venerdì 12 ottobre 2018

Il Fatto 12.10.18
“Quanto era bella e intatta Genova” nei versi di Montale
di Giovanni Pacchiano


“La forme d’un ville/change plus vite, hélas! que le coeur d’un mortel”. La forma di una città cambia, ahimé, più in fretta del cuore di un uomo. Lo sosteneva Baudelaire nella magnifica poesia che è Le Cygne.
Profeta: lo vediamo oggi nelle nostre città: la mia piccola Milano, già elegante nei suoi palazzi settecenteschi, fiorita a fine Ottocento di un variegato liberty, poi modesta ma decorosa, oggi è travolta dall’opaco gigantismo dei megagrattacieli, segni dell’espropriazione di ciascun io individuale.
È solo nostalgia quella di noi anziani? O è senso dell’imbarbarimento della civiltà, che tende a cancellare o cementificare, anche metaforicamente, ogni ieri? Ma quanto Baudelaire applica alla città si può trasferire alla trasformazione di tutta l’Italia. Ho sulla scrivania un prezioso libretto appena uscito: Eugenio Montale, L’oscura primavera di Sottoripa (Il Canneto, pp. 112, 15 euro), una raccolta di testi montaliani rivolti a figure, cronache e luoghi famigliari della vecchia Liguria del poeta; arricchita da una bella, affettuosa introduzione evocativa di Bianca Montale, la nipote, e per cura intelligente e note ai testi di Stefano Verdino.
Sono raccolti qui scritti per la maggior parte, ma non proprio tutti, reperibili negli immensi Meridiani Mondadori dedicati a Montale, ma concentrati attorno al tema del “come eravamo”.
Con una caratteristica che va segnalata, costituendo la cifra del libro: non qui, come nel Montale delle poesie, almeno fino alle liriche della Bufera, la cifra costante, con variabili di illusoria salvezza, o presenze angeliche e insieme dolenti sfiorate e perdute, sta, come ha detto magistralmente Gianfranco Contini, “in un minimo di tollerabilità del vivere”; e nell’angoscia esistenziale veicolata attraverso il ritorno quasi perenne di rime interne, assonanze, versi finali o coppie di versi sigillo. Così per parlare di esperienze vitali e mortali, si veda anche, a epigrafe dell’Oscura primavera di Sottoripa, il mottetto (dalle Occasioni) “Lo sai: debbo riperderti e non posso”: dove la secca chiusa non lascia dubbi: “E l’inferno è certo”.
Ci crediamo: rinchiusi in una condizione che oggi più che ieri è anche la nostra (Montale, assieme a Sbarbaro, a Sereni, e a Caproni è tra quelli che con più anima hanno saputo raccontare il senso e l’inutilità del tempo, i lampi della memoria, la tragedia del divenire). Come non sorprenderci invece di fronte alle prose raccolte nel volumetto, che indicano tutt’altra tonalità?
Se non pensando che poeta e prosatore percorrono spesso nello stesso uomo cammini diversi, non divergenti, magari, ma non strettamente sovrapponibili nei modi. Perché, mentre nelle liriche il piccolo mondo antico di una volta torna con urgenza e massimo affanno nel quasi immediato o comunque non remoto ricordo, sia negli Ossi sia nelle Occasioni, qui, nei testi in prosa, il rimpianto si scioglie nella pacatezza, reale o autoimposta che sia, e la memoria sfiora con dolce nostalgia il passato contro il presente, ma subito si allontana dagli scempi perpetrati, a non sciupare i ricordi. Quelli della Genova di un tempo: “Quando io venni al mondo Genova era una delle più belle città italiane”. Quelli delle allora (il pezzo è del 1946), intatte Cinque Terre, popolate da “zappatori d’orto e marinai di piccolo cabotaggio”. E la villa avita delle vacanze, a Monterosso, amata e perduta: dal treno “appariva e spariva la villa, una pagoda giallognola e un po’ stinta, vista di sbieco, con due palme davanti”. Forse è l’attenzione al dettaglio, gelosamente ricostruito, che attenua distraendola la commozione. Mentre minutamente affettuosi, e dotati di un criterio di comprensione infallibile (per i giovani che non lo sanno, Montale fu anche grande critico), i ritratti di amici e poeti e scrittori, i sodali liguri della sua giovinezza: il vates, il poeta maudit, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, “l’elegiaco e il paesista”, che “ricorda un Corot, ma portato in gamma calda”.
E Mario Novaro, “dalla poesia volutamente sfatta grezza affannosa, espressione di un animo turbato”. Giovanni Boine: “molto del lento giro delle sabbiose dune delle sue spiagge è passato nella sua lirica; molto del tranquillo declinare dei viottoli tra i suoi orti”. E il più grande, Camillo Sbarbaro, a cui qui è dedicato un intero Ricordo: “L’arte di Sbarbaro era fatta di brevi fulgurazioni e la droga che lo portava a questi attimi felici era la vita”. Sì, la vita, il cuore che muta più lento: oggi Montale è ancora e per sempre il nostro poeta.