Il Fatto 19.10.18
“Rai, l’antidoto alle pressioni politiche è solo uno: dimissioni”
Pier Luigi Celli - L’ex direttore di Viale Mazzini racconta trent’anni ai vertici delle grandi aziende
di Carlo Tecce
“Io
non sono né ingenuo né vergine e la politica da sempre adora
distribuire le poltrone con una predilezione per la Rai”. Così Pierluigi
Celli ha scritto la Stagione delle nomine, un romanzo che condensa più
di trent’anni ai vertici di aziende private e statali. Per ragioni di
spazio, l’elenco è parziale: Eni, Olivetti, Omnitel, Enel, Enit, Luiss e
dg di Viale Mazzini dal ’98 al 2001.
Esordio nel servizio pubblico con Romano Prodi.
No, con Massimo D’Alema, è il segretario dei Ds o Pds.
Prodi a Palazzo Chigi.
In uscita, diciamo.
L’amico Prodi.
Romano
è un tipo rancoroso, che si circonda di persone servili, come dimostra
lo scarso successo dei suoi governi. A cena mi chiede di aumentare la
potenza dei ripetitori Rai per raggiungere le coste e i confini
stranieri. Io gli dico: ‘Fa ammalare la gente, non posso, mi mandano in
galera’. E lui: ‘Sei un dalemiano’.
La passione per D’Alema.
Io
non sono dalemiano, giuro. Non mi manda D’Alema in Rai, o meglio: non
direttamente. Un giorno mi chiama un tale Claudio Velardi per invitarmi a
prendere un caffè alle spalle di via delle Botteghe Oscure a Roma e mi
sussurra: ‘Vuoi fare il dg Rai?’. Io declino. Vado in Enel dal mio capo,
Franco Tatò, e gli supplico di riportare il mio diniego a D’Alema. Mi
risponde gelido: ‘Io non posso’. Mi arrendo.
Cade D’Alema, sale Giuliano Amato.
Chiamo
Amato per comunicargli l’indicazione di Gad Lerner al Tg1. Non
reagisce. Farfuglia: ‘Spero sia una scelta ponderata’. È ponderata, poi
si rivela azzardata. Lerner manda in onda un servizio sui pedofili con
immagini assurde di bambini, i dalemiani ne chiedono la testa alla
Camera. Io resisto, lui resiste. Finché, per fare il martire, mostra al
Tg1 un bigliettino di raccomandazioni di Mario Landolfi di Alleanza
nazionale.
Febbraio 2001, Rai addio.
Campagna elettorale
vicina, il centrosinistra vuole schierare l’azienda contro Berlusconi.
Impazzisco. Porta pure sfiga, penso. Mi lamento con il presidente
Roberto Zaccaria in maniera informale e poi con una lettera mi dimetto.
Le telefonate di B.
Non
molte. La prima nel ’93, c’è il Cda dei professori di Claudio Dematté.
Berlusconi è quasi in politica, ma sempre il padrone di Mediaset. Io
sono il capo del personale di Viale Mazzini, mi chiama per un favore. Mi
dice: ‘Senta, gli artisti giocano al rialzo sui compensi saltando tra
noi e voi, ci mettiamo d’accordo e li freghiamo?’.
Le pressioni dei politici.
Il
mio schermo è Zaccaria, molto preciso nel percepire le sensibilità del
centrosinistra. Un pomeriggio mi implora di andare a Palazzo Chigi per
illustrare le novità sulla Rai al presidente D’Alema. Parla mezzora,
mentre D’Alema fa gli origami con dei fogli di carta, poi si alza di
scatto e ci congeda: ‘Perché siete venuti qui?’.
Le pressioni dei politici bis.
Io
uso un metodo: premio i migliori anche se sono di destra. Un paio di
esempi: il finiano Mauro Mazza vicedirettore del Tg1 e Agostino Saccà
direttore di Rai1 e poi non tocco Clemente Mimun al Tg2.
Un litigio.
Con
Lamberto Dini: desidera la promozione di Anna La Rosa a vicedirettore
di un canale. Io respingo e lui urla: ‘Sono il ministro degli Esteri!’.
Daniele Luttazzi.
Un
errore. Critico il programma – e anche l’intervista a Marco Travaglio
sugli affari di Berlusconi – per dare un movente alle mie dimissioni.
Ora chiedo scusa, Luttazzi è un talento della tv.
Vita in Rai.
Terribile, non la consiglio neanche ai nemici. Il mio conforto era Biagio Agnes.
Il dg di marca Dc.
Biagio
viene in stanza per controllare se ho spostato dei quadri o se la
finestra ha tende nuove. Io sto per mollare, sono esausto dalle
pressioni del centrosinistra. Mi suggerisce: ‘Prendi un ufficio più
piccino accanto al prossimo dg. Il mio successore – dice – era Gianni
Pasquarelli. Siccome era diabetico, arrivava in Viale Mazzini non prima
delle dieci. Io alle sette ero già qui e tutti parlavano con me. Lui ha
protestato e, per risolvere il conflitto, mi hanno trovato un posto,
alla Stet’.
I posti si danno e, troppo spesso, si tolgono.
Alla
Olivetti di Carlo De Benedetti non sono il capo del personale, ma
dell’ex personale. Licenzio 10 mila dipendenti in 10 mesi. De Benedetti è
arrogante, è un padrone. Se gli dici sempre di sì, ti passa addosso.
Quando ha detto di no.
Mi
chiede di firmare 500 lettere di cassa integrazione per il 24 dicembre.
La vigilia di Natale, che diamine. Lui insiste, non lo faccio. E mi
vendico. Una volta mi informa che ha cambiato macchina aziendale. Ha
comprato un’Audi gigantesca per dismettere la Bmw, così dice. Ma qualche
settimana dopo, ritrovo una donna a bordo della Bmw: ‘Cosa fa qui,
signora?’ ‘Vado in Svizzera con l’Ingegnere’. Corro su e scateno un
putiferio.
Quando ha sbagliato a dire sì.
Franco Bernabé mi
sceglie per dirigere il Festival del Cinema di Venezia e poi organizza
un incontro con Giuliano Urbani, ministro della Cultura. Una follia,
prevedo le solite ‘spintarelle’. Franco mi trascina da Urbani.
Siparietto divertente. Vittorio Sgarbi spalanca la porta, allunga il
braccio e ci saluta: ‘Camerati!’. Urbani sorride, poi tira fuori un
taccuino e ci indica chi spedire in commissione per il premio. Tiro un
calcio a Franco e mi dimetto.
Il direttore dell’Università Luiss – durante la recessione del 2009 – suggerisce ai ragazzi di emigrare.
Una provocazione. Di mattina tutti mi ringraziano, di pomeriggio – i docenti, i più ipocriti – prendono le distanze.
Il figlio di Celli, però, resta in Italia alla Ferrari.
Succede dopo, ci va con l’Adecco e resta solo otto mesi.
Agiografia non credibile: Celli immune ai politici.
Sono furbo, e con la fama di cattivo. Con la vecchiaia, però, sono diventato buono e un po’ rincoglionito.