lunedì 1 ottobre 2018

Il Fatto 1.10.18
L’esperimento del mondo condotta dal visionario Mauri
L’omaggio di Marramao a uno dei massimi esponenti dell’avanguardia
di Furio Colombo


È una strana esperienza aprire e cominciare a leggere L’esperimento del mondo. Mistica e filosofia nell’arte di Fabio Mauri. Lo è persino per chi è stato a lungo vicino a Mauri e ha frequentazione con Marramao. Pensi di essere esperto della indagine che stai per leggere. Ma dalla prima pagina il libro fugge in avanti con un impeto narrativo che non riesci a fermare. Così che l’esperienza del libro assomiglia in modo sorprendente al modo di essere artista di Mauri. All’improvviso Mauri è là, altrove, molto più avanti mentre stavate insieme. E ti tocca inseguirlo per stare al passo, vedere, capire, ascoltare. Ecco dunque un primo dato su questo libro. Il filosofo Marramao scrive pagine su un uomo al quale, nella vita, è stato a lungo accanto. E gli succede che le sue pagine di riflessione saggistica diventino narrative (tutto era narrazione in Fabio Mauri) e che quella narrazione dia vita a una presenza di Mauri con modalità quasi da medium, come accadeva per Mauri in vita, quando gli giravamo intorno ascoltandolo e osservandolo lavorare, e per farlo dovevamo sempre rincorrere l’autore-personaggio che era altrove. Qui, noi lettori, cerchiamo di stare al passo con Marramao, seguendo le pagine del libro come in grandi tavole illustrate di Tin Tin. La narrazione assume una struttura liquida che penetra in tutti gli spazi di una vita da artista di Mauri. Fabio non assomiglia ad altri artisti della sua epoca, perché è molto occupato nella visione filosofica (che è religiosa) di quello che sta facendo, ha fatto (e benevolmente ti spiega), oppure farà, cogliendoti di sorpresa. Ascolta le voci, che gli svelano molto, ma non si lascia incantare e non giace, da guru, annunciando il mondo. Ma sa evocare il mondo, prendendo e spingendo avanti con eleganza ciò che forse è il passato e forse ciò che sta per venire. È un visionario, mistico, meditativo, ci ricorda Marramao. Ma passa in laboratorio a fabbricare (fino al dettaglio artigiano) le sue mostre-eventi , che un po’ sono quadro, un po’ sono schermo, un po’ sono memoria, un po’ è l’apparizione vera e umana della figura come se tornasse (torna), un po’ è happening, ed è sempre teatro, autore incluso. Quando ti orienti, la rivelazione ti fa trasalire tanto è diversa dal punto in cui credevi di essere giunto, seguendo passo per passo l’artista. Questo racconta Marramao filosofo, che qui è narratore denso e intenso che vede, per ragioni di affinità ma anche di contiguità nella vita, i modi e i momenti in cui “l’esperimento” si è svolto. E ciò che sa ci dice un di più che è importante sapere.

Il Fatto 1.10.18
L’uomo nero fra spie e Fiat che uccise i fratelli Rosselli
Roberto Navale, carabiniere e agente del servizio segreto militare, poi ingaggiato dal Lingotto, viene condannato per ricettazione fallimentare. La fece franca, invece, per l’assassinio dei due anti-fascisti
di Massimo Novelli


Accadeva sessant’anni fa, nell’ottobre 1958, al Tribunale di Pinerolo. Ventun anni dopo l’assassinio dei fratelli antifascisti Carlo e Nello Rosselli, avvenuto in Francia, a Bagnoles-de-l’Orne, il 9 giugno del 1937, il nome dell’ex maggiore dei carabinieri e agente del Sim (il servizio segreto militare) Roberto Navale riecheggiò nuovamente in un’aula di un palazzo di giustizia. Fu il Tribunale di Pinerolo, città a 38 chilometri da Torino, a riesumarlo. Il 7 ottobre 1958 i giudici inflissero 13 mesi di reclusione, per il reato di ricettazione fallimentare, all’uomo che per l’organizzazione degli omicidi dei Rosselli, eseguiti da alcuni fascisti francesi del gruppo della Cagoule, era stato prima condannato all’ergastolo, il 12 marzo 1945, poi a 7 anni, e quindi assolto a Perugia nel 1949 per insufficienza di prove, con una sentenza che Piero Calamandrei definì “un’idea da pazzi”.
L’assoluzione di Navale, del colonnello dei carabinieri (e suo superiore nel Sim) Santo Emanuele, oltre che di Filippo Anfuso, stretto collaboratore di Galeazzo Ciano, pose “una pietra tombale”, scriverà lo storico Mimmo Franzinelli, sull’individuazione dei mandanti e degli organizzatori dell’assassinio del fondatore di Giustizia e libertà e del fratello Nello. La condanna di Navale in quel processo per una bancarotta, il fallimento del commerciante di petroli Pietro Flogna, rammentò per qualche settimana, sui giornali, il ruolo che l’ex capo del centro Sim di Torino aveva avuto nell’affaire Rosselli. Nemmeno il processo di Pinerolo, oltre che la vicenda dei Rosselli e il collocamento del maggiore nella riserva dell’Arma nel 1942 dopo un’inchiesta inchiesta militare sui suoi affari più che spregiudicati, compresa l’apertura di una casa di tolleranza a San Remo, riuscirono a intaccare la sua figura.
E non impedirono che il 20 maggio 1965, ai suoi funerali, gli venissero resi gli onori militari. Solo l’Unità lo scrisse: “È morto ieri all’ospedale Mauriziano – ricordò il quotidiano del Partito comunista – dove era stato ricoverato d’urgenza per un collasso cardiocircolatorio, l’ex maggiore Roberto Navale, di anni 54 (in realtà ne aveva 68, ndr), già capo a Torino, durante il fascismo, del famigerato Sim (controspionaggio militare). I funerali si sono svolti questa mattina, partendo dall’ospedale. Ciò che ha destato un senso di grande sorpresa, dato il passato del Navale, è stata la presenza di numerosi ufficiali dell’Arma e di una rappresentanza armata che ha reso gli onori militari”.
Non è l’unica sorpresa a emergere scavando tra i fascicoli di polizia dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Tra le carte riguardanti l’ufficiale dei carabinieri reali, che nel giugno del 1941 era stato assunto alla Fiat guidata da Vittorio Valletta come capo dei servizi di sicurezza, spicca una nota che il Servizio informazioni speciali (Sis) della polizia italiana, il 3 luglio 1950, trasmette alla Divisione affari riservati del ministero dell’Interno: “Il noto ex-maggiore dell’Arma Navale Roberto, già appartenente ai servizi informativi militari, che tanto fece parlare di sè per l’uccisione dei fuorusciti italiani Rosselli avvenuta in Francia durante il fascismo, comincia a far riparlare di sè per una sua attività che egli svolgerebbe a Torino e in Milano a favore di servizi stranieri”. Lo si sospettava di essere al soldo dei francesi, ma pure degli americani della Cia. Certo è che in quegli anni, mentre a Roma si condannava Navale all’ergastolo, a Torino, dopo la Liberazione, la Fiat avallava un passato nella Resistenza della spia che aveva contattato i cagoulards francesi per eliminare i Rosselli per conto del Sim e dei vertici del fascismo.
L’ 8 settembre, in una lettera inviata da Torino all’avvocato Giovanni Bovetti, che assisteva Navale, Valletta scrisse: “Egregio Avvocato, Sono ben lieto di poterLe dichiarare che Magg. Navale da noi assunto alla Fiat come capo dei sorveglianti nel 1941, ha svolto i compiti affidatagli nel migliore modo. Dopo l’8 settembre ’43 fu da me incaricato di provvedere ad assumere nel personale di sorveglianza, ex militari di sicura fede patriottica e partigiana, per facilitare operazioni di prelievo e di aiuto in materiali Fiat e vari al movimento patriottico”.
La brigata con cui Navale avrebbe collaborato era legata al’Oss (il servizio segreto Usa), e aveva come comandante Walter Navarra. Un uomo così descritto dai giornali nel 1985, durante il processo per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli: “Sulla scena del processo Ambrosoli, ecco un altro degno personaggio della brulicante e insidiosa combriccola che per anni si accampò alla corte di don Michele Sindona. Si chiama Walter Navarra”. Ex comandante “di una formazione Matteotti”, è “accusato di violenza privata e tentata estorsione ai danni di Enrico Cuccia di Mediobanca, e di favoreggiamento di Sindona durante il falso rapimento del ’79”.

Corriere 1.10.18
Elzeviro Ricordi un po’ instabili
Gorkij su Lenin un ritratto accomodato
di Luciano Canfora


«È convinto di avere ragione e non può tollerare che qualcuno gli rovini il lavoro. La sua sete di potere scaturisce dalla immane convinzione che i suoi princìpi siano giusti e forse dalla incapacità — assai utile per un politico — di mettersi dal punto di vista dell’avversario». Queste parole tratte dal profilo di Lenin di Lunaciarskij (Pietrograd, 1919) non figurano più nell’edizione moscovita del 1923 (ripubblicata nel 1924), presa a base, mezzo secolo fa, dall’edizione inglese — e subito dopo italiana (1967) — dei Profili di rivoluzionari dello stesso Anatolij Lunaciarskij («il più intellettuale dei bolscevichi, il più bolscevico degli intellettuali», come venne definito). Riscritture di questo genere sono un fenomeno da studiare con la lente della filologia e la consapevolezza storica dei fatti. Un caso di straordinario interesse lo ha dissotterrato con perizia e brillantezza, uno dei nostri più apprezzati russologi, Marco Caratozzolo. Si tratta del profilo di Lenin (Maksim Gorkij, Lenin, un uomo, Sellerio, pagine 176, e 13), scritto di getto da Maksim Gorkij poco dopo la morte di Lenin e poi ripensato, limato, accomodato nella successiva — più nota — edizione (1931): quella approdata nel XXII volume dell’edizione russa, e, di lì, nel XV volume in traduzione italiana delle Opere di Gorkij (Editori Riuniti, 1963).
La stesura originaria era apparsa nel 1924; con modifiche lo scritto fu riedito a Berlino nel 1927. L’edizione del 1931 è quella «sovietica». Per capire la qualità delle modifiche apportate ci si può riferire al breve paragrafo su Trotsky. È un elogio breve e vivace: (Lenin) diede un pugno sul tavolo e disse: «Ecco, che mi mostrino un altro uomo capace in un anno di mettere su un esercito esemplare, e poi anche di conquistarsi il rispetto degli esperti militari. Quest’uomo noi ce l’abbiamo! E faremo miracoli!». Nel 1931 il paragrafo viene modificato nella sostanza e diventa: «(Lenin disse) Non è uno di noi! È con noi, ma non è uno di noi. È ambizioso. C’è in lui qualcosa di negativo, gli viene da Lassalle» (pp. 152-153 dell’apparato della traduzione selleriana).
L’accusa «non è dei nostri» ha un sapore rituale, non fu infrequente nell’atmosfera kominternista. Nelle note di diario di Dimitrov si legge di un dialogo tra Dolores Ibarruri e José Diaz (entrambi esuli dopo la vittoria franchista) presente Dimitrov, il 19 luglio 1941 a proposito di Togliatti (Ercoli): «Diaz da noi. Esprime sfiducia politica in Ercoli. Anche Dolores dichiara di non avere piena fiducia in Ercoli. Sente in lui qualcosa di estraneo, di non nostro, anche se non può dare a questo un fondamento concreto» (Diario, a cura di Silvio Pons).
I cambiamenti apportati da Gorkij investono ovviamente soprattutto giudizi e notizie su Lenin. Un altro paragrafo che ha subito un capovolgimento totale è il 7: «Non può esserci un vožd (capo) che, a un livello o a un altro, non sia un tiranno. Probabilmente all’epoca di Lenin sono state uccise più persone che all’epoca di Wat Tyler, di Thomas Müntzer, di Garibaldi». Tutta questa parte nell’edizione del 1931 scompare.
L’aspetto che più colpisce, in questa storia, è che questi cambiamenti li hanno apportati gli autori stessi. Trattandosi di «ricordi» — in questo caso risalenti al 1919-20 — e di valutazioni conseguenti, è impressionante come essi vengano consapevolmente modificati dieci anni dopo. La memoria è, com’è noto, creativa, ma quella che deve (o vuole) tener conto delle opportunità politiche è anche insidiosa. E induce a porsi la domanda: cos’è un testimone oculare?

