giovedì 11 ottobre 2018

Il Fatto 11.10.8
Nanni Moretti ricomincia da “Tre piani” (e da Freud)
di Federico Pontiggia


Il nuovo, misterioso e segretissimo film di Nanni Moretti ha un titolo, Tre piani. Non è detto però che sarà quello con cui arriverà sul grande schermo, perché per la prima volta nella carriera del regista non è suo. Tre piani (in ebraico Shalosh Qomot, 2015) è il titolo del quinto romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo, edito in Italia da Neri Pozza nel 2017: Moretti ha deciso di adattarlo per il cinema, traslando la storia dai sobborghi di Tel Aviv a Roma.
Il suo tredicesimo lungometraggio non parte dunque da un soggetto declinato in prima persona singolare, o al più plurale: un unicum in 42 anni spesi dietro la macchina da presa, sicché Nanni è pronto a sfatare la premessa-promessa dell’esordio Io sono un autarchico (1976).
Firmato dall’autore, nato a Gerusalemme nel 1971, del fortunato Simmetria dei desideri, Tre piani mutua la propria architettura poetica da una palazzina borghese, associando ad altrettante famiglie le istanze intrapsichiche freudiane, ovvero Es, Io e SuperIo. Paure e rimossi, colpe e dolori, amore e fragilità, Nevo mette la penna nelle relazioni, senza esprimere giudizi e senza rinunciare all’ironia, svelando le realtà sottaciute dalla quiete dei pianerottoli: chi ci sta dietro quelle porte? Che cosa nasconde la calma apparente degli spazi condivisi? Quali inconfessabili verità si eludono nel decoro di aiuole e parcheggi?
Ancor più perché inedita, non sappiamo quale fedeltà, quale attaccamento alla lettera di Eshkol avrà la trasposizione di Moretti, ma in originale i tre nuclei familiari sono così composti: al primo piano, il giovane Arnon, unito ad Ayelet, che teme la figlia Ofri sia stata abusata dall’anziano vicino Hermann, malato di Alzheimer; al secondo piano, Hani, madre di due bimbi e “vedova” dell’assente Assaf, che non esita a ospitare il redivivo cognato Eviatar in fuga dai creditori; al terzo, la giudice in pensione Dovra, che complice la segreteria telefonica appartenuta al defunto marito cerca il figlio Arad e la possibile espiazione. A parte la traduzione spiccia, quale sarà il voltaggio dell’adattamento? Rimandi, echi e simmetrie nel corpus morettiano non mancano, da La stanza del figlio a Pâté de bourgeois, passando per La messa è finita.
Prodotto come i precedenti Mia madre (2015) e Habemus Papam (2011) da Domenico Procacci per Fandango, Tre piani – o quel che sarà: un titolo alternativo potrebbe essere La mia strada – è in fase di preparazione avanzata: dalla ricerca della location al casting, per cui il cinema Nuovo Sacher di Moretti aprirà il 13 e 27 ottobre alla selezione di bambine dai 5 ai 13 anni e di ragazze dai 16 ai 18 anni.
Nulla più trapela, ma se la scelta di adattare un testo altrui è ipso facto sorprendente, l’evoluzione artistica di Nanni, che il 19 agosto scorso ha festeggiato 65 anni, appare del tutto coerente. Nel 2006 s’è dedicato all’anamnesi politica del Paese con Il Caimano, cinque anni più tardi con Habemus Papam ha saputo preconizzare nell’abbandono di Michel Piccoli le dimissioni di Benedetto XVI: un uno-due di ampio respiro, prospettiva globale, valore non negoziabile. Dopodiché ha sterzato nell’intimità familiare di Mia madre, interpellando un’autobiografia immaginaria, senza reflussi nel personalismo. Come farvi seguito, come sintetizzare pubblico e privato, grande e piccolo se non ripartendo ex novo, accogliendo l’altro, leggi una voce e una creatività differente, nel proprio cinema, correndo perfino il rischio di fletterne l’autorialità?
Non può stupire, assecondando questo desiderio di novità, che Moretti sia pronto a portare in sala il 6 dicembre con Academy Two, e prima a chiudere il 36esimo Torino Film Festival, il quarto documentario della sua filmografia: dopo Come parli frate? (1974), La cosa (1990) e Il diario del caimano (2006), ecco Santiago, Italia. Targato Sacher Film, Le Pacte, Storyboard Media e Rai Cinema, attraverso talking heads e materiali d’archivio torna a ridosso del colpo di Stato dell’11 settembre 1973 in Cile che terminò il governo di Salvador Allende e inquadra il ruolo dell’ambasciata italiana a Santiago, che diede rifugio e quindi salvezza a centinaia di oppositori del regime di Pinochet.
L’Italia in Cile e Tel Aviv a Roma, un import-export in cui Moretti sperimenta un cosmopolitismo arioso e inaugura una dimensione da regista mai praticata: orfano del soggettista che è stato, affrancato dal demiurgo che s’è voluto e, vedremo se e in quale misura, in cerca di autore.