli per un intervento al femore si aspettano almeno 10 giorni e si parcheggiano pazienti in sala operatoria perché le rianimazioni sono intasate. Al San Paolo gli ortopedici operano a giorni alterni e il nuovo ospedale del Mare è ancora in attesa di 286 medici su 433 in pianta organica.
Calabria. Chiuse a Locri la radiologia e l’ortopedia. “Se ti rompi una gamba per la radiografia vai a Polistena, a quasi 50 km, poi torni a Locri e se ti serve un gesso ritorni a Polistena, dove però di notte l’ortopedico è solo reperibile, oppure vai a Reggio Calabria, che dista 100 km”, spiega il segretario Anaao Filippo Larussa. Gli ospedali di Praia a Mare e di Trebisacce rimangono in parte chiusi per la difficoltà di reclutare personale.
Sicilia. Anestesisti e chirurghi reperibili nei turni pomeridiani perché in reparto il personale non basta. Intanto la Regione ha promosso la mobilità interregionale per attirare sull’isola chi ha studiato e ha iniziato a lavorare al Nord e c’è chi torna a casa.

Il Fatto 8.10.18
“Orbán ci sta comprando, è come prima del 1989”
Il primo ministro sta spingendo oligarchi amici all’acquisto di quanti più media possibile: hanno già cambiato proprietà 550 giornali, 20 canali televisivi e 11 radio. E chi non si adegua ha problemi
di Cosimo Caridi 

Un enorme ficus, alto quasi cinque metri, ha il posto d’onore nel grande open space dove lavorano 60 giornalisti: la redazione di Index. Ma tutto sta per cambiare. La proprietà del più grande, e influente, giornale online dell’Ungheria è passata di mano pochi giorni fa. “Da un’oligarca vicino a un altro molto vicino al governo – spiega Gabor Miklòsi, caporedattore del quotidiano web – ma in mezzo c’è una fondazione e tutta la questione di chi comanda e dove verremo spostati rimane oscura”.
In questo momento ogni cambio di proprietà dei media viene percepito, dalla società civile ungherese, come un tentativo del governo per ottenere maggiore controllo dell’informazione e mitigare i contenuti pubblicati. Dal 2010, quando Fidezs, il partito di Viktor Orbán, ha vinto le prime elezioni, il Paese è sceso di 50 posizioni nella classifica, redatta annualmente da Reporter senza frontiere, della libertà di stampa.
“Se io non potrò continuare a lavorare qui – dice Miklòsi – perché Index perderà indipendenza, allora non potrò fare il mio mestiere in nessun altro posto. Ci sono altri media indipendenti, però non riescono a crescere. Il mercato è distorto dallo stesso governo”. Orbán sta incoraggiando gli imprenditori che gli sono vicino a comprare più media possibile. Questa spinta a omogenizzare l’editoria cancella, di fatto, la diversità che ha caratterizzato la stampa ungheresi dalla transizione del 1989. L’impressione di Miklòsi è che “stia tornado lo Stato-partito. Ero bambino sotto il comunismo, ma ora, da giornalista adulto, è molto duro vedere che la libertà di stampa viene, a poco e poco, cancellata”.
Sono in mani amiche del governo, oltre alle maggiori televisioni commerciali nazionali, tutti i giornali regionali. A chiudere il cerchio c’è un mercato pubblicitario viziato. I piccoli editori non ricevono sovvenzioni statali, ma “l’80/90 percento delle loro entrate pubblicitarie – spiega il giornalista di Index – arriva da campagne governative”. Pubblicare un articolo contro l’esecutivo vorrebbe dire andare a perdere la fonte di sostentamento dei giornalisti stessi. Non c’è bisogno di censura in un sistema che fa dell’autocensura l’unica possibilità di riceve un salario.
