Il Fatto 29.10.18
Gli studenti di Pisa ricostruiscono le vite dei prof ebrei nel ’38
La
Sant’Anna e la Normale si sono messe alla ricerca della memoria
perduta: i venti docenti cacciati da Mussolini per la difesa della
“razza ariana” nei lavori degli allievi di oggi
di Giorgio Meletti
Giulio
Racah è un genio della fisica. Nel 1937, a 28 anni, va in cattedra
all’Università di Pisa. Scrive al rettore Giovanni D’Achiardi: “Di
famiglia toscana, e attaccato alle glorie della tradizione toscana, mi
sento particolarmente fiero della nomina”. Pochi mesi dopo D’Achiardi lo
sospende dall’insegnamento “ai sensi” del Regio Decreto 5 settembre
1938, n. 1390 “sulla difesa della razza”. Racah si crede fiorentino ma
il fascismo lo classifica ebreo. Se ne va alla Hebrew University di
Gerusalemme con quattro lettere di raccomandazione firmate da (in ordine
alfabetico): Niels Bohr, Albert Einstein, Enrico Fermi e Wolfgang
Pauli. Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Bottai festeggia la bonifica
degli atenei: “Da questa improvvisa amputazione né la scienza, né
l’insegnamento soffriranno; rapidamente i vuoti saranno colmati, forze
tenute lontane fino ad oggi avanzeranno finalmente sulla strada
sgomberata”.
Prima gli ariani? Sì, ma dura poco. Dopo la guerra il
nuovo rettore Augusto Mancini chiede a Racah di tornare. Riceve un
fermo no: “Il mio posto di lavoro è oggi qui, per cooperare alla
ricostruzione del Paese che mi accoglieva a braccia aperte nel 1939”.
La
memoria è spietata e necessaria. La storia di Racah è stata ricostruita
da Simona Grazioli, studentessa di biotecnologie alla Scuola Superiore
Sant’Anna. Michele Emdin, docente di cardiologia, ha proposto agli
studenti della Sant’Anna e della Normale di studiare la storia dei venti
professori ebrei che nel 1938 furono cacciati da Pisa: “I protagonisti
ormai vengono a mancare e dobbiamo trasferire il testimone del ricordo
ai giovani, in particolare agli allievi delle due scuole di eccellenza”.
Sotto la guida degli storici professionisti Michele Battini, Barbara
Henry e Ilaria Pavan, gli studenti si sono sottoposti a una terapia
maieutica, scoprendo il senso spaventoso del razzismo dalle proprie
indagini anziché da un professore. E riproponendo – in una intensa
giornata di studio voluta dalle tre Università pisane – il variopinto
mosaico di una storia vergognosa.
Purtroppo è tornato di attualità
il bisogno di rimarcare che gli ebrei, come gli immigrati, non sono
alieni. Michele Pajero, studente di scienze politiche, ricorda che Piero
Sraffa (l’amico di Antonio Gramsci a cui si deve il salvataggio dei
Quaderni del carcere), già nel 1932 cominciava a sentire una brutta
aria: “Oggi, o si è ebrei, o non lo si è – non c’è via di mezzo”. Primo
Levi ha consolidato il concetto: “Se non ci fossero state le leggi
razziali e il lager, io probabilmente non sarei più ebreo, salvo che per
il cognome. Invece questa doppia esperienza, le leggi razziali e il
lager, mi hanno stampato come si stampa una lamiera”.
