Il Fatto 27.10.18
Gli anni orribili dei carabinieri che Salvini non vuole vedere
Cucchi
e non solo - I depistaggi sul giovane pestato coinvolgono la catena di
comando, per il ministro è “un eventuale errore di uno”
di Alessandro Mantovani e Antonio Massari
Nessuno,
dal palco, ha nominato Stefano Cucchi. Ma con i giornali strapieni del
processo per le violenze e dell’inchiesta sul depistaggio, nessuno ieri
pensava ad altro quando il ministro dell’Interno e vicepremier, Matteo
Salvini, alla festa per i 40 anni del Gruppo intervento speciale (Gis)
dei carabinieri, ha detto: “Non ammetterò mai che un eventuale errore di
uno possa infangare l’impegno e il sacrificio di migliaia di ragazze e
ragazzi in divisa”. Chi sbaglia, certo, non infanga tutti, ma “un
eventuale errore di uno” è un po’ poco. Salvini in questo modo strizza
l’occhio alle componenti peggiori delle forze dell’ordine. Infatti la
ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, ha dedicato all’innominato
Cucchi un passaggio più equilibrato, in cui ricorda i valori di
“rettitudine, integrità, coerenza, interiorizzazione del senso del
dovere e della responsabilità” che l’Arma incarna, per dire che “laddove
si accerti l’avvenuta negazione di questi valori, si deve agire e
accertare la verità, isolando i responsabili allo scopo di ristabilire
quel sentimento di fiducia”. E anche il comandante generale, Giovanni
Nistri, che ha con coraggio ha chiesto scusa ai Cucchi ma poi è stato
accusato di riservare maggior rigore ai carabinieri che hanno
testimoniato rispetto agli imputati di violenze e depistaggi, si è
tenuto sulle generali: “È nella virtù dei 110 mila uomini che ogni
giorno lavorano per i cittadini che abbiamo tratto, traiamo e trarremo
la forza per continuare a servire le istituzioni”.
Decine di
migliaia di poliziotti, carabinieri, finanzieri e vigili urbani si
comportano correttamente, altrimenti avremmo morti e feriti tutte le
sere. Chi onora la divisa è la prima vittima di chi la disonora. Ma il
problema della devianza delle forze dell’ordine esiste, talmente serio
che a differenza di altri Paesi non ci sono neanche statistiche
accessibili, ha radici storiche profonde, se n’è vista una prova
drammatica al G8 di Genova nel 2001 e da allora qualcosa è cambiato ma
non abbastanza, specie sulla formazione. I carabinieri lo sanno
benissimo perché in genere sono loro che arrestano o denunciano i
colleghi e stanno imparando dagli errori del passato.
L’altroieri
militari del Noe, il Nucleo operativo ecologico, su ordine della
magistratura romana, hanno arrestato altri militari del Noe perché
accusati di corruzione nel settore nevralgico del trattamento dei
rifiuti. Non sono i primi, purtroppo. È recente la prima condanna per
l’incredibile stupro di due studentesse americane a Firenze nell’estate
2017, attribuito a due carabinieri già destituiti dall’Arma con
ragionevole solerzia. Tre stazioni della Lunigiana sono state investite
da un’inchiesta della Procura di Massa: presunti abusi su stranieri.
Le
logiche fascistoidi sono dure a morire. Un mese fa Salvini, sempre lui,
ha reso omaggio nelle Marche a un appuntato che era stato ferito da uno
straniero: sui social il militare, come raccontato da Sandra Amurri sul
Fatto, inneggiava a Mussolini. Non è il primo, anche per questo l’Arma
sta potenziando il suo monitoraggio interno sul web. E d’altro canto a
Macerata il tiratore razzista Luca Traini, poi condannato in primo grado
a 12 anni, è stato benevolmente fotografato in una caserma dei
carabinieri col tricolore sulle spalle e l’immagine è finita su tutti i
giornali come avrebbe voluto lui. E vale la pena di ricordare il
maggiore di Vasto che spiegò, neanche fossimo negli anni 50, che due
minori arrestati per abusi sessuali su un’altra ragazzina “non erano
consapevoli”, cioè “stupravano a loro insaputa” come scrisse Selvaggia
Lucarelli sul Fatto.
Mele marce, si dice. Ma a volte il marcio, o
il presunto marcio, è in cima al cesto. Nel caso Cucchi, se i vertici
dell’Arma di Roma non coprirono deliberatamente le violenze, certamente
non si accorsero di cosa era successo e sembra davvero una barzelletta.
Ci sono generali indagati, compreso l’ex comandante generale Tullio Del
Sette, per la fuga di notizie rivelata da Marco Lillo sul Fatto nel
dicembre 2016 che consentì ai vertici della Consip di far sparire le
microspie con cui la Procura di Napoli cercava le prove di corruzioni e
traffici di influenze ipotizzati attorno ad appalti pubblici miliardari.
Certi
armadi dell’Arma ospitano scheletri che non troveranno mai pace. È di
aprile la condanna in primo grado a dodici anni dei generali Mario Mori e
Antonio Subranni nel processo per la Trattativa Stato-mafia del
1992-’93: erano ai vertici del Ros, il Reparto operativo speciale,
l’élite che si occupa di mafia e terrorismo. E prima di cambiare, il Ros
fu guidato dal generale Giampaolo Ganzer, processato insieme ad altri
ufficiali per le inchieste sotto copertura trasformate, negli anni 90,
in traffici di cocaina: prese 14 anni in primo grado a Milano, ridotti a
4 in appello e cancellati nel 2016 da una salvifica prescrizione in
Cassazione.