La volontà di addomesticare la stampa fa parte del programma di Orbàn sin dal suo primo giorno di governo. Da quando ha preso il potere hanno cambiato proprietà: 11 radio, 20 canali televisivi e 550 giornali . Tutti sono passati nelle mani di uomini d’affari vicini all’esecutivo.
Lo scorso mese è toccato a Hir Tv. Uno dei nuovi proprietari, Zsolt Nyerges, la mattina stessa in cui veniva resa nota la notizia, ha rassicurato la redazione dicendo che nessuno avrebbe mai interferito con il lavoro dei giornalisti. Quella sera non è andato in onda il telegiornale e nemmeno l’approfondimento politico, uno dei programmi di punta della rete. Al loro posto è stato trasmesso, a ripetizione, un recente discorso del capo del governo.
Il tentativo di controllo non si ferma ai soli media nazionali. A inizio maggio Magyar Idök, un quotidiano con ampia diffusione, ha pubblicato un articolo critico verso il lavoro di diversi corrispondenti internazionali. Sono stati citati i giornalisti di Der Spiegel (Germania), Dar Standard (Austria), Libération (Francia), Tages-Anzeiger (Svizzera). “Il governo ungherese – si poteva leggere nel pezzo – dovrebbe considerare delle azioni di risposta al servile lavoro di Keno Verseck, Gregor Mayer, Bernhard Odehnal, Florence La Bruyère e tutti gli altri corrispondenti da Budapest che diffondono le più abominevoli menzogne”. I giornalisti, contrariamente alla richiesta del quotidiano, non sono stati espulsi, ma aver pubblicato una lista, averli schedati pubblicamente, è servito a intimidirli e a rendere sempre più difficile il loro lavoro. Magyar Idök appartiene a Lörinc Mészáros, uno degli uomini più ricchi dell’Ungheria nonché amico d’infanzia di Orbán. Mediaworks Holding, la società di Mészáros, possiede i due terzi dei giornali locali ungheresi. “In Ungheria – continua Miklosì – come in molti altri Paesi, la libertà di stampa è legata al livello di scolarizzazione della popolazione. Chi vive nelle grandi città tende a essere più attento a un’informazione di qualità: ha un migliore acceso a internet e ad attività culturali, ha a disposizioni più fonti, dai giornali online a quelli stranieri. Le persone che invece, hanno avuto un breve percorso scolastico, hanno meno possibilità di informarsi, di avere un’idea completa su quanto accade”. In quest’ultimo caso i giornali locali e i telegiornali sono le uniche possibili fonti di notizie. Con una campagna lunga anni, che mischia antisemitismo, criminalizzazione delle ong, notizie false, islamofobia e xenofobismo il governo è stato molto bravo a stigmatizzare i media indipendenti. Per Miklosì alcuni temi sono stati trattati “dalla stampa di propaganda con molta forza, creando una falsa percezione. Per esempio al momento non c’è un problema sulla questione migratoria, anche se si continua a parlare di invasione”. In Ungheria, che ha una popolazione di 10 milioni di abitanti, la quota di richiedenti asilo fissata da Orbàn e di 5 mila profughi l’anno, lo 0,0005% dei cittadini.
“Da tempo il governo ripete senza sosta – dice Blanka Zöldi, giornalista investigativa in forza alla redazione di Direkt36 – che in Ungheria non c’è posto per stranieri, soprattutto per chi scappa da guerre e persecuzioni. Contemporaneamente, lo stesso primo ministro, ha allestito il programma ‘visti d’oro’. Si tratta di una struttura legislativa che permette a investitori stranieri di ottenere diversi tipi di documenti: dalla residenza alla cittadinanza ungherese”. C’è un vero e proprio tariffario ministeriale, con 250 mila euro si ottiene la residenza, per la cittadinanza oltre il doppio. “Questi soldi non vanno direttamente al Stato – continua la Zöldi – ma passano da un ristretto gruppo di aziende con sede legale in paradisi fiscali. Stiamo parlando di quasi 20 mila casi, ognuno dei quali ha pagato tra i 20 e i 30 mila euro per il servizio a ditte offshore. Non sappiamo chi ha veramente beneficiato di questi soldi, ma diverse inchieste giornalistiche collegano le imprese d’intermediazione con l’élite politica di Budapest”.
