Il Fatto 1.10.18
Alla fiera dell’Est: “pizzini” e fucili per zittire la stampa
La nuova destra - In Croazia licenziato l’anchorman Zovko
Il bavaglio polacco. I fondi tagliati ai giornali anti-Orbán
di Roberta Zunini
Nonostante
il ministro dell’Interno austriaco, Herbert Kinckl, figura di spicco
della destra, abbia negato di essere l’autore dell’email inviata dal suo
ufficio ai capi della polizia per consigliare loro di “limitare al
massimo” il contatto con tre giornali perché “critici o parziali nei
confronti del Ministero”, il messaggio testimonia l’atmosfera censoria
che tenta i sovranisti di destra. Qualche giorno fa, per esempio, la tv
pubblica croata (Hrt) ha licenziato uno dei giornalisti più autorevoli,
Hrvoje Zovko, attualmente anche presidente della Associazione dei
giornalisti croati, per “comportamento aggressivo e non professionale
verso suoi superiori”. Sono però molti a sospettare che le vere ragioni
siano politiche. Zovko è stato ufficialmente licenziato per aver
aggredito con frasi volgari un suo superiore alcune settimane fa durante
una disputa sulla linea di gestione del canale dedicato a notiziari e
approfondimenti. Il giornalista è noto per essere critico del governo di
centrodestra, e specie di partiti e organizzazioni di estrema destra o
clericali.
Da quando la destra, tre anni fa, è arrivata al potere
in Croazia, la struttura gestionale della tv pubblica è visibilmente
cambiata e nella programmazione dominano trasmissioni di tono
nazionalista. Molti giornalisti si sono licenziati. Anche in Polonia –
governata dalla destra cattolica-nazionalista – i media soffrono. Il
vicepremier Piotr Glinski ha dovuto più volte ribadire che “in Polonia
c’è totale libertà di stampa”, ma secondo il rapporto di Reporter senza
frontiere (Rsf) “il partito Legge e Giustizia (PiS) alla guida
dell’esecutivo ha trasformato i media pubblici in organi di propaganda”.
Rispetto al 2017, l’indice di libertà della stampa polacca è sceso al
58° posto su 180, perdendo in un anno quattro posizioni. Lo stesso
Glinski, che è anche ministro della Cultura, non è estraneo alla
censura. Nel 2015 ordinò la sospensione di uno spettacolo La morte e la
fanciulla tratto dall’opera del Nobel Elfriede Jelinek, giudicato
“pornografico” a causa di una scena di sesso simulato. Lo spettacolo
però rimase in cartellone e il ministro scaricò la propria rabbia contro
uno dei volti più noti della tv di Stato (Tvp), Karolina Lewicka, che
venne sospesa per alcune ore dopo un acceso scambio verbale in proposito
proprio con Glinski.
Lewicka fu reintegrata dopo che il comitato
etico aveva affermato che “non ha violato l’etica del giornalismo di
Tvp”. Gli attacchi di Glinski non sono stati gli unici. L’ex ministro
della Difesa Antoni Macierewicz nel 2017 ha denunciato il giornalista
investigativo Tomasz Piatek autore di un’inchiesta sui presunti legami
del ministro con i servizi militari russi, ma le accuse sono state
ritirate pochi mesi fa. Dopo aver conquistato il potere, il PiS ha
consegnato il controllo dei media statali al Tesoro. Fino a quel momento
i direttori delle emittenti venivano nominati dal National Broadcasting
Council, organo costituzionale a protezione della libertà di
espressione. La mossa ha trasformato la tv di stato e l’agenzia di
stampa statale PAP in organi di propaganda. Non va meglio in Repubblica
Ceca, scesa di 11 punti, al 34° posto della lista. Il capo dello Stato,
Milos Zeman, a inizio anno si è presentato a una conferenza stampa con
un kalashnikov finto con la scritta “per i giornalisti”. Non è stato da
meno l’ex primo ministro slovacco Robert Fico che l’anno scorso aveva
accusato i giornalisti di essere delle “sordide e anti patriottiche
prostitute”.
A marzo, il leader della destra nazionalista si era
dovuto dimettere per le proteste scatenate dall’assassinio del
giornalista Ján Kuciak, e della sua compagna, ucciso mentre stava per
pubblicare sul sito Aktuality una inchiesta su corruzione e truffe
nell’ambito dei fondi Ue. Kuciak aveva sostenuto l’esistenza di rapporti
tra la ‘ndrangheta e membri del governo. Ultimo ma non ultimo, il
premier ungherese Orbàn, il frontman del gruppo di Visegrad. Pochi
giorni dopo la sua rielezione, sei mesi fa, uno dei due quotidiani
nazionali d’opposizione, Magyar Nemzet, è stato costretto a chiudere
perché in crisi finanziaria. Pur avendo una lunga storia alle spalle e
si fosse guadagnato grande autorevolezza, il giornale non è più riuscito
a ottenere investimenti pubblicitari.
Le aziende, secondo
l’editore, hanno temuto la reazione del governo e ora si affidano ai
giornali filo governativi. L’anno scorso il sito di news 888.hu aveva
pubblicato una black list di giornalisti accusati di fare propaganda a
favore dell’Università di Budapest del finanziere George Soros,
considerato da Orbàn un sabotatore dell’identità nazionale. “Paesi che
fino a 10 anni fa sembravano sul punto di diventare democrazie compiute,
come Turchia, Polonia, Ungheria e Venezuela, stanno regredendo
visibilmente”, ha denunciato Michael J. Abramowitz, il presidente di
Freedom house.