Il Fatto 1.10.18
La cittadinanza e i diritti umani nell’antica Roma
di Orazio Licandro


Su un aspetto il governo gialloverde ha messo tutti d’accordo: dalle opposizioni alla Chiesa cattolica, dalle organizzazioni sindacali al volontariato e ai professori che hanno guidato il fronte contrario alla sciagurata riforma costituzionale perseguita da Renzi, forte e univoca è stata la voce che si è levata contro il decreto sicurezza Salvini. Oltre a essere un maleodorante pentolone dove i migranti si mescolano con terroristi e mafiosi, in una sorta di Milleproroghe della paura e dell’odio, quel decreto contiene una misura odiosa, anzi aberrante, cioè la revoca della cittadinanza a coloro che, avendola ottenuta, commettono certi reati. Un arretramento spaventoso sul piano del principio di uguaglianza e, pertanto, di un fondamentale della civiltà giuridica in assoluto, che ne profila una sicura incostituzionalità. Persino nell’antica Roma dinanzi al civis si usava una estrema prudenza. Il cittadino poteva perdere la cittadinanza perché caduto in prigionia bellica; ma qualora fosse riuscito a rientrare in patria la riacquistava. Poteva, poi, anche perderla per quei crimini per i quali era comminata la pena capitale. Tuttavia, non solo ciò valeva per ogni civis e non soltanto per quelli di cittadinanza più recente, ma si riconosceva comunque al cittadino la possibilità di sottrarsi anche alla pena di morte con la facoltà di scegliere, sia pure un attimo prima della pronuncia della sentenza da parte dei comizi popolari, di andare in volontario exilium. L’Italia si trova in un tornante insidioso, e tutto occorre salvo continuare ad alzare la tensione o segnare il passo sul piano dei diritti della persona.

La Stampa 1.10.18
Tre strategie diverse per la manovra
E anche Tria parla di “scommessa”»
di Stefano Lepri


Il documento che il governo sostiene di aver approvato giovedì notte non è ancora pronto in tutti i dettagli; per ora viene raccontato in modi contrastanti da diversi ministri.
Difficile anche contare a quante narrazioni diverse ci troviamo di fronte; forse tre. Nemmeno è chiaro se uno scontro con le autorità europee ci si sforzi di evitarlo o lo si cerchi attivamente.
Nella versione Di Maio, la manovra di bilancio per il 2019 avrà al centro maggiori spese correnti, dirette soprattutto contro la povertà. Nella versione Tria, punterà sugli investimenti, sperando in un loro potente e rapido effetto sulla crescita. Nella versione Savona, facendo un po’ di tutto riuscirà a realizzare una specie di nuovo miracolo economico.
Vedremo in settimana quali cifre compariranno nel testo. Presumibilmente quelle già ambiziose anticipate dal ministro dell’Economia, dato che quelle mirabolanti del collega degli Affari europei – riportare la crescita del prodotto lordo interno (Pil) al 3% annuo, soglia mai più superata dopo l’anno 2000 – lasciano esterrefatti gli esperti della materia.
Lo stesso Tria ammette che il governo sperando di avviare subito massicci investimenti compie una «scommessa». Strano gioco d’azzardo, hanno osservato diversi tecnici tra cui Carlo Cottarelli, perché nel caso non si vinca non solo si perderà la posta, ma si pagherà qualcosa in aggiunta (tagli alla spesa in caso di mancato effetto positivo sulla crescita).
Il roseo quadro di previsioni deve essere verificato dall’apposito organismo di controllo, in funzione dal 2014: l’Ufficio parlamentare di bilancio. Poiché spesso in passato diversi governi sono ricorsi al trucco dell’ottimismo (più si prevede che l’economia vada bene, più c’è spazio nel bilancio per largheggiare) ora ciascun Paese europeo ha una simile autorità indipendente.
Anche la Banca d’Italia, che deve tutelare la stabilità finanziaria, vaglierà le cifre. Il governatore Ignazio Visco fa presente che occorre una traiettoria credibile di riduzione del debito pubblico. E guarda caso, elevare con l’ottimismo di cui sopra la crescita 2019 di ben sette decimi, dallo 0,9% all’1,6%, pare proprio funzionale a conciliare un deficit accresciuto al 2,4% con un calo del debito.
Le Camere dovranno ascoltare il parere di Upb, Banca d’Italia, Istituto centrale di statistica. È importante che possano esprimersi in libertà senza essere soggetti a intimidazioni. D’altra parte, se cifre poco credibili passassero l’esame, un successivo verdetto critico delle autorità europee screditerebbe il Paese intero.
Già l’Europa non sembra condividere l’impostazione di fondo del governo di Roma: che di fronte al modesto rallentamento della crescita previsto (dal 2,0% del 2018 all’1,8% del 2019 e all’1,7% nel 2020 secondo la Bce nell’insieme dell’area euro) l’economia italiana abbia bisogno di una spinta forte dal bilancio pubblico.
Ovvero, in parole semplici: siete sicuri che una automobile scassata possa correre se meglio rifornita di benzina? All’Italia che da anni cresce meno degli altri Paesi euro, serve una dose maggiore del rimedio già adottato (il deficit pubblico) o non piuttosto provvedere alle cure finora trascurate (riforme per dinamizzare l’economia)?
Se risultasse più vicina al vero la versione Di Maio, l’effetto sulla crescita sarebbe modesto e accompagnato da un aumento dei prezzi. Se si realizzasse il piano di Tria, l’impulso alla crescita potrebbe distribuirsi su un tempo più lungo. E quando si chiedono più soldi in prestito (il deficit) occorre domandarsi quanta pazienza di attendere avrà chi li presta, ovvero i mercati.

Il Fatto 1.10.18
Crescita e investimenti, le tre manovre diverse di Tria, Conte e Savona
Cifre che non tornano - Premier e ministro dell’Economia più cauti sull’impatto positivo sul Pil
di Stefano Feltri


Non è finita, anzi, è appena cominciata. Per cogliere la tensione dentro al governo sulla legge di Bilancio basta incrociare l’intervista del ministro dell’Economia Giovanni Tria (Sole 24 Ore), quella del premier Giuseppe Conte (Corriere) e l’intervento del ministro degli Affari europei Paolo Savona (Fatto). I numeri che presentano sono diversi e tradiscono la divergenza di vedute sulla Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza di cui conosciamo soltanto l’obiettivo di deficit, 2,4 per cento del Pil per tre anni, visto che i tecnici del Tesoro stanno ancora lavorando sulle simulazioni dopo che il Consiglio dei ministri giovedì ha approvato numeri diversi da quelli portati da Tria.
Tria, come Savona, osserva che il deficit lasciato in eredità dal governo Gentiloni per il 2019 non è lo 0,8 per cento concordato con la Commissione ma, per effetto della bassa crescita, 1,2. A questo però vanno aggiunti i 12,5 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva, che il governo Conte ha deciso di spendere in deficit, come gli esecutivi precedenti. Il vero deficit, quindi, partiva da 2 per cento. Il messaggio di Tria è chiaro: ho ceduto soltanto sullo 0,4, cioè 6 miliardi (una posizione che contraddice però il suo impegno precedente a pretende un deficit 2019 all’1,6 per cento).
Le differenze sono sull’impatto della manovra, tra reddito di cittadinanza, investimenti e riforma delle pensioni. Savona scrive che l’insieme di queste misure “può portare a una crescita nel 2019 di circa il 2 per cento e crescere ancora di mezzo punto percentuale all’ anno, raggiungendo (…) il 3 per cento”. Tria, ma anche Conte, danno una stima più bassa: 1,6 nel 2019 e 1,7, abbastanza – dice Tria – per far scendere il debito di un punto percentuale nel triennio (messaggio a Bruxelles).
Tria annuncia poi un dettaglio cruciale che nessuno degli altri ministri del governo ha mai citato: “Una clausola che prevede la revisione della spesa in modo che l’obiettivo di deficit per i prossimi anni non sia superato rispetto al limite posto”. Una frase che conferma il sospetto di molti: che le misure annunciate non siano compatibili con quel livello di deficit ma ne richiedano uno più alto, forse sopra il 3 per cento. Per questo ci saranno clausole di salvaguardia che fanno scattare tagli automatici di spesa (quella per le detrazioni fiscali?) se l’impatto sulla crescita del misure non è tale da finanziarle con un aumento di gettito. É l’ultima carta rimasta a Tria da giocare nella trattativa con Bruxelles, ma chissà se Cinque Stelle e Lega sono d’accordo. L’ultima volta che un governo ha lasciato una clausola di quel tipo era il 2011, con il ministro del Tesoro Giulio Tremonti che aveva previsto tagli lineari di 20 miliardi alle detrazioni fiscali in assenza di una riforma delle pensioni o di altri interventi di pari entità. Tre mesi dopo quella manovra l’Italia sfiorava il default.
Anche sugli investimenti i numeri non tornano. Conte parla di “38 miliardi nei prossimi 15 anni e altri 15 nel prossimo triennio”. I primi sono stati deliberati dai governi Renzi-Gentiloni, i 15 da questo esecutivo. Tria chiarisce che gli investimenti valgono “circa due decimali di Pil aggiuntivi per il 2019, per poi arrivare a quattro decimali (6,5 miliardi) aggiuntivi nel 2021”. Quindi il grosso dell’intervento non parte subito, ma fra due anni, con effetti che quindi si vedranno ancora più avanti. Savona parla di “un aumento degli investimenti nell’ordine di almeno l’1 per cento di Pil, di cui la metà su iniziativa dei grossi centri produttivi di diritto privato dove lo Stato ha importanti partecipazioni”. Quindi in quel conto ci sarebbero pure gli investimenti di Enel, Leonardo, Eni, che di solito non vengono conteggiati.
Per capire come queste diverse versioni della stessa manovra si concilieranno bisognerà il testo ufficiale della Nota di aggiornamento al Def.