La risposta dei media vicini al regime ungherese, la maggior parte, all’inchiesta di Direkt36 è stata una forte campagna contro la redazione. “Non abbiamo ricevuto alcuna pressione dal governo – conclude la giornalista – ma siamo messi sotto torchio da altri giornali. Con una gestione così falsata dell’informazione la grande sfida di questa redazione è quella di non diventare un gruppo di attivisti, di non essere contro il governo a priori. Dobbiamo continuare a raccontare quanto accade senza alcun pregiudizio”.

Il Fatto 8.18.18
“Il Vesuvio universale”, vivere e soffrire insieme al vulcano
Il ritratto di una terra che brulica di vita e non ha intenzione di arrendersi
“Il Vesuvio universale”, vivere e soffrire insieme al vulcano
di Furio Colombo

Mi domando se Maria Pace Ottieri abbia sentito il respiro del Vesuvio in ogni punto della immensa città cresciuta sul gigante in sonno, o se sia stata per lei una provocazione e una attrazione inevitabile un libro di suo padre, Ottiero Ottieri, che in Donnarumma all’assalto ha scritto la storia, unica in Italia, dei pescatori delle pendici vesuviane che diventano operai della Olivetti di Pozzuoli , al tempo in cui lo scrittore lavorava nella fabbrica. Certo in questo suo nuovo libro – Il Vesuvio universale, Einaudi – intorno al grande protagonista (il vulcano che nessuno teme non perché sia morto, ma perché è vivo e continua a trasmettere vita). Maria Pace Ottieri ispeziona, con mano attenta e mosse precise, un immenso presepio di passato e futuro, di memoria e predizione (se si sveglia il Vesuvio) di fiducia e di paura (dorme, ci protegge, può esplodere subito), di radici inestricabili e di accenni continui e impossibili alla fuga.
Scegliendo come tema il Vesuvio universale (l’altra faccia del diluvio che ha inondato e cambiato il mondo, crudele e salvifico come tutte le punizioni divine ) l’autrice ha fatto una scelta che è allo stesso tempo letteraria e politica. I suoi personaggi, benché presi dalla vita, benché cercati e trovati arrampicandosi sul vulcano, hanno una nitidezza di immagine (li vedo come figure filmate) e una ansiosa voce carica di esperienza e di speranza che li identifica come personaggi di un grande romanzo di vita e di morte, che per coltivano, proprio qui, con la vita, un legame tenace, mentre il respiro possente del gigante che dorme trasmette insieme la paura della memoria e l’euforia un po’ drogata del luogo assurdo e impossibile che così tanti hanno scelto.
Al libro della Ottieri risponde a distanza una sola trasmissione settimanale di una radio italiana. I radicali tornano a porre la domanda allarmata e perentoria: se il vulcano si sveglia chi fugge, come fugge? (Overshoot, Radio Radicale da Napoli, tutte le domeniche).
Il libro di Maria Pace Ottieri risponde dalla incredibile “location” con tante voce intelligenti, consapevoli e ormai al di la dalla paura: “Noi ci siamo e ci restiamo”.
La paura non detta è il Vesuvio. La festa che viene celebrata è il Vesuvio. Il futuro è la grande nuvola che vediamo in quadri e fotografie. Maria Pace Ottieri ci fa ascoltare voci che sembrano di sopravvissuti. E con materiale di cronaca (intervista e incontri) compone un grande racconto.

