Il Fatto 25.10.18
Il conformismo degli intellettuali durante la Grande Guerra
A parte rare eccezioni, come Zweig, poeti e filosofi gareggiarono nell’incitamento all’odio
di Paolo Isotta
Fra
poco cadrà il centenario della fine dell’immane massacro militare della
Prima guerra mondiale: il 4 novembre capitolò l’Impero austro-ungarico,
l’11 quello germanico. L’incredibile rimonta di Vittorio Veneto si
dovette a un genio militare napoletano, Armando Diaz, visto che fino a
quel momento lo stratega di fiducia dei Savoia, il piemontese Cadorna,
aveva concepito la guerra solo come una macelleria fine a se stessa; in
questo la classe militare inglese e francese non fu da meno. E sarebbe
bene, per non dimenticare – sempre che a qualcuno l’insegnamento della
storia oggi interessi – che si rivedessero tre meravigliosi films che
denunciano in modo tragico e spietato la macelleria: Per il re e per la
patria di Losey, Orizzonti di gloria di Kubrick e Uomini contro di Rosi:
il suo più bello, insieme con Le mani sulla città.
Dal momento
che nel mio scorso articolo ho raccontato per brevi tratti dell’estate
da me trascorsa con Stefan Zweig, debbo tornare al Mondo di ieri. I
capitoli centrali di queste Memorie – Memorie dello spirito europeo
stesso – sono dedicati ai prodromi della guerra e ai suoi anni. La
definizione di “guerra civile europea”, ripresa con tanta fortuna da
Ernst Nolte, si deve a Zweig. I grandiosi capitoli vanno ricordati anche
in relazione al tema del comportamento degli “intellettuali”: la
vergogna suscitò nel corso del conflitto, pagine alte e dolenti, più che
indignate, del nostro Maestro, e a sua volta suscitò un celebre libro
del 1927, Il tradimento dei chierici, nel quale Julien Benda stigmatizza
il ruolo degli uomini di cultura, traditori della loro missione:
comprendere e far comprendere, giusta l’etimo intelligere.
Zweig
ben conosce i poderosi interessi economici che, nella loro crescente e
vertiginosa accumulazione, sono la “struttura” dello scoppio della
guerra. Ma egli ha chiara la coscienza che a un certo punto la faccenda
sfuggì di mano alle stesse diplomazie che la trattarono. L’Italia, non
interventista, avrebbe dovuto restare neutrale, e le trattative condotte
da Giolitti – chiamato “traditore” dai forsennati – ci avrebbero
garantito di più di quel che miseramente ottenemmo col Trattato del
Trianon. Gl’interessi di pochi, in primis i Savoia, ci spinsero nel
conflitto. E qui non si può che ricordare la sentenza di Sofocle, il dio
fa prima uscire di senno coloro che vuol distruggere. Vale anche per
tutto il corso del conflitto.
I più alti spiriti europei che per
tutta la guerra si adoperarono per la pace immediata sono, oltre il
pontefice Benedetto XV, Zweig e Romain Rolland, un grande storico della
musica e romanziere francese. Vennero equamente definiti “traditori” dal
proprio paese, e andarono vicino all’impiccagione; allo stesso modo che
il Papa era il nemico principale di tutti gli schieramenti e il
messaggio sull’inutile strage venne censurato in ogni nazione
belligerante. Zweig, da un lato, Rolland, dall’altro, si trovarono soli
quando tentarono di far firmare un manifesto incitante alla pace. Fra i
pochi fratelli spirituali da loro trovati, Benedetto Croce. Non uno
aderì; e i poeti, i romanzieri, i filosofi, gareggiarono nell’infamia,
nell’incitamento all’odio, nell’inneggiare alla guerra come “sola igiene
del mondo”.
La pagina più nera della vita di Gabriele D’Annunzio e
di Thomas Mann è proprio qui. Ma se il sommo poeta italiano rischiò la
vita e si riscattò coll’impresa pacifica del lancio dei manifestini su
Vienna, poi con quella di Fiume, il grande romanziere di Lubecca lo
supera in blateramento, e giunge a negare la stessa cultura latina: la
base ideologica dell’incitamento all’odio. Mutato il vento, Mann
ritrattò; ma continuò a detestare Zweig. La vicenda mostra una terribile
verità: l’uomo di cultura, o intellettuale, è labile e dipendente dal
potere, oggi persino più che sotto il despotismo di Augusto. È quasi
solo servo: per sua natura. Dobbiamo venerare i pochi che non lo sono.