Corriere 1.10.18
Economia e politica
Le risorse contese tra i Poteri
di Ernesto Galli della Loggia


Una delle peggiori conseguenze dell’arrivo al potere della coalizione Lega-5Stelle è che da quel momento parlare di certe cose è diventato politicamente sospetto. Si rischia di passare all’istante per tifosi dei partiti di governo. Ma è un rischio da correre se si vuole cogliere ciò che sta dietro la cronaca politica. Se ad esempio si vuole cogliere ciò che sta dietro l’osservanza o meno delle regole europee in materia di deficit. Che è, né più né meno, la questione cruciale del rapporto tra la democrazia e il potere economico, tra la politica e l’economia.
Si tratta di un rapporto per sua natura critico. La democrazia infatti è nata per consegnare il potere politico nelle mani di coloro che non hanno il potere economico. I quali costituiscono di regola la maggioranza della popolazione, e perciò la maggioranza dei votanti. Ma è una maggioranza, quindi, che verosimilmente adopererà il potere politico così ottenuto soprattutto a un fine: quello di migliorare le proprie condizioni di vita. La duplice conseguenza è che da un lato nei regimi democratici il cuore dell’attività di governo consiste inevitabilmente nello spendere (perlopiù a favore di chi non ha), e dall’altro che il consenso elettorale dipende in misura decisiva dalla promessa di farlo (o di abbassare le tasse, il che ha in sostanza lo stesso effetto). Ne risulta che più di qualunque altro regime la democrazia ha bisogno di risorse.
Di solito di una quantità di risorse sempre crescente dal momento che sempre crescenti finiscono fatalmente per essere le aspettative dei suoi cittadini. Il secondo risultato è che al fine di procacciarsi tali risorse la politica democratica è spinta altrettanto fatalmente a cercare di sottomettere ai suoi bisogni l’economia: innanzi tutto limitando in vari modi il diritto di proprietà. Non è un caso che alle origini della democrazia moderna vi sia la lotta violenta che negli anni 30 il presidente Roosevelt scatenò contro il potere giudiziario della Corte Suprema, colpevole per l’appunto di voler difendere in nome della Costituzione l’intangibilità del diritto di cui sopra. Si sa come finì: Roosevelt non esitò a mutare la composizione della Corte e questa si rassegnò a forzare la lettera della Carta nel senso voluto dal Presidente.
Sta di fatto però che mentre fino agli anni 80 del Novecento questa tensione tra politica ed economia, tipica della democrazia, aveva visto per mezzo secolo una prevalenza della prima sulla seconda, da allora invece le cose sono rapidamente cambiate. Dapprima la sovranità politica ha preso a cedere terreno grazie alla proclamata indipendenza della Banche centrali rispetto ai governi: il che ha voluto dire la perdita da parte della politica stessa del controllo sui tassi di cambio tra le monete e sui tassi d’interesse (innanzi tutto sui titoli di Stato) a favore del mercato finanziario. Il quale, dal canto suo, pressoché contemporaneamente assisteva anche a una completa liberalizzazione dei movimenti di capitale vedendo perciò enormemente accresciuto il proprio raggio d’azione e d’influenza: innanzi tutto rispetto ai bilanci statali bisognosi di credito.
Da allora la politica è stata costretta a continui passi indietro specialmente rispetto a un mercato finanziario sempre più unificato e interconnesso, sempre più globalizzato, al cui centro si collocano oggi non più di una trentina di grandi istituti bancari, le cosiddette banche sistemiche, che naturalmente determinano in misura decisiva gli andamenti di alcuni parametri chiave. Per avere un’idea della loro stazza, e quindi del loro potere, basta pensare che nel 2012 il totale dei bilanci di 28 di tali banche, ammontante a oltre 50 mila miliardi di dollari, superava l’ammontare dell’intero debito pubblico mondiale. Si aggiunga che mentre tali banche superavano più o meno brillantemente la crisi del 2007-2009, tra l’altro venendo ricapitalizzate massicciamente dagli Stati, questi invece vedevano la percentuale del proprio debito rispetto al Pil passare a livello mondiale, tra il 2007 e il 2013, dal 53 al 70 per cento.
Il risultato è che oggi, soprattutto in conseguenza della globalizzazione, la politica ha perduto quasi interamente la sua antica sovranità monetaria — un attributo, lo ricordo, che insieme al monopolio legale dell’uso della forza ha da sempre connotato la statualità — a favore di un ristretto conglomerato di istituzioni bancario-finanziarie in larga parte deterritorializzate. Così come sono sempre più in larga parte deterritorializzate anche le grandi imprese multinazionali operanti nei vari Stati ma in grado di sottrarsi in notevolissima misura agli obblighi della fiscalità e addirittura di mettere in competizione gli Stati tra di loro per chi riesce a incamerare i loro (in genere assai ridotti) esborsi tributari. Tutto ciò mentre a livello planetario i paradisi fiscali si moltiplicano, sicché quote altissime di ricchezza privata si sottraggono a ogni dovere di solidarietà, e di fatto il carico tributario finisce sempre più per pesare sulle classi medie e lavoratrici.
Nel mondo, insomma, minaccia di crearsi una inedita condizione di tendenziale impoverimento/dipendenza economica degli Stati. Questi si sono visti e si vedono via via sottrarre la possibilità tanto di finanziarsi monetariamente quanto di ottenere per via fiscale le risorse necessarie alla vita collettiva. Con il risultato di essere viepiù costretti a indebitarsi con il sistema finanziario. Da anni, in tal modo, gli Stati, cioè i loro cittadini, perdono indirettamente anche capacità e sovranità politica. Chi, come è giusto, si preoccupa per l’ondata di antipolitica che caratterizza il nostro momento storico — cioè per il clima di sfiducia e di sprezzante disinteresse che circonda la politica — non può fare a meno di considerare quanto dietro un fenomeno del genere vi sia proprio la perdita d’incisività della politica stessa specialmente in campo economico.
Certo: un fattore scatenante dei nuovi orientamenti sopraggiunti negli anni 80 di cui ho fin qui parlato è stata la rivolta delle opinioni pubbliche nei confronti degli errori, degli sprechi, della corruttela di ogni tipo, di cui la politica si è resa responsabile nei decenni in cui ha comandato senza dover rendere conto a nessuno. Quando essa poteva abusare a suo piacere della propria sovranità monetaria. Ma tutto ciò non deve far dimenticare che alla lunga l’impoverimento tendenziale degli Stati minaccia di avere conseguenze funeste sull’avvenire dei regimi democratici. I quali hanno potuto conoscere il rafforzamento e il radicamento che hanno conosciuto, hanno potuto ottenere il consenso di massa di cui finora hanno goduto, solo grazie al fatto che tali regimi sono stati in grado di distribuire risorse e assicurare protezione sociale ai propri cittadini in una misura mai vista in precedenza.

Corriere 1.10.18
I numeri e i dubbi
Crescita, una scommessa con quattro punti critici
di Federico Fubini