Corriere 8.10.18
Aveva perso la potestà genitoriale Butta la figlia di 6 anni dal terzo piano
Taranto, la vendetta dopo uno scontro con la moglie. Ferito anche il primogenito
di Michelangelo Borrillo

TARANTO «Ho un altro». Tre parole in un sms potrebbero essere bastate a un padre per sollevare la figlia di 6 anni dal divano e lanciarla, in preda all’ira, dal balcone. Dopo un volo di tre piani e dodici metri la piccola adesso lotta tra la vita e la morte. Gli sono rimaste in mano solo le sue scarpine, e chissà se almeno in quel momento L. T., 49enne disoccupato, si è reso conto del gesto inconsulto appena commesso.
È successo ieri, a Taranto, quartiere Paolo VI: la confessione via messaggio è della madre della bambina, al culmine di una lite telefonica con l’ex compagno, iniziata a mezzogiorno con i soliti screzi sugli incontri con i figli e conclusasi intorno alle 14 con l’ammissione del nuovo rapporto. L’alternarsi di telefonate, sms, insulti in un crescendo di tensione vive un primo momento tragico con il ferimento del primogenito di 14 anni, colpito alla gola con un coltello da cucina di 15 centimetri, davanti alla nonna paterna — a cui erano stati affidati i bambini dopo la separazione dei genitori — e allo zio. La corsa di quest’ultimo all’ospedale con il ragazzino (che se la caverà in 15 giorni) fa entrare in scena i carabinieri che, avvertiti dai medici del pronto soccorso dell’ospedale Moscati, arrivano a casa della nonna paterna quando si è appena verificato l’evento più tragico: il lancio dal balcone della bambina.
La scena che si trovano davanti è il sangue sulle mattonelle del marciapiede, conseguenza di un gesto di odio che stride con le scritte «Ti amo» degli innamorati che fanno da sfondo ai piedi del palazzone grigio di uno dei quartieri più difficili di Taranto. Nel frattempo l’uomo, a cui era stata tolta la potestà genitoriale, con precedenti specifici per maltrattamenti in famiglia e resistenza a pubblico ufficiale, si era barricato in casa: gli uomini dell’Arma hanno dovuto fare irruzione nell’appartamento in quattro, sfondando la porta, per arrestarlo — anche grazie all’uso dello spray al peperoncino — con l’accusa di tentato omicidio, aggravato dalla tenera età delle vittime, e resistenza a pubblico ufficiale.
E all’uscita dallo stabile di via XXV aprile, i carabinieri hanno dovuto far fronte al tentativo di linciaggio da parte dei residenti dello stabile e dei palazzi vicini, un centinaio di persone inferocite per le quali il 49enne era anche ubriaco: «Non dovevi prendertela con i bambini», gridavano, e avrebbero voluto far giustizia subito, senza processi.
La seconda corsa all’ospedale, al Santissima Annunziata, è più tragica della prima: i traumi cranici e mandibolari e le lesioni al fegato riportate dalla bimba di 6 anni, ricoverata in rianimazione dopo un delicato intervento chirurgico, mettono a rischio la sua sopravvivenza. I carabinieri del reparto operativo del comando provinciale di Taranto, guidato dal tenente colonnello Roberto Spinola, stanno raccogliendo le testimonianze dei parenti e vicini di casa per fare piena luce sull’accaduto. Tra questi il fratello del 49enne, suo malgrado testimone del tragico pomeriggio vissuto a casa della madre: «Si erano lasciati, lei voleva i bambini. Non so cosa è scattato nella testa di mio fratello».

Repubblica 8.10.18
Norvegia divisa
Breivik vuole finire gli studi universitari a spese dello Stato
di Andrea Tarquini

BERLINO Il massacratore neonazista Anders Breivik spacca la Norvegia con una richiesta provocatoria. Lui che nel 2011 assassinò 77 persone inermi nel centro di Oslo e poi alla festa della gioventù laburista nell’isola di Utöya e per questo sta scontando l’ergastolo, ha chiesto di poter proseguire e finire gli studi in scienze politiche, a spese dello Stato. Dilemma drammatico che risveglia nella civilissima società norvegese il trauma della strage che compì allora. Da un lato, come cittadino, ha diritto di proseguire gli studi pagati dallo Stato anche dal carcere, e può farlo comodamente detenuto in un trilocale ampio con spazio per studio lavoro dormire e fitness.
