Il Fatto 4.10.18
La disobbedienza generosa di Lucano
di Tomaso Montanari
Ho
un amico senegalese, arrivato in Italia sei anni fa: è un clandestino.
Lavora: fa il falegname. Ha un ruolo nella nostra società: a cui non
nuoce in nulla, anzi alla quale giova moltissimo, con la sua dedizione,
con la qualità del suo lavoro, con la sua onestà. Ma è un fantasma: uno
schiavo del nostro sistema.
Ma con le leggi che ci siamo dati, non
c’è modo di fargli avere un permesso di soggiorno, e chissà, un giorno
la cittadinanza. Abbiamo chiuso tutte le strade: e non perché siano
troppi, ché anzi ci servono (in tutti i sensi). No: per la “percezione
dell’insicurezza” messa a reddito da una politica ridotta
all’imprenditoria della paura. Ebbene, se io potessi organizzare un
matrimonio combinato per dargli la cittadinanza, lo farei. Se, pur
violando qualche norma, potessi affidargli un appalto pubblico per un
lavoro che fosse in grado di fare bene, non ci penserei un momento. È
quello che ha fatto Mimmo Lucano, su una scala così importante da essere
diventato un modello e un riferimento internazionale. Ora Mimmo Lucano
si difenderà in un processo, come tutti coloro che si trovano costretti a
violare la legge perché quella legge è inumana, ingiusta, sbagliata. È
una resistenza civile, una disobbedienza: e chi la pratica sa
perfettamente che può essere chiamato a pagarne tutto intero il prezzo.
Anche se vive in una terra, come la Locride, in cui certo le infrazioni
della legge hanno altri moventi, e in cui un cittadino si potrebbe
ingenuamente aspettare che la procura usasse tempo e soldi per
perseguire altri reati. Ma il punto non è questo. Il punto è da che
parte stare: e c’è un’Italia che sta con Mimmo Lucano, perché sente che
l’unico modo di superare queste leggi è disobbedire, pagandone il
prezzo. Chi la pensa così sa che dalla parte del sindaco di Riace c’è un
alleato potente: che si chiama Costituzione della Repubblica italiana.
Già: si può violare la legge, e però attuare la Costituzione.
Il
precedente è quello celeberrimo di Danilo Dolci, processato nel 1956 per
resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, istigazione a disobbedire
alle leggi e invasione di terreni. Capi di imputazione ben più gravi di
quelli contestati a Lucano: e legati anche in quel caso a una lotta per i
diritti dei più poveri. In quel memorabile processo sfilarono come
testimoni della difesa di Dolci figure come quelle di Carlo Levi ed Elio
Vittorini, e fuori dall’aula le ragioni dell’imputato furono difese da
La Pira, Piovene, Guttuso, Zevi, Bertrand Russell, Moravia, Bobbio e
Zavattini, Silone, Sellerio, Capitini, Paolo Sylos Labini, Eric Fromm,
Sartre, Jean Piaget e da altri ancora.
Alla fine Dolci fu
condannato: a cinquanta giorni di reclusione. Eppure la sua battaglia
ebbe un’importanza cruciale: per cambiare il senso comune, e le stesse
leggi della Repubblica.
Uno degli avvocati difensori di Dolci fu, è
noto, Piero Calamandrei, e la sua arringa è il testo più illuminante da
leggere per capire anche questo caso di 62 anni dopo: “Anche oggi
l’Italia vive uno di questi periodi di trapasso, nei quali la funzione
dei giudici, meglio che quella di difendere una legalità decrepita, è
quella di creare gradualmente la nuova legalità promessa dalla
Costituzione”.
Ebbene, quel periodo di trapasso non è finito: la
nostra legalità non è ancora la legalità nuova promessa dalla
Costituzione. In particolare, la legislazione sui migranti è in gran
parte contro lo spirito e la lettera della Costituzione, e contro i
diritti umani più elementari. Disobbedire a queste leggi, essendo
disposti a pagare il prezzo di questa disobbedienza, è un modo generoso e
impervio per cambiare lo stato delle cose.
Per questo sto con
Mimmo Lucano, e faccio mie le parole di Calamandrei: “Vorrei, signori
Giudici, che voi sentiste con quale ansia migliaia di persone in tutta
Italia attendono che voi decidiate con giustizia, che vuol dire anche
con indipendenza e con coraggio questa causa eccezionale: e che la
vostra sia una sentenza che apra il cuore della speranza, non una
sentenza che ribadisca la disperazione”.