L’Italia alla resa dei conti. E la quasi totalità della partita si gioca su pensioni e sostegno alla povertà. Dopo la Grecia, abbiamo la percentuale di occupati più bassa del mondo sviluppato, e il 10% più indigente della popolazione controlla appena l’1,8% del totale dei redditi, metà rispetto al resto d’Europa. Numeri pesanti. Resta ora da capire se la strategia messa in atto da Salvini e Di Maio sia credibile o meno, quale sia la vera equazione della crescita, quali gli effetti collaterali e quali i canali finanziari.
L’Italia è a una resa dei conti e quasi tutto si gioca sulle pensioni e il sostegno alla povertà. Forse era inevitabile. Dopo la Grecia, abbiamo la percentuale di occupati più bassa nel mondo sviluppato e il 10% più indigente della popolazione controlla una fetta di appena l’1,8% del totale dei redditi, metà rispetto al resto d’Europa. Nel frattempo la riforma delle pensioni del 2012, resa necessaria dagli enormi squilibri del sistema e dalla crisi finanziaria, ha generato effetti unici in Occidente: un salto in avanti di sette anni dell’età del ritiro.
All’epoca tutto avvenne senza un’ora di sciopero, in una comunità nazionale terrorizzata all’idea che un default distruggesse i risparmi di tre generazioni. Neanche le persone in povertà assoluta sono mai scese in piazza mentre il loro numero si gonfiava da meno di due milioni nel 2005 a più di cinque l’anno scorso. Questi traumi però aprono fratture profonde che prima o poi tornano allo scoperto. Succede in questi giorni, con i piani di deficit che Luigi Di Maio (M5S) e Matteo Salvini (Lega) hanno imposto al governo. Resta da capire solo se questi siano credibili e se appaiano tali a chi ogni anno presta oltre mille miliardi a imprese, banche e allo Stato italiano.
L’equazione della crescita
Tutto si fonda su un’equazione: aumentare la spesa pubblica per consumi e investimenti dovrebbe generare crescita, mentre a sua volta l’aumento del Prodotto interno lordo (Pil) in proporzione contiene il deficit e fa scendere il debito. Ieri in un’intervista al Sole 24 Ore , il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha difeso così scelte che fino a giovedì scorso all’ora di cena non condivideva: un aumento della spesa per investimenti dello 0,2% del Pil secondo lui dovrebbe far salire il deficit fino al 2,4% del Pil nel 2019, ma non oltre perché farebbe accelerare la crescita all’1,6% l’anno prossimo e all’1,7% nel 2020. Dunque un’economia più robusta rende, in proporzione, più piccolo il debito pubblico e contiene al 2,4% fino al 2021 il deficit. Sul Fatto Quotidiano anche il ministro degli Affari europei Paolo Savona ha ripetuto lo stesso argomento, curiosamente dando numeri diversi: un aumento di spesa pubblica per investimenti dello 0,5% del Pil, più un altro 0,5% di Cassa depositi e prestiti dovrebbe far crescere il Pil al 2% nel 2019 e fino al 3% in seguito. In sostanza, l’impennata della spesa risanerebbe i conti pubblici ampliando la base dell’economia.
Gli effetti collaterali
La strategia funziona se le previsioni di crescita si realizzano, altrimenti fa esplodere il deficit e fa salire il debito a livelli pericolosissimi. È fondamentale dunque capire quante probabilità abbia l’economia di accelerare come pensa il governo. Il punto di partenza non è buono. Savona parla di «situazione che volge al peggio», Tria prevede una frenata ad appena lo 0,9% di crescita nel 2019 se non si cambia politica. Hanno ragione loro due: la produzione industriale in contrazione, la fiducia debole nel manifatturiero e l’occupazione in calo suggeriscono che l’Italia oggi sta crescendo non molto più di zero. Se questo è il punto d’ingresso nel 2019, una semplice legge statistica suggerisce che di questi tempi tra un anno l’Italia dovrebbe correre a ritmi annuali fra il 2,5% e il 4% semplicemente per centrare gli obiettivi di crescita annunciati dal governo. Probabile? Non troppo, dato che il tasso di espansione medio annuo dal 1995 è dello 0,5%: dovremmo correre fra cinque e otto volte più del nostro potenziale.
Se non ce la facessimo e gli obiettivi di deficit si allontanassero, la risposta del governo sarebbero allora tagli automatici di spesa, ma Tria non dice come e a danno di chi. Anche la logica appare contraddittoria. Se proprio l’aumento di spesa pubblica che dovrebbe far crescere il Pil e dunque rendere i conti sostenibili, non si capisce come dei tagli recessivi potrebbero ottenere lo stesso effetto. O l’uno o l’altro.
I canali finanziari
Tria dice che gli investimenti privati potrebbero affiancarsi a quelli pubblici, ma bisogna capire quanto sia verosimile mentre i rendimenti dei titoli di Stato salgono e il loro valore scende. Gli investimenti privati infatti sono finanziati dalle banche, e queste a luglio avevano in bilancio titoli di Stato italiani per 380 miliardi di euro. La svalutazione di quei bond e l’aumento dei rendimenti provoca perdite per gli istituti, ne erode il patrimonio e ne alza i costi di finanziamento. Nel 2012 la Banca d’Italia stimò che ogni aumento dell’1% dei rendimenti dei titoli di Stato riduceva la crescita dei prestiti dello 0,7%. Oggi le banche stanno meglio che nel 2012, è vero, ma da inizio maggio i rendimenti dei bond sovrani sono saliti già dell’1,7%. Non a caso nella tempesta di giugno scorso sul debito pubblico, i prestiti alle imprese crollarono dell’8% rispetto a un anno prima. Per ora le banche hanno cercato di non trasferire troppo ai clienti gli aumenti dei costi ai quali si finanziano, ma presto dovranno alzare di netto i tassi sui mutui o i prestiti alle imprese, erodendo gli utili e il potere d’acquisto. Difficile crescere se sale lo spread, cioè lo scarto nei rendimenti fra titoli italiani e tedeschi. E da maggio lo spread è più che raddoppiato.
Senso unico?
Dunque dovrebbe scendere perché la ripresa riparta e i conti di Di Maio, Salvini, Tria e Savona tornino. Può farlo? Fino a ieri due fattori lo avevano tenuto a bada: gli acquisti della Banca centrale europea e la speranza che Tria controllasse le pressioni di Di Maio e Salvini. Ma da stamattina il programma della Bce dimezzerà a livelli minimi gli acquisti per l’area euro e per l’Italia, mentre il carisma di Tria come cerbero dei conti si è appannato. Gli investitori dunque corrono molti meno rischi di bruciarsi puntando contro la carta italiana e lo faranno senza remore; lo spread resterà alto e il piano del governo di controllo del debito tramite la crescita in deficit rischia di saltare. A meno che non fosse tutto solo una foglia di fico sulla realtà di spese davvero eccessive.

Il Fatto 1.10.18
Pd, “unità” in piazza e veleni nel retropalco
Roma, Renzi si agita per intestarsi l’iniziativa. Martina pensa a candidarsi
di Wanda Marra


“La gente c’è, la manifestazione è riuscita. C’è ancora qualcosa per cui candidarsi”. Appare stupito Nicola Zingaretti, governatore del Lazio e candidato segretario dem, mentre nel retropalco di Piazza del Popolo aspetta l’inizio degli interventi. A leggerla attraverso le sue parole, la manifestazione contro il governo fortemente voluta da Maurizio Martina, in origine reggente, oggi segretario in scadenza, va avanti per binari paralleli. Davanti al palco. E dietro. La piazza è “abbastanza” piena. Non si arriva neanche lontanamente alla metà dei 70 mila che dichiarano gli organizzatori, ma comunque c’è molta più gente rispetto al corteo antifascista di febbraio, subito prima delle elezioni. E alla manifestazione per il referendum.
Dietro, i retropalchi sono due: uno aperto alla stampa, un recinto chiuso con i dirigenti. Così, ogni tanto, i big si fanno una passeggiata ad uso di telecamere. Ognuno per conto suo. Zingaretti parla del “dovere” di dialogare con una immensa base elettorale che ha colto nel M5s un approdo. Con Renzi, su posizioni opposte, si ignorano e neanche si incontrano. Calenda che ribadisce: “Non mi presento candidato a segretario di un partito che penso vada superato”. E soprattutto c’è Renzi. Tra un tweet, un post Facebook, un selfie e un comizio davanti ai cronisti, emana fiumi di parole per intestarsi l’iniziativa, ora che non è un flop. Attacca il governo: “Stanno mettendo a rischio la tenuta del Paese”; per lodare il lavoro dell’opposizione cita l’ostruzionismo. Si fa fotografare mentre abbraccia Paolo Gentiloni. E non si lascia sfuggire l’occasione, ovvero Paolo Virzi, che “invitato” a seguire con lui la giornata da Diego Bianchi, per Propaganda Live, arriva in piazza. Renzi lo abbraccia, poi gli dice: “Allora ci vediamo a cena?”. A domanda su questa presunta cena, dopo, il regista risponde: “Lo avevo conosciuto 13 anni fa a Firenze. Allora avevamo parlato di una cena”. Cosa non si fa per una photo opportunity.
Sul palco salgono i giovani. C’è Federico Romeo, il giovane assessore del Municipio di Polcevera, a Genova, che dopo il crollo del Ponte Morandi è diventato il volto da esibire. C’è Bernard Dikka, il millennial caro a Renzi, che arringa le folle in un modo che ricorda la Serracchiani degli inizi. Intanto, nel “recinto”, la situazione è slabbrata. D’altra parte, i presenti si sopportano a stento. Gentiloni si intrattiene con Franceschini e Zanda. Renzi con Bonifazi e Migliore. Martina e Delrio stanno per conto loro.
Martina chiude. “Serve un nuovo Pd per una nuova sinistra. Vi chiedo questo impegno, vi prego, insieme”. La piazza continua a intonare il coro “unità, unita”, Martina si inceppa, ogni tanto si ferma, ma arriva fino in fondo. Cita Corbyn e “quell’avidità del capitalismo che in questi anni non abbiamo capito”. Dice cose più nette di quelle declamate da Renzi. Al governo: “Se avete a cuore la sicurezza e la democrazia dimostrate di voler combattere la xenofobia e il razzismo. Noi siamo figli della Resistenza”.
Sul palco non sale nessuno dei big: il segretario non ha fatto richiesta, gli altri non avevano particolarmente voglia di fare i comprimari. A proposito di unità. Mentre Martina scende a stringere mani, Renzi dalla “gabbia” nel retropalco si sporge a fare un giro parallelo. Acclamati entrambi. Tanto che il segretario comincia a riflettere su una cosa fino a ieri esclusa: candidarsi. Tra i renziani è tutto uno smontarlo: “Ha parlato troppo”. Trattamento simile per Zingaretti: “È sparito: come fa uno a proporsi segretario, se non regge neanche una manifestazione?”. Si discute delle ballerine della Boschi: c’è chi stima prezzi astronomici. Si intrattiene con Matteo Orfini che dice: “Per il referendum c’era la stessa gente. Ci abbiamo lavorato come allora”. Sei treni speciali e 200 pullman: un impegno massiccio per riuscire a decretare la resistenza in vita dem. “L’Italia che non ha paura” (questo lo slogan, contestatissimo) se ne va sulle note – nostalgiche – di Born to run.

Il Fatto 1.10.18
In Piazza del Popolo erano così pochi che poi sono andati tutti a cena da Calenda
www.forum.spinoza.it

Repubblica 1.10.18
Il Pd respira ora servono porte aperte
di Stefano Cappellini


Il Pd sembrava morto e invece, forse, era solo svenuto. La riuscita manifestazione di piazza del Popolo non risolve i tanti problemi ancora aperti ma ha almeno centrato un obiettivo: dopo tante false ripartenze, tutte rimaste al livello di velleitari annunci, stavolta qualcosa si è mosso. Nulla di definitivo, invertire la tendenza sarà dura, ma per la prima volta da molto tempo la comunità politica che ancora riconosce nel Pd lo strumento fondamentale per dare al Paese un governo progressista, equo e laburista ha ritrovato sensazioni positive: l’idea che il declino non sia ineluttabile, che il piano inclinato delle sconfitte possa smettere di volgere a precipizio e che, in definitiva, si possa ancora sperare per il futuro di non vivere in un Paese senza una sinistra. Una comunità politica vive anche e soprattutto di questo. Il popolo dem accorso a Roma confida che questo segnale sia stato colto davvero anche dai dirigenti. Il grido che si è levato dalla piazza è molto nitido: i manifestanti chiedono che la tregua tra i big del partito duri più dello spazio di un pomeriggio. Tregua non significa disarmo delle idee. Quelle, anzi, mancano da troppo a un confronto vero, serrato e profondo. Ancora si stenta a credere che il Pd non abbia celebrato un congresso dopo la disfatta del 4 marzo. Ora una data per le primarie c’è e quel che manca è una sfida di contenuti, anche aspra, ma in un quadro di reciproco riconoscimento. Quando uno scontro interno si consuma con la minaccia, ormai nemmeno velata, che chi perde disconosce la legittimità della leadership altrui è impossibile che la contesa produca risultati virtuosi. E attenzione ai facili slogan o agli anatemi da talk show: il problema non è l’esistenza delle correnti in sé — mai esistito un grande partito socialdemocratico o conservatore che ambisca al 30-40% dei voti e che non abbia al suo interno un’articolazione di culture politiche — ma il fatto che le correnti esistano ormai solo in funzione delle esigenze dei leader e delle rispettive corti. Non producono più valori, aggregazione, orizzonte. Solo veleni e faide nelle quali si usano contro l’avversario interno toni e metodi che talvolta non si riservano nemmeno agli avversari veri. Dice Martina ai manifestanti: abbiamo capito la lezione, dateci una mano. Giusto. Ma una mano a chi vuole partecipare deve darla anche chi ha la responsabilità di guidare il partito. Perché non va sottovalutata la difficoltà di coinvolgere concretamente chi è andato in piazza nella ricostruzione della casa dem. Negli anni il Pd ha ridotto al minimo gli spazi di partecipazione, sostituito la vitalità dei circoli con l’estemporaneità dei gazebo, usato i social per scimmiottare la comunicazione grillina anziché per costruire nuove forme di partecipazione soprattutto giovanile. E poi c’è la dura realtà di un partito che in molte zone del Paese, specie al sud, è in mano a notabilati che gestiscono il consenso solo in funzione dei feudatari locali, comitati elettorali che si risvegliano sotto elezione ed entrano in sonno subito dopo. A piazza del Popolo si è aperta una finestra ed è entrata una boccata di aria fresca. Trovare il modo di lasciarla aperta è la vera sfida cui è atteso il prossimo leader del Pd, chiunque egli sia.