Dall’altro, il Paese si chiede fino a quali limiti debba andare la tolleranza. Nelle liste nere di Breivik c’erano anche molti professori della facoltà.

Repubblica 8.10.18
Strategie elettorali
Il Labour per vincere propone la settimana lavorativa di 4 giorni
di  Enrico Franceschini

LONDRA, REGNO UNITO Settimana lavorativa di quattro giorni. È l’arma segreta sfoderata dal Labour per vincere le prossime elezioni britanniche, ufficialmente previste per il 2022 ma che potrebbero essere anticipate ai prossimi mesi a causa del possibile stallo nei negoziati sulla Brexit. L’ha prospettata ieri John Mc Donnell, vice de facto del leader laburista Jeremy Corbyn e ministro del Tesoro nel governo ombra dell’opposizione. Il mese scorso Frances O’Grady, segretario generale del Trade Union Congress, una delle maggiori confederazioni di lavoratori, aveva già detto che una settimana di quattro giorni dovrebbe essere “un’ambizione” dei sindacati. Se si va alle urne non si parlerà solo della Brexit.

Repubblica 8.10.18
Falsi miti
I dolori e i rancori del giovane Hitler uomo senza qualità
di Pietro Citati

Non sapeva fare nulla, non lavorava, amava smisuratamente la madre, pensava di essere un artista. Poi scoprì di avere una vera passione, l’odio, e un unico talento: saper parlare. Un romanzo di formazione scritto all’inferno
Da giovane Hitler amò soprattutto la madre, Klara: una donna semplice e gentile, con gli occhi grigio-azzurri, che fu l’unica grande passione della sua vita.
Quando morì, aveva diciotto anni: nessuno — dissero gli amici — aveva mai visto un dolore così terribile e straziante, che sembrò mettere in dubbio la sua esistenza. Sino alla fine, Hitler conservò e guardò la fotografia della madre. Sognava: fu la vera attività della sua vita, anche quando diventò uno degli uomini più potenti della terra. Leggeva molto: specie i romanzi di avventura di Karl May, e storie di mitologia germanica. Così racconta la bellissima biografia di Ian Kershaw (Bompiani, traduzione di Alessio Catania).
A Linz e poi a Vienna e a Monaco, frequentava le biblioteche. Anche i libri erano sogni. E così l’opera dove andava quasi tutte le sere, con un cappello e un cappotto neri, e un bastone d’avorio: adorava Mozart, l’opera italiana e soprattutto Wagner, il Tristano e il Lohengrin, che vide trenta o quaranta volte. Pensò di creare egli stesso un’opera: un Wagner ancora più sublime e inverosimile. Pensò di diventare architetto: si definì "pittore di architetture". Era solo, incerto, indolente. Non decideva mai: ciò che avrebbe fatto — sebbene sembri inverosimile — fino alla fine della vita. Detestava lavorare: non rispettava gli appuntamenti; quando conosceva qualcuno, dava una stretta di mano di ghiaccio.
Qualsiasi cosa facesse, era un dilettante, senza nessun senso della realtà e delle occasioni.
Odiava: era la sua vera passione; anche le persone che non conosceva, o conosceva appena, o aveva soltanto immaginato. Non scriveva, forse per non lasciare nessuna traccia visibile di sé, — quest’uomo incomprensibile.
Si lavava di continuo: non si faceva mai — a nessun costo — vedere nudo; al contrario del suo idolatrato Mussolini, che mostrava sempre collo, petto virile e ogni parte del corpo.