Naftoli
Emdin, nonno di Michele, allontanato nel 1938 dal suo insegnamento di
medicina legale, se l’è studiato Vincenzo Castiglione. Originario di
Gomel (nell’attuale Bielorussia), si forma a San Pietroburgo, si ammala
di tubercolosi, cerca di spostarsi a Mosca ma gli viene vietato perché è
ebreo, finisce al sanatorio di Nervi e poi a Pisa dove si laurea in
medicina, si sposa con una ragazza toscana e insegna all’Università. Il 5
settembre 1938 Vittorio Emanuele III firma la prima delle leggi
razziali nella tenuta di San Rossore, appena fuori Pisa. Emdin deve
spiegarle a Ruben di 15 anni e Rafael di 13, due ragazzi pisani e però
ebrei. Scrive ai figli una lettera sulla paura, sulla dignità e sulla
loro patria, l’Italia: “Non vorrei che questo smarrimento e questa
angoscia lasciasse in voi quel senso d’inferiorità ch’è così molesto,
doloroso e dannoso e che potrebbe pregiudicare la regolarità e la
dirittura del vostro cammino su quella via della vita che per noi è
sempre stata difficile e che ora minaccia ad essere ancora più difficile
in Italia per la vostra generazione (…) Dignità ci vuole e non il
rancore, forza e non l’odio (sono i deboli quelli che si fanno comandare
dal solo odio) (…) Camminate sulla vostra strada (…) amando chi vi ama,
commiserando chi sputa su di voi la sua bava velenosa, ripagando con
riconoscenza ed affetto la Terra che vi ha dato i natali e gli uomini
che vivono accanto a voi, anche se oggi li dicono di razza differente”.
Emdin cerca di rifugiarsi in America ma non ci riesce e vivrà gli anni
della guerra praticamente alla macchia. Ma quasi gli è andata bene, e
invecchierà a Pisa.
Le leggi razziali non sono state solo una
questione di cattedre universitarie tolte alla razza inferiore e date a
professori ariani che non le restituiranno neppure dopo la caduta del
fascismo. La squadra del cardiologo Emdin (tra loro anche Silvia
Barbiero, Chiara Borrelli, Lorenzo Mangone e Giorgio Motisi, con Davide
Guadagni dell’Università di Pisa in regia) ha fatto i conti con la
storia di Bruno Paggi, grande chirurgo originario di Scansano
(Grosseto), che lascia a Pisa moglie e sette figli e vive per dieci anni
in Venezuela commerciando carburanti.
Lo studente Alberto Aimo ha
ricostruito la tragica parabola di Ciro Ravenna. Le leggi razziali lo
abbattono alla vigilia del cinquantesimo compleanno. Originario di
Ferrara, come molti ebrei è anche un buon fascista. Ha partecipato da
volontario alla Grande Guerra. Dal 1924 è professore ordinario e
direttore della prestigiosa Scuola agraria pisana, dal 1932 è iscritto
al Partito nazionale fascista. È anche abbonato sostenitore del giornale
pisano Idea fascista. Chiede di limitargli le restrizioni delle leggi
razziali per i suoi meriti di guerra e di buon fascista oltre che per le
indubbie benemerenze scientifiche. Ma la contabilità fascista gli mette
in conto l’essere celibe e senza prole. Torna a Ferrara dove campa con
lezioni private e insegnando nelle scuole ebraiche. Il 15 novembre 1943
viene arrestato dalla polizia di Salò.
All’inaugurazione dell’anno
accademico 1945-46 il rettore Mancini dedica a Racah, Kristeller,
Ravenna e gli altri il pensiero imbarazzato di un corpo docente pavido,
compattamente pavido sulla scia del suo guru accademico, Gentile: “Un
ricordo particolare, poiché di essi, quasi vitandi, non era lecito
parlare, è dovuto a quei colleghi che furono allontanati
dall’insegnamento per motivi razziali”. Furono materialmente allontanati
dai colleghi. Comunque Mancini cerca notizie di Ravenna e in pochi mesi
le ottiene. Il sindaco di Ferrara gli scrive che “il Prof. Ciro Ravenna
e familiari sono stati deportati in Germania e del Professore non si
hanno avuto più notizie”. Pisa ha dedicato a Ciro Ravenna una stradina
periferica. Sotto il suo nome, su un targa arrugginita, c’è scritto
“agronomo”. Sulla memoria c’è molto da fare. Siamo solo all’inizio.