Il Fatto 1.10.18
Fondi per la sanità: i conti non tornano
di Chiara Daina


Da una parte il ministro Giulia Grillo assicura un miliardo di euro in più per il fondo sanitario nazionale del 2019 (rispetto al finanziamento del 2018 di circa 114 miliardi), confermando la cifra già prevista dal precedente governo nella legge di Bilancio 2017; dall’altro, nell’indifferenza quasi generale le Regioni chiedono più o meno altri 2,5 miliardi. Devono assumere personale e rinnovare i contratti bloccati dal 2010 e non sanno come fare. “La spesa per il personale oggi non può essere superiore a quella del 2004 ridotta dell’1,4%: questa soglia va tolta, ma poi va finanziata la maggiore spesa per assumere”, ha detto in questi giorni il coordinatore degli assessori alla Sanità Antonio Saitta, proponendo di “vincolare il fondo alle assunzioni” visto che liste di attesa e intasamento dei pronto soccorso dipendono dalla carenza di medici e infermieri. Poi c’è un punto del contratto Lega-5S che tormenta l’opposizione, sollevato dalla dem Elena Carnevali: “Scrivono che il finanziamento del Ssn sarà ‘prevalentemente pubblico’, quindi non sarà più garantito interamente dalla fiscalità collettiva? L’ho chiesto due mesi fa al ministro ma non mi ha ancora risposto”.

La Stampa 1.10.18
Le mani delle coop nere sul business dei migranti
di Andrea Palladino


Ci sono i piccoli boss locali. E poi i colossi del sociale che macinano decine di milioni. Tutti con gli amici giusti, in contesti dove la politica pesa, senza distinzioni di schieramento.
Se Mafia Capitale era il cancro che infettava Roma corrompendo politica e amministrazione, è vero che il suo sistema si ripete, in piccolo, in tutta Italia. Il cuore del business dei migranti si chiama Cas, sigla delle strutture gestite da privati attraverso bandi delle prefetture. Nati nel disastro della disorganizzazione dell’emergenza, con la politica che non ha potuto o in alcuni casi voluto occuparsi del fenomeno, i Cas sono spuntati come funghi. A fine anno erano 9.132 (il 99,8% delle strutture di prima accoglienza) e gestivano 148.502 richiedenti asilo (il 93,5% del totale).
I Cas sono spesso semplici case risistemate, senza grandi pretese. Hanno un vantaggio: i piccoli numeri sono più gestibili e hanno un minor impatto sul territorio. E uno svantaggio: non sono gli Sprar, organizzati dagli enti locali e sottoposti a un sistema di controlli molto più rigido. Aggiungeteci che nel 2017 lo Stato ha elargito qualcosa come 1,68 miliardi di euro ai Cas, come poteva finire? Accanto a cooperative, onlus e organizzazioni serie, che da sempre si occupano del sociale, sono arrivati i predoni. Che spesso sono legati a chi è al potere in quei territori.
A differenza di quel che vuole la vulgata, chi intasca i famigerati 35 euro per richiedente asilo sfruttando situazione e migranti, prime vittime del sistema, può dunque avere un diverso colore politico. Anche «nero».
Cooperative con la mano tesa
Prendete il caso Fondi, nel cuore del Sud Pontino, l’area in provincia di Latina che si spinge fino al confine con Caserta. Quarantamila abitanti, sede del più importante mercato ortofrutticolo all’ingrosso del centro Italia, è da almeno 15 anni la roccaforte laziale della destra, soprattutto di Forza Italia. Gli affari a Fondi non riguardano solo frutta e verdura. Due Onlus, Azalea e La Ginestra, dal 2015 gestivano i centri di accoglienza per richiedenti asilo con un giro d’affari di quasi sei milioni di euro. Nel 2016 scoppia una rivolta, gli ospiti scendono in strada, si ribellano, qualcuno chiama la Polizia. I magistrati di Latina decidono però di capire meglio cosa accade nei centri gestiti da piccoli imprenditori locali, famiglie fondane conosciute. La squadra mobile scopre le condizioni disumane di quelle case di accoglienza: sovraffollamento, 1,66 euro spesi per fornire due pasti, vestiti recuperati qui e lì nei cassonetti dei rifiuti. In altre parole una cresta sui finanziamenti destinati a rendere la vita perlomeno dignitosa a chi aveva scelto l’Italia per sfuggire a guerre e persecuzioni. Pochi giorni fa il pm Giuseppe Miliano ha chiuso l’inchiesta, chiedendo il rinvio a giudizio.
In città i movimenti dell’ultra destra intanto cercavano di fatturare politicamente. Forza Nuova annunciava manifestazioni contro le vittime, dimenticando di raccontare fino in fondo chi fossero i carnefici. Uno di questi, Luca Macaro, ha una storia interessante. Candidato nella lista Progetto Fondi, che appoggiava insieme alla Lega Lazio il candidato della destra Franco Cardinale, un padre - anche lui coinvolto nella gestione del centro di accoglienza, ma non indagato - che su Facebook metteva la classica manina tesa a mo’ di saluto romano e cliccava like sul profilo proprio dei camerati di Forza Nuova. Una passione per i migranti, quello della famiglia Macaro, recentissimo. Scorrendo il profilo Facebook di Luca Macaro fino a qualche anno fa erano ben altri gli interessi: movida fondana e aperitivi.
Il colosso che finanzia Fi
Se le due Onlus laziali in fondo erano piccole imprese, un vero e proprio gigante dell’accoglienza è invece il gruppo Senis Hospes / MediHospes, il gestore del centro di Borgo Mezzanone in provincia di Foggia. Travolto dallo scandalo nato dopo l’inchiesta giornalistica dell’Espresso, non si è perso d’animo. E, soprattutto, non è mai uscito dal giro. Secondo i dati del Viminale nel 2017 ha gestito 15 centri, da Pordenone a Messina, per un totale di 2.067 ospiti e un incasso superiore a 20 milioni di euro.
Anche qui amicizie e legami puntano a destra. Nelle dichiarazioni depositate alla Tesoreria della Camera dei deputati relative alle elezioni del 2013 il gruppo Senis Hospes risulta nell’elenco dei donatori del Popolo delle libertà di Silvio Berlusconi, con un versamento di 15 mila euro. Il presidente del gruppo, Camillo Aceto, ha poi staccato personalmente un assegno da 5 mila euro a Maurizio Lupi, che poco dopo diverrà ministro delle Infrastrutture.
Ma i rapporti tra Aceto e Lupi erano prima di tutto ideologici, grazie al legame dei due con il movimento cattolico Comunione e Liberazione.
In Sicilia c’è l’Udc
Raccontano le cronache che a Trapani, con il picco del flusso di migranti, i vecchi Ras si siano messi a rastrellare case, cascine, piccole strutture. Posti letto da utilizzare per l’accoglienza. Nulla a che vedere con lo spirito umanitario che pur contraddistingue una parte dell’isola. Nel 2016 le indagini portarono ad arrestare anche un sacerdote, don Sergio Librizzi, con pesanti accuse di molestie sessuali e di affari illeciti con i richiedenti asilo (condanna a 9 anni appena tornati in Appello dopo un passaggio in Cassazione).
Le indagini, però, non si sono fermate. Da un’intercettazione spunta una nuova pista, che conduce lo scorso luglio a un arresto eccellente. L’ex deputato regionale dell’Udc, Onofrio Fratello, finisce in manette con l’accusa di aver gestito una capillare rete di strutture attraverso prestanome. L’ex deputato regionale era stato condannato per mafia il 13 dicembre 2006 ed era sottoposto a una vigilanza sui movimenti patrimoniali. Da Cosa nostra al business sulla pelle di chi fugge dall’inferno di Tripoli il passo è stato breve.
Profondo Nord e politica
Prima la Dc, poi il Pdl. Simone Borile, la politica, la masticava da sempre. Così come la monnezza, il suo primo business nel Veneto dei padroncini. Poi sono arrivati i migranti e ha intuito il nuovo filone. Le cose, però, non sono andate bene. Lo scorso marzo la Finanza di Padova ha sottoposto a sequestro preventivo 3 milioni di euro per la sua attività con i rifiuti. Quindi è arrivata l’inchiesta sulla gestione dei migranti dei centri di Cona e Bagnoli, dove è indagato. E anche in questo caso le indagini erano partite dalle proteste degli ospiti.
Ispezioni e contestazioni
Centinaia di bandi, controlli difficoltosi, che spesso arrivano dopo le inchieste giornalistiche o le proteste degli ospiti. Nel 2017 solo il 40% di queste strutture ha ricevuto un’ispezione e, in 36 casi, si è arrivati alla revoca dell’affidamento per gravi inadempienze. Le contestazioni sono state 3.000 e le penali applicate ammontano a 900.000 euro. Numeri in fondo piccoli se si pensa all’intero sistema.
Recita la Relazione sul sistema di accoglienza, appena resa pubblica e a firma del ministro dell’Interno Salvini: «Nell’indire le gare finalizzate al superamento degli affidamenti diretti, i prefetti hanno affrontato oggettive difficoltà riconducibili all’inidoneità di molti immobili proposti, non rispondenti agli standard previsti od offerti da soggetti non qualificati o addirittura collegati ad ambienti malavitosi».
Anche per questo dallo scorso 1° dicembre il ministero ha assegnato un prefetto al coordinamento delle ispezioni e si è concordato con l’Anticorruzione uno schema unico dei capitolati d’appalto per rendere omogenei requisiti e standard. Sarà però difficile e ci vorrà tempo per liberarsi dei predoni. Un’idea sarebbe partire dal Lazio, la regione più critica. Se a livello nazionale la media delle contestazioni per centro visitato è stato di 0,79, qui siamo a 2,38: tre volte tanto. Forse non è un caso se a Roma tutti ricordano la frase di Salvatore Buzzi, il Ras delle coop alleato con il nerissimo ex Nar Massimo Carminati: «Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno».
Anche per questo dallo scorso 1° dicembre il ministero ha assegnato un prefetto al coordinamento delle ispezioni e si è concordato con l’Anticorruzione uno schema unico dei capitolati d’appalto per rendere omogenei requisiti e standard. Sarà però difficile e ci vorrà tempo per liberarsi dei predoni. Un’idea sarebbe partire dal Lazio, la regione più critica. Se a livello nazionale la media delle contestazioni per centro visitato è stato di 0,79, qui siamo a 2,38: tre volte tanto. Forse non è un caso se a Roma tutti ricordano la frase di Salvatore Buzzi, il Ras delle coop alleato con il nerissimo ex Nar Massimo Carminati: «Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno».