Considerò sempre Linz, dove era nato, la sua patria e sino alla fine della vita pensò di farla diventare (con l’aiuto di Albert Speer) la capitale del mondo. Al teatro dell’opera incontrò il primo amico: August Kubizek. Aveva bisogno di qualcuno che lo ascoltasse: con lui parlava di tutto, persino di cose che non lo interessavano affatto, come le tasse (che non pagava) o i difetti degli insegnanti statali o degli impiegati (che non conosceva); parlava tanto che, alla fine, Kubizek disse: «Mi pare che Adolf dia segni di squilibrio».
Andò a Vienna, per venire ammesso all’Accademia di belle arti, dove fu rifiutato due volte, sebbene fosse certissimo di essere accolto. Rimase a Vienna dal febbraio 1908 al maggio 1913. Secondo il Mein Kampf, Vienna destò in lui soltanto "pensieri lugubri": fu il «più triste periodo della mia vita». Kubizek lo raggiunse, dividendo la sua stanza: una stanza fredda, che puzzava di paraffina, con il letto e i mobili pieni di cimici. Il 24 maggio 1913, portandosi dietro una valigetta con i vestiti, andò a Monaco: era, per lui, la metropoli dell’arte tedesca, e vi frequentò i bellissimi musei.
Dapprima prese in affitto una stanza nel quartiere di Schwabing. Nulla forse ci restituisce l’immagine del giovane Hitler più dei lunghi anni di Vienna. Spesso dormiva all’aperto: o in un modesto caffè della Kaiserstrasse; o in un dormitorio per i senzatetto.
Spalò la neve: fece il facchino alla stazione, senza prendere mai in considerazione l’ipotesi di un lavoro stabile. Passava ore e ore al caffè, leggendo giornali di ogni genere, ma specialmente antisemiti.
Aveva un posto riservato: il posto di "Adi". Quando veniva cacciato dal caffè, vagava per la città con i piedi gonfi e lacerati. Sembrava Charlot, nei primi film comici di Chaplin.
Aveva un vecchio cappello stazzonato, pantaloni bucati e scarpe imbottite di carta.
Portava i capelli lunghi e la barba incolta. Indossava i calzoni di cuoio bavaresi, con grossi calzini di lana e camicia a quadri rossi e azzurri, e un’inopportuna giacca corta blu. Frequentava una combriccola eterogenea, monologando per ore, come avrebbe fatto per tutta la vita.
Qualcuno disse che sembrava un gangster.
Già nei primi anni di scuola aveva rivelato un’inclinazione per il disegno. Ora suonava il pianoforte a coda, che gli aveva regalato la madre: ora disegnava, dipingeva, scriveva poesie, restando alzato fino a tarda notte. Pensava e ripensava: era certissimo che sarebbe diventato un grande artista; anche quando fu cancelliere del Reich, credeva di essere, in primo luogo, un artista. Cominciò a dipingere.
Non inventava nulla: copiava; mi duole di non avere mai visto nemmeno una riproduzione dei suoi acquarelli; essi erano molto richiesti, tanto che Hitler e il suo agente non riuscivano a tenere il passo con le ordinazioni. Raffigurava la Karlskirche e scene della "vecchia Vienna", di solito copiate da cartoline: un acquarello ogni due o tre giorni. Forse, più tardi, disprezzò il proprio "dilettantismo". Ma la pittura gli dava di che vivere decorosamente, se non bene.
Forse prese dell’oppio.
