Il Fatto 11.10.8
Nanni Moretti ricomincia da “Tre piani” (e da Freud)
di Federico Pontiggia
Il
nuovo, misterioso e segretissimo film di Nanni Moretti ha un titolo,
Tre piani. Non è detto però che sarà quello con cui arriverà sul grande
schermo, perché per la prima volta nella carriera del regista non è suo.
Tre piani (in ebraico Shalosh Qomot, 2015) è il titolo del quinto
romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo, edito in Italia da Neri
Pozza nel 2017: Moretti ha deciso di adattarlo per il cinema, traslando
la storia dai sobborghi di Tel Aviv a Roma.
Il suo tredicesimo
lungometraggio non parte dunque da un soggetto declinato in prima
persona singolare, o al più plurale: un unicum in 42 anni spesi dietro
la macchina da presa, sicché Nanni è pronto a sfatare la
premessa-promessa dell’esordio Io sono un autarchico (1976).
Firmato
dall’autore, nato a Gerusalemme nel 1971, del fortunato Simmetria dei
desideri, Tre piani mutua la propria architettura poetica da una
palazzina borghese, associando ad altrettante famiglie le istanze
intrapsichiche freudiane, ovvero Es, Io e SuperIo. Paure e rimossi,
colpe e dolori, amore e fragilità, Nevo mette la penna nelle relazioni,
senza esprimere giudizi e senza rinunciare all’ironia, svelando le
realtà sottaciute dalla quiete dei pianerottoli: chi ci sta dietro
quelle porte? Che cosa nasconde la calma apparente degli spazi
condivisi? Quali inconfessabili verità si eludono nel decoro di aiuole e
parcheggi?
Ancor più perché inedita, non sappiamo quale fedeltà,
quale attaccamento alla lettera di Eshkol avrà la trasposizione di
Moretti, ma in originale i tre nuclei familiari sono così composti: al
primo piano, il giovane Arnon, unito ad Ayelet, che teme la figlia Ofri
sia stata abusata dall’anziano vicino Hermann, malato di Alzheimer; al
secondo piano, Hani, madre di due bimbi e “vedova” dell’assente Assaf,
che non esita a ospitare il redivivo cognato Eviatar in fuga dai
creditori; al terzo, la giudice in pensione Dovra, che complice la
segreteria telefonica appartenuta al defunto marito cerca il figlio Arad
e la possibile espiazione. A parte la traduzione spiccia, quale sarà il
voltaggio dell’adattamento? Rimandi, echi e simmetrie nel corpus
morettiano non mancano, da La stanza del figlio a Pâté de bourgeois,
passando per La messa è finita.
Prodotto come i precedenti Mia
madre (2015) e Habemus Papam (2011) da Domenico Procacci per Fandango,
Tre piani – o quel che sarà: un titolo alternativo potrebbe essere La
mia strada – è in fase di preparazione avanzata: dalla ricerca della
location al casting, per cui il cinema Nuovo Sacher di Moretti aprirà il
13 e 27 ottobre alla selezione di bambine dai 5 ai 13 anni e di ragazze
dai 16 ai 18 anni.
Nulla più trapela, ma se la scelta di adattare
un testo altrui è ipso facto sorprendente, l’evoluzione artistica di
Nanni, che il 19 agosto scorso ha festeggiato 65 anni, appare del tutto
coerente. Nel 2006 s’è dedicato all’anamnesi politica del Paese con Il
Caimano, cinque anni più tardi con Habemus Papam ha saputo preconizzare
nell’abbandono di Michel Piccoli le dimissioni di Benedetto XVI: un
uno-due di ampio respiro, prospettiva globale, valore non negoziabile.
Dopodiché ha sterzato nell’intimità familiare di Mia madre,
interpellando un’autobiografia immaginaria, senza reflussi nel
personalismo. Come farvi seguito, come sintetizzare pubblico e privato,
grande e piccolo se non ripartendo ex novo, accogliendo l’altro, leggi
una voce e una creatività differente, nel proprio cinema, correndo
perfino il rischio di fletterne l’autorialità?
Non può stupire,
assecondando questo desiderio di novità, che Moretti sia pronto a
portare in sala il 6 dicembre con Academy Two, e prima a chiudere il
36esimo Torino Film Festival, il quarto documentario della sua
filmografia: dopo Come parli frate? (1974), La cosa (1990) e Il diario
del caimano (2006), ecco Santiago, Italia. Targato Sacher Film, Le
Pacte, Storyboard Media e Rai Cinema, attraverso talking heads e
materiali d’archivio torna a ridosso del colpo di Stato dell’11
settembre 1973 in Cile che terminò il governo di Salvador Allende e
inquadra il ruolo dell’ambasciata italiana a Santiago, che diede rifugio
e quindi salvezza a centinaia di oppositori del regime di Pinochet.
L’Italia
in Cile e Tel Aviv a Roma, un import-export in cui Moretti sperimenta
un cosmopolitismo arioso e inaugura una dimensione da regista mai
praticata: orfano del soggettista che è stato, affrancato dal demiurgo
che s’è voluto e, vedremo se e in quale misura, in cerca di autore.