La Stampa 1.10.18
Simone Andreotti esperto di aiuti ai migranti
“Servono appalti trasparenti e la modifica dell’automatismo dei 35 euro a ospite”
A.P. R.Z


«Per migliorare il sistema bisogna abbandonare l’idea dei 35 euro a persona». Sentirlo dire da una Onlus che si occupa di accoglienza può suonare strano, ma l’idea di Simone Andreotti, presidente di InMigrazione, ha una sua logica: se lo Stato promette a tutti, centri enormi e piccole realtà, la stessa cifra questo non può che portare alla creazione di centri di accoglienza colossali, dove girano troppi soldi, molti appetiti, poca integrazione ed enormi problemi di ordine pubblico.
Manca autentica integrazione
L’idea, invece, dev’essere un’altra: più denaro ai progetti più piccoli, gestibili, dove l’integrazione è seguita davvero. Meno ai grandi hub dove si offre meno in termini qualitativi e si possono fare economie di scala. Ma, soprattutto, a Simonetti interessa che sia rivisto il criterio con cui vengono predisposti i bandi delle prefetture. «Perché - dice - i problemi nascono a monte, quando si studia come gestire questo fenomeno». Per dimostrarlo la sua associazione ha compiuto un lavoro certosino incrociando 80 gare d’appalto pubblicate dalle prefetture nel 2018 per la gestione di 180.000 richiedenti asilo. Il quadro che ne emerge è fatto più di ombre che di luci: solo 16 bandi raggiungono la sufficienza, 64 sono considerati carenti e altri 21 molto carenti. Il primo aspetto critico è quello quantitativo: solo una gara su quattro ha previsto un limite inferiore a 60 ospiti per centro di accoglienza. Strutture più piccole sono più gestibili e hanno un minore impatto sulla comunità, come dimostrano esempi negativi come il gigantesco Cara di Mineo. Per quanto riguarda l’aspetto qualitativo, solo il 40% dei bandi raggiunge la sufficienza. Le maggiori criticità riscontrate riguardano l’orientamento e il supporto legale per la domanda di protezione internazionale (giudizio negativo per l’88% dei bandi), l’insegnamento dell’italiano (negativo l’82%), la mediazione linguistica e culturale (negativo il 75%), i servizi di assistenza psicologica e sociale (negativo il 57%) e i servizi connessi al lavoro, al volontariato e alla positiva gestione del tempo (49% negativo). Unica nota positiva, l’assistenza sanitaria, considerata positiva nell’85% dei bandi. «L’offerta dei bandi è lo spartiacque tra strutture gestite con una logica assistenzialista, dove le persone accolte restano in uno stato di inattività e passività, e strutture gestite bene, dove queste persone possono integrarsi con il tessuto del territorio» spiega Andreotti.
Il merito solo in una gara su tre
Per arrivare a questi traguardi, però, servono professionalità. E anche su questo versante i nuovi bandi del 2018 non sembrano incoraggianti: solo in una gara su tre la professionalità delle équipe chiamate a gestire i Cas hanno un peso sul punteggio incidendo sulla graduatoria finale. Andreotti è convinto che questo farebbe un gran bene a tutta la nazione: «L’accoglienza straordinaria porta a quasi un miliardo di euro - dice, senza contare un altro miliardo stimabile per l’indotto. Calcoliamo che in questo modo potrebbero crearsi 36.000 posti di lavoro qualificati».

La Stampa 1.10.18
Travolti da una rabbia cieca che uccide
di Pierangelo Sapegno


Nella schiuma di rabbia, che separa l’arena della follia dalla normalità, la cronaca di questi giorni ci consegna un Paese rovesciato che sta perdendo le regole più elementari della convivenza. A Lecce, un uomo di 57 anni ha scaricato la sua 357 Magnum uccidendo un pensionato, il figlio e la sorella della moglie, rimasta gravemente ferita, solo perché non dovevano parcheggiare sotto casa sua. E a Fontane di Villorba, Treviso, un giovane è morto e 7 sono ricoverati in ospedale (3 in prognosi riservata), aggrediti durante una festa d’addio al celibato dai vicini che non gradivano troppo tutta quella baldoria. Bastano davvero un po’ di rumore e un parcheggio sbagliato per dare sfogo alla propria violenza? Bertolt Brecht diceva: «Tutti a dire della rabbia del fiume in piena, e nessuno della violenza degli argini che la costringono». Gli argini, cioè il perimetro informe che racchiude la violenza, appartengono per intero alla nostra società, sfibrata da una crisi infinita, segnata dalle ingiustizie, dal parassitismo di certi privilegi, da un impoverimento diffuso e dall’assenza di un futuro, soprattutto, che hanno generato l’invidia rancorosa dei più deboli sommata alla paura di perdere non solo le cose che hai, ma pure quelle che pensavi di avere.
In questa miscela esplosiva, che si riflette benissimo in certe violenze verbali del web, l’odio è diventato prima una categoria politica, che pensa di godere della stessa immunità concessa ai parlamentari, e poi anche una categoria sociale. L’atmosfera corrosa di questi ultimi tempi e la sensazione diffusa di un avvenire sempre più incerto hanno di fatto sdoganato l’odio, come un sentimento che appartiene per intero alla crisi dei nostri giorni e ne esprime la sua rabbia cieca.
E se l’odio porta consensi, perché non giustificare anche la rabbia che lo provoca? L’impoverimento cattivo della società ha creato quasi un’umanità di risulta, un popolo rancoroso che ha smarrito le sue sicurezze. In un Paese che si prepara ad armarsi per concessione legislativa, questa rabbia diffusa e incontrollata è un serio motivo di preoccupazione. Nel Far West c’erano i ranch da difendere e le tribù dei pellerossa in guerra. Ma la nostra cronaca oggi non ci sta raccontando storie di legittima difesa. Ci racconta invece storie trasversali di illegittima rabbia, che riguardano tutti, nessuno escluso. Si spara all’immigrato che ti può rubare il lavoro, alla donna che ti vuole lasciare, al vicino di casa che è uno straniero dell’Est come te ma che si diverte e fa un gran chiasso, semplicemente perché ognuno di loro, in modo diverso, non la pensa come te.

Repubblica 1.10.18
Delitti e vicini di casa
La rabbia nel cortile
di Elena Stancanelli


Come si diventa nemici lo sappiamo bene. Si comincia piano, pianissimo, a volte, come nell’amore, si comincia persino bene. Siamo pur sempre vicini di casa. Ci saranno stati saluti all’inizio, sorrisi, forse anche piccoli favori, il portone tenuto aperto per far passare il passeggino, il postino ha lasciato questa per lei. Poi, piano piano, l’abisso. Un gesto che produce un fastidio minuscolo ma, nella ripetizione, diventa intollerabile, un’offesa gravissima che nessuno scorrere del tempo riesce a perdonare e si fa putrida nel cuore. In pochi giorni quattro morti, feriti gravi. Una festa di addio al celibato trasformata in una carneficina, la macchina parcheggiata davanti casa troppo a lungo diventa la ragione di un delitto.
Ma nel recente passato di questo paese, da nord a sud con frequenza simile, abbiamo già avuto omicidi efferati tra vicini di casa, vendette condotte a freddo e gesti impulsivi. Si uccide quasi sempre con un’arma. Una pistola. Per carità, non serve una pistola per uccidere, ma una pistola rende l’impresa assai più agile, e asettica che non un corpo a corpo di qualsiasi tipo.
Avere un’arma in casa significa metterla nell’ossessione rabbiosa, farne l’anello finale della catena di pensiero tumorale, mostruoso che cresce intorno a quel minuscolo sgarro che dicevamo. Consegnare armi a un popolo rabbioso è pericoloso, può diventare fatale. Teniamolo bene in testa. E non è un caso che si tenti di farlo proprio adesso, che abbiamo costruito la rabbia solida ed efficace, la rabbia che serviva. Ma per trasformare l’altro, al quale potremmo semplicemente essere indifferenti, nella persona da odiare, occorre far nascere un sentimento. Come l’amore, dicevamo, e quella peculiare disperazione che ci coglie di fronte ai comportamenti della persona di cui eravamo innamorati e che adesso ci sembrano inaffrontabili, desolanti, offensivi in maniera intollerabile.
Occorre accendere l’odio. Mostrare all’individuo, lasciato solo in una comunità preventivamente fatta a pezzi, che la persona che abita accanto e si comporta in maniera diversa da lui, vuole il suo male. Rubargli il posto della macchina o il lavoro, il silenzio, i risparmi, le figlie, la sovranità. Bisogna insegnargli, giorno dopo giorno, che non esiste un bene comune, che la politica è il male, che non ci sono più forme di mediazione sociale, fosse pure il prete che richiamava gli offesi alla moderazione. Bisogna avergli sottratto le forme impalpabili di rispetto che sono patrimonio della cultura, dell’arte. Bisogna avergli insegnato che cultura è culturame, la scienza è Big Pharma, l’intelligenza è gli intelligentoni, la scuola e il sapere indottrinamento. Aver trasformato in dispregiativo ogni sostantivo ascrivibile all’ambito semantico della tolleranza e del rispetto, della complessità e della dottrina. Ma più ancora di questo, occorre quella particolare forma di stupidità tipica delle dittature, la più pericolosa di tutte: la totale mancanza di ironia. Benedetto il giorno in cui torneremo a prenderci in giro per le nostre debolezze perché quel giorno le pistole saranno, come devono essere, di cioccolata.

Il Fatto 1.10.18
“Marzabotto, dolore e profonda vergogna”


Una ferita che è ancora lì quella della strage nazifascista di marzabotto. Ieri in occasione della 74ª commemorazione dell’eccidio del ‘44 che costò la vita a 770 persone, il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas ha detto: “Con profondo dolore e grande vergogna che mi inchino davanti alle vittime e ai loro familiari. Si tratta di crimini commessi da tedeschi che ancora oggi ci lasciano senza fiato per la loro efferatezza e crudeltà: 770 persone uccise che non dimenticheremo mai”.

Il Fatto 1.10.18
Il bestiario della scuola: ridere per non piangere
di Gianmarco Perboni


È in libreria “Nuove perle a nuovi porci” di Gianmarco Perboni (pseudonimo di deamicisiana memoria): ce n’è per tutti, soprattutto per una certa retorica assolutoria sui mali della scuola. Ne pubblichiamo un estratto.
Sono passati nove anni dal precedente bestseller Perle ai porci, che nel 2009 aveva suscitato non poche polemiche. D’altra parte un “insegnante-carogna” come quello che si cela dietro lo pseudonimo Gianmarco Perboni sa bene a cosa va incontro quando decide di portare la satira in classe e soprattutto nei corridoi e nei consigli scolastici. Di sicuro l’autore non conosce i tabù, vuole parlare liberamente. Il risultato? Fa ridere a crepapelle, pur con amarezza, perché le vivide e realistiche scenette raccontate svelano in quali condizioni di colpevole trascuratezza versi il sistema educativo del nostro Paese.
È severamente vietato menare gli alunni
“Professore, mi scusi. Se non le è di disturbo, vorrei chiedere il permesso di uscire”. Detta da chiunque altro, una frase simile mi suonerebbe come una presa per i fondelli. Invece proviene da Smutkovic Dragan, da poco arrivato da un Paese che forse è l’Uzbekistan o magari l’Azerbaigian o vattelappesca, e so che è autentica. In una cosa ho ormai acquisito una certa esperienza. Quando arriva un nuovo extracomunitario (e ne arrivano a pioggia; di questo avrò occasione di riparlare, ci scommetto) so giudicare con buona approssimazione se e quanto abbia già frequentato scuole italiane. Il neofita tace, ascolta l’insegnante, non lo interrompe, parla solo se interrogato, chiede le cose per favore e addirittura (incredibile dictu) ringrazia. Occorrono dai tre ai cinque mesi perché si omologhi agli studenti italiani: chiassoso, disattento, invadente, maleducato e cafone. Il ruolo dell’insegnante potrebbe assomigliare a quello di un pastore che badi un gregge di pecore belanti, ma non è così. Il pastore ha il vantaggio del cane, che si occupa degli ovini recalcitranti. L’insegnante ne è privo, perché non può operare come il fortunato insegnante di un Paese balcanico. Al termine della lezione costui si metteva sulla porta e gli studenti uscivano uno a uno. Chi si era ben comportato poteva andarsene indenne, agli altri toccava di incassare una sonora sberla. In Italia la legge, incomprensibilmente, lo proibisce.
Non svegliare il cane che dorme
Meacci Sara mi segnala a gesti che il suo compagno di banco, Meca Valerio, dorme sonni beati con la testa appoggiata sul banco. Urgono provvedimenti. Mi reco all’armadietto di classe, dove so che c’è un cuscino. Lo prendo e, aiutato da Meacci, lo faccio scivolare sotto la testa di Meca, affinché possa dormire più comodamente. Quando è sveglio, Meca rompe costantemente i coglioni. Meglio, molto meglio lasciarlo dormire in pace.
Le chat dei genitori su WhatsApp
Leggo a caso dei messaggi sulla chat dei genitori della classe della figlia di una mia amica.
Aly Brocca: “Ho pesato ora quello di mio figlio 15 kg e 75!!!!!! (seguono 7 faccine con espressioni accigliate).
Ory Gullani: “Poverino!!!!!! Ma come si fa????? (seguono quattordici – dicansi 14 – faccine con varie espressioni disgustate) Al mio ho fatto togliere due libri dopo che ho scoperto che pesava 16 kg e 40. Eccheccazzo!!!! Quella rincoglionita di italiano si è messa in testa di farli leggere anche altri libri in più a quelli di scuola. Ma che si crede???? Che io vadi a lavorare per comprarci i libri???? (faccine con la linguaccia, quante non so, perché rinuncio a contarle).
“Scusa, ma cosa fanno? Pesano gli zaini scolastici?”, chiedo un po’ sorpreso alla mia amica. “Sì, è una delle ultime trovate. D’altra parte qualcosa dovremo pur fare per occupare il tempo”. “Magari un corso di italiano… Ma litigi? Ce ne sono?”, chiedo alla mia amica. “Scherzi? È una rissa continua. Ci trovi quelle che non vogliono altro. Aggiungici la difficoltà per molte di loro a esprimersi per iscritto, che spesso le mamme straniere scrivono meglio di quelle italiane, e la cosa è fatta”.
Giusy Brea (ce ne fosse una il cui nome non finisce con Y): “Cosa vorresti dire Patry?”.
Patry D.: “Niente. Qualmente quello che ho detto”.
Ory Gullani: “Secondo me Patry voleva dire che non cè bisogno di stare a preoccupassi”.
Giusy Brea: “Te fatti i cazzi tua. Fallo dire a Patry quello che intendesse dire”.
Patry D.: “No adesso basta. Io questo lignaggio morale non lo accetto più. Adesso esco dal gruppo”.
Giusy Brea: “Pure me”. “Poi però il giorno dopo sono amiche, si fa per dire, come prima. Esattamente identiche ai bambini piccoli”, conclude la mia amica.
Le perle d’esame
e quelle nei corridoi:
“Sei mai stata in un museo?”. “Sì, a Palazzo Pitti”. “E cosa hai visto?”. “I Malavoglia!”. Sconcerto della commissione. Tramite caute domande si giunge a scoprire che la studentessa intendeva riferirsi ai Macchiaioli.
Riferisce la collega di geografia che uno studente le ha appena parlato del muro di Dublino.
Grande indecisione nel campo dell’arte. Vince la pittura: “Van Gogh dipinse questo quadro mentre era ancora in vita”, oppure la musica: “Il grande musicista Debussy visse fino alla sua morte?”.
“Prof, prof, c’è una parola inglese che non capisco”. “Ah sì? E quale sarebbe?”. “Shakespeare”.
“Sul soffitto o si trovano alcuni nei”. Affermazione criptica. Si capirà che non si sta parlando di dermatologia quando apprendiamo che lo studente intendeva scrivere il plurale di neon.

Il Fatto 1.10.18
La réclame della banca
Luci e ombre – il murales “Parthenope” di Francisco Bosoletti, rione Materdei


Napoli, multiculturale da sempre perché “nata da mille sangui” (così, nel Seicento, Giulio Cesare Capaccio), è una città carica di futuro: capace di mostrarcelo, il futuro, di anticiparlo. Di aiutarci a costruirlo. Nel gran ventre della città, tra abissi di abbandono e contraddizioni laceranti, tante comunità (associazioni, comitati, quartieri, gruppi…) sentono in modo nuovo e radicale l’importanza dei beni comuni: è “un altro modo di possedere” (per usare il titolo di un celebre libro di Paolo Grossi), l’opposto della “sacralità” della proprietà privata di cui farnetica il capo della Lega, bestemmiando spirito e lettera della Costituzione.
L’amministrazione di Luigi de Magistris, pur tra tanti limiti, ha saputo interpretare e alimentare questo spirito che soffia dal basso: uno spirito felicemente ribelle. E c’è una storia, tra tante, che permette di raccontarlo.
Il pomeriggio del 9 giugno scorso Francisco Bosoletti si faceva largo nella folla che pulsa senza riposo in via Toledo. In tutto pensava di potersi imbattere, questo giovane artista argentino, tranne che nella sua Parthenope: il bellissimo murale alto quindici metri che egli stesso aveva realizzato esattamente quattro anni prima, in una zona di Napoli assai meno fortunata, Materdei. Eppure, la sua fascinosa sirena, la mitica genitrice della città, era proprio lì, davanti ai suoi occhi: stampata su un grande banner pubblicitario di una mostra nella sfarzosa sede di Banca Intesa. Contrariamente a quanto avrebbe probabilmente pensato la maggioranza dei suoi colleghi, Bosoletti non fu contento di quella inaspettata e gratuita pubblicità. Perché a Napoli aveva imparato “un altro modo di pensare”: e si domandò se fosse giusto che un’opera ideata dall’associazione “il Fazzoletto di Perle” e realizzata attraverso una sottoscrizione popolare organizzata dal comitato “Materdei R_esiste” (che riunisce associazioni e cittadini del quartiere) servisse ora a legittimare l’immagine, e dunque a promuovere tutti gli affari di un impero finanziario.
Così, come nelle favole, il piccolo Bosoletti prese carta e penna, e scrisse alla grande banca: “Notando i cartelloni pubblicitari all’ingresso del palazzo, sono entrato per chiedere una spiegazione di quello che stava accadendo. Né il curatore della mostra né i responsabili della galleria di Palazzo Zevallos mi hanno dato una risposta pertinente, declinando invece le loro responsabilità sui diritti di utilizzo della mia opera, che mai ho chiesto, e rimarcando la popolarità e il prestigio dell’evento come valorizzazione del mio lavoro e incremento di visibilità per le mie opere. Parthenope non porta solo la mia firma, ma quella di un’intera città che l’ha commissionata dal basso, con un’azione di mecenatismo popolare. La sirena sulla cui tomba è nata Napoli tornava a produrre cittadinanza con l’esercizio di una prerogativa tipica dei sovrani di antico regime, e cioè la commissione di opere d’arte: cittadini non certo ricchi che si tassavano per avere più arte e bellezza. Avrei immaginato che chi professa la divulgazione dell’arte come un motore dell’educazione e del progresso sociale contemplasse il rispetto degli artisti come un suo prioritario dovere. Ma utilizzare senza neanche dirmelo la Parthenope come immagine promozionale di una mostra, per la quale è anche richiesto un biglietto d’ingresso, a mio parere non è solo un mancato riguardo nei confronti di chi l’ha dipinta. È anche un insulto a quel popolo sovrano che Parthenope incarna”.
A fronte di questa pacatissima e dura chiarezza di idee colpisce, per incapacità di ascolto e “modalità predefinita”, la risposta della banca: che, rivolgendosi direttamente dal quartier generale di Milano alla presidente del “Fazzoletto di perle” (la quale nel frattempo aveva espresso tutto il suo sdegno), ha scritto: “La mostra alle Gallerie di Palazzo Zevallos Stigliano, come le precedenti, rappresenta un evento culturale per la città, per promuoverne la storia e il ricco patrimonio artistico… Il Gruppo Intesa Sanpaolo, attraverso il progetto Gallerie d’Italia, nelle tre sedi museali di Milano, Napoli e Vicenza, si propone infatti di valorizzare l’arte e la cultura dei territori di riferimento attraverso l’esposizione al pubblico di opere di proprietà e l’organizzazione di ricorrenti iniziative espositive… Dal canto nostro riteniamo di aver dato lustro al murale dell’artista proprio perché inserito in questo contesto di pregio accanto a collezioni di importanti opere appartenenti a epoche diverse, tutte testimonianza della più alta arte napoletana”.
Uno scambio davvero eloquente: perché dimostra che il problema non è giuridico (i diritti), né formale (il mancato coinvolgimento dell’artista). Il problema è più profondo, antropologico: una irriconciliabile lontananza di linguaggi, cioè di visione del mondo. Da una parte si parla la lingua della democrazia, della cittadinanza, dell’arte pubblica come bene comune non commerciabile: dall’altra si pensa e si parla secondo il vangelo del marketing e della “valorizzazione”, ossequiando il dogma della proprietà dell’arte “di pregio”. Da un lato si crede che ciò che è comune sia di tutti, e dunque non possa avere padroni senza snaturarsi: dall’altra si pensa che le cose comuni sono di nessuno, e che dunque sia normale impadronirsene.
Non si tratta di una particolare “cattiveria”: ma dell’impossibilità anche solo di immaginare un modo diverso di guardare il mondo.
Un altro modo di possedere, e dunque di “vedere” un futuro diverso si oppone allo stato delle cose, con i suoi eterni rapporti di forza. Qualcosa, nel senso comune, sta cambiando: partendo da Napoli. E dalla sua eterna sirena, Partenope.

La Stampa 1.10.18
Angela Merkel è diventata un’anatra zoppa
di Michele Valensise


Se fosse stata su un ring di pugilato, avremmo detto che Angela Merkel ha subìto un uno-due pesante, da finire quasi al tappeto. Due imprevisti rovesci in rapida successione hanno indebolito la Cancelliera e appannato la sua immagine, già provata dal magro risultato elettorale di un anno fa, dalle difficoltà di formare un governo e dai perduranti attriti in seno alla coalizione Cdu/Csu-Spd varata a marzo più per necessità che per convinzione.
Prima la destituzione con improvvida promozione a segretario di Stato del capo dei servizi di sicurezza interna, Hans-Georg Maassen, accondiscendente verso l’estrema destra responsabile dei tumulti di Chemnitz. In questo caso il furbo ricorso al «promoveatur ut amoveatur» ha scatenato una reazione negativa così forte, soprattutto nella base della Spd, da indurre il governo a fare retromarcia. Maassen non avrà incarichi politici. Dopo giorni di polemiche, rinfocolate dalla destra radicale galvanizzata dalla sua oggettiva difesa da parte dei servizi di sicurezza, Merkel ha gettato la spugna, riconoscendo pubblicamente l’errore e la sottovalutazione dei disordini e delle loro implicazioni. Poi l’elezione a sorpresa a capogruppo parlamentare democristiano di un ignoto deputato, Ralph Brinkhaus, candidatosi contro il volere della Cancelliera in un’inedita sfida frontale con l’uscente Volker Kauder, capogruppo al Bundestag dal 2005, fedelissimo di Merkel e dai lei sostenuto a spada tratta. La presidenza del gruppo parlamentare (Fraktion) è uno snodo politico importante nell’attività del Bundestag e, per la maggioranza, nel rapporto con il governo. La sconfitta del candidato della Cancelliera è stata letta come un’aperta ribellione nei suoi confronti, senza precedenti, dei deputati Cdu/Csu. Ancor più notevole, per una certa spontaneità del consenso coagulatosi su Brinkhaus. Anche qui la Cancelliera ha reagito con sincerità («è una sconfitta»), mentre l’AfD annunciava trionfante l’inizio della fine dell’era Merkel.
Per gli standard tedeschi, due scivolate gravi, sintomatiche di perdita di contatto con il Paese e il partito. In effetti, tra stilettate dell’alleato Seehofer preoccupato per le elezioni in Baviera del 14 ottobre, collaborazione svogliata della Spd e turbolenze nella sua Cdu, Angela Merkel deve guardarsi dal fuoco amico. Si unisce al coro il commissario Ue Günther Oettinger (Cdu), poco aduso alle sfumature, che la definisce «un’anatra zoppa».
Tuttavia è ancora presto per ipotizzare avvicendamenti o scosse profonde a Berlino. La Cancelliera, pur se indebolita, dimostra tenacia e autorità. Ieri, nel ricevere Erdogan, ha detto parole chiare su democrazia e stato di diritto e ha lanciato un’idea ambiziosa sulla Siria, da realizzare con Turchia, Francia e Russia. Soprattutto, una sua uscita di scena in tempi brevi non sarebbe una buona notizia per l’Europa: al di là di limiti e cautele, è Merkel che ha mantenuto più di altri una linea di separazione netta tra chi crede in un destino comune europeo e chi invece vuole tornare a vecchie e pericolose divisioni, spacciandole per una bella novità.

Corriere 1.10.18
La star curda dei social e le altre Strage di donne indipendenti in Iraq
Tara Fares uccisa al volante della sua Porsche a Bagdad. L’ombra degli estremisti
di Marta Serafini


«Indagate a Bagdad, a Bassora, ovunque». L’intero Iraq si infiamma per l’omicidio di quattro donne, trucidate nelle ultime settimane. Belle, indipendenti, dedite ai loro affari, impegnante politicamente e non: per la loro scomparsa è sceso in campo il primo ministro iracheno Haydar al-Abadi che ha chiesto a gran voce di fare luce su questi delitti, mentre il Paese è attraversato da manifestazioni di protesta e divisioni settarie, acuite dalla crisi economica e dalla contrapposizione tra sciiti e sunniti.
Il caso che riaccende le luci su una società fortemente maschilista e violenta è quello della reginetta di bellezza Tara Fares. Padre iracheno cristiano, madre libanese, residente a Erbil, nel Kurdistan iracheno, la 22enne giovedì scorso all’alba si trovava a Bagdad dove veniva occasionalmente per affari, quando due uomini in motocicletta le si sono avvicinati. Poche parole, poi tre colpi a bruciapelo e via di corsa, mentre la scena viene immortalata dalle telecamere di un locale che riprendono la Porsche della donna avanzare lentamente, fino a quando un uomo si precipita verso il lato del guidatore per soccorrerla. Poi la corsa, inutile, verso l’ospedale.
Commenti e reazioni sono arrivate da tutto il mondo, dal Medio Oriente agli Stati Uniti. «Dormi principessa, ci mancherai», hanno scritto i fan addolorati su Instagram, dove Tara era reginetta con quasi tre milioni di follower. «Resta forte Tara», ha commentato la scrittrice e artista Molly Crabapple, ricordando il suo titolo di Miss Bagdad vinto nel 2015. Al di là del dolore, nonostante Tara non fosse impegnata politicamente, la sua morte ha scatenato un’ondata di indignazione. «L’hanno uccisa perché donna», è il grido della columnist di Arab News e madre di Amal Clooney, Baria Alamuddin. «In Iraq i matrimoni forzati e le sparizioni sono ancora all’ordine del giorno. La fragile mascolinità di coloro che hanno accesso alle armi nel Paese è sconcertante», sottolinea al Corriere la ricercatrice Rasha al-Aqeedi.
L’omicidio arriva dopo altre morti sospette. Anche Rafeef al-Yasiri, nota come la Barbie dell’Iraq e proprietaria di un centro di chirurgia estetica, e Rasha al-Hassan, manager di un beauty center, sono state trovate morte nelle loro case a Bagdad a metà agosto. «Si sono sentite male», è stata la prima versione ufficiale. Ma nessuno ci crede. Entrambe erano molto seguite in rete e potrebbe essere stata proprio la loro fama a trasformarle in bersagli. Due le piste, secondo i media arabi. Dietro questi omicidi potrebbe esserci la mafia turca e iraniana dei beauty center, alle prese con una guerra di strada dato l’aumento del giro di affari legato al boom della chirurgia estetica nella regione. Ma secondo altri osservatori, le donne potrebbero essere finite nel mirino dei fondamentalisti, ferocemente contrari ai saloni di bellezza. Dopo la sconfitta dell’Isis non si sono placati infatti gli attentati e gli assalti dei gruppi jihadisti.
E non solo. La morte di Tara segue l’omicidio di un’attivista per i diritti delle donne, Suaad al-Ali, 46 anni, madre di due bambini, uccisa martedì scorso mentre andava al supermercato col marito nella città meridionale di Bassora, dove numerosi sono stati gli scontri e le proteste contro il caro vita, la disoccupazione, la mancanza di acqua e di elettricità. La stessa Suaad, a capo dell’associazione al-Waad al-Alaiami, aveva contribuito ad organizzare cortei e manifestazioni. Un affronto che due sicari a volto coperto hanno deciso di punire con la morte.

Repubblica 1.10.18
La giovane attivista
Israele scende in campo contro il Real Madrid per la palestinese Ahed
L’omaggio alla pasionaria in tour in Spagna scatena la dura reazione: "È una terrorista"
di Alessandro Oppes


Il Real Madrid non fa commenti, né sulla pagina web né sui social. Ma la foto che circola su Twitter brucia e provoca la reazione immediata del governo israeliano. Si vede Emilio Butragueño, il mitico "buitre", leggenda del club merengue e oggi responsabile delle relazioni istituzionali, consegnare una maglietta personalizzata a Ahed Tamimi, che sorride compiaciuta al termine della sua visita al "Santiago Bernabéu", tempio del calcio mondiale. Ahed è la ragazza palestinese che due mesi fa ha terminato di scontare una condanna a otto mesi di carcere per aver schiaffeggiato e spintonato un soldato israeliano nel suo villaggio natale in Cisgiordania, Nabi Saleh, venti chilometri da Ramallah: una reazione al ferimento, con un proiettile di gomma, di un suo cugino quindicenne. Quella scena, ripresa con gli smartphone e subito diffusa in Rete con milioni di visualizzazioni su YouTube, aveva subito trasformato questa adolescente di 17 anni dalla lunga chioma bionda in un’eroina del movimento palestinese. E ora che - uscita di cella a fine luglio - viene accolta con tutti gli onori all’estero, il governo dello Stato ebraico reagisce indignato: «Una vergogna! Il Real Madrid riceve una terrorista che incita all’odio e alla violenza. Cosa c’entra con i valori del calcio?», ha twittato il portavoce del ministero degli Esteri di Gerusalemme, Emmanuel Nahshon. E l’ambasciatore a Madrid, Daniel Kutner, dopo aver