Quando si sottrasse al servizio militare, rischiò di finire in una prigione austriaca. Un pomeriggio del 18 gennaio 1914, un agente della polizia criminale di Monaco gli ingiunse di andare due giorni dopo a Linz, per iscriversi nelle liste militari. Intanto lo dichiarò in arresto. Ma fu dichiarato di costituzione troppo debole per entrare nell’esercito. Con lo scoppio della guerra, diventò soldato: caporale. Ne fu felicissimo: poi parlò di quegli anni «come del periodo più grandioso e indimenticabile della mia esistenza». Per quattro anni l’esercito fu la sua patria. Il 4 agosto 1918 venne insignito della Croce di ferro di prima classe, segnalato da un tenente ebreo. Il 13 ottobre 1918 fu colpito dai gas: fu portato in un ospedale di Pomerania, dove ebbe una specie di visione, sognando di liberare il popolo tedesco e di rendere di nuovo grande la Germania. Cercò i colpevoli della sconfitta: naturalmente erano gli ebrei, sebbene fino ad allora non fosse stato antisemita. Poi il suo odio per gli ebrei crebbe fino all’ossessione, senza mescolarsi ancora all’anticomunismo.
Quando finì la guerra, Hitler decise di restare nell’esercito.
Il 9 novembre 1918 il Kaiser abdicò. Qualche mese dopo il presidente del consiglio, Kurt Eisner, un ebreo radicale, venne assassinato. Ma Hitler non fece nulla per favorire il crollo della repubblica socialista. Dichiarò di essere socialdemocratico: nell’aprile 1919 portò al braccio, durante una sfilata, la fascia rossa della rivoluzione. Tranquillo, moderato, in nulla simile al futuro cancelliere del Terzo Reich, fu incaricato di indottrinare le truppe. Quando il capitano Karl Mayr, che comandava i servizi informativi, lo conobbe, Hitler aveva l’aria «di un povero cane randagio in cerca di un padrone, pronto a condividere la sorte di chiunque gli mostrasse un volto gentile. Al popolo tedesco e ai suoi destini era del tutto indifferente».
Accadde qualcosa di insospettabile, che avrebbe mutato i destini del mondo.
Nel marzo 1919 a Hitler venne offerto un corso di insegnamento antibolscevico.
Si accorse di saper parlare.
Non aveva idee, né ideologie, né concezioni del mondo, non pensava nemmeno da lontano a ciò che avrebbe detto al popolo tedesco nel 1933 o nel 1939. Era soltanto un opportunista: avrebbe potuto, se richiesto, aderire a qualsiasi idea o programma o partito politico; voleva soltanto conquistare potere. Sia ora sia poi era disposto a sacrificare molte delle sue idee principali.
Solo molto più tardi scoprì l’astuzia politica, la capacità di dividere e manipolare le masse, la coscienza di essere infallibile: il Redentore, il Salvatore della Germania e del mondo.
Con il suo lungo completo blu, sembrava una via di mezzo tra un impiegato statale e un sottoufficiale. Era incerto, pieno di complessi di inferiorità verso chiunque avesse un nome e una carica. A molti sembrava una non-persona o un impostore: egli stesso diceva di essere soltanto il tamburino di qualcosa di ignoto e insospettabile. Ma parlava.
Iniziava in sordina: poi diffondeva sarcasmi e attacchi personali: infine procedeva verso l’apice, si autoesaltava, esaltava, fino ad affascinare completamente gli ascoltatori.
Tutto ciò avvenne rapidissimamente: con una velocità che non riesco a comprendere, in pochissimi anni annientò (parola che adorava) l’Europa, e fu sul punto di annientare il mondo.
* * *
Verso l’una del 30 aprile 1945 Hitler pranzò come al solito nel bunker di Berlino con le sue segretarie e la sua dietetica.
Salutò le segretarie. Tornò nel suo sotterraneo. Pochi minuti dopo, Hitler e la sua compagna Eva Braun sedevano su un divano, l’uno accanto all’altro.
Hitler si era ucciso con un colpo di pistola alla tempia destra e la Braun con l’acido prussico. L’autista versò duecento libbre di benzina sui corpi. Le fiamme li consumarono, e li ridussero a una massa carbonizzata, che si sgretolava al contatto del piede. L’11 maggio l’odontotecnico di Hitler ricevette una scatola da sigari, che conteneva un frammento di osso mandibolare e due punti dentari di Hitler e di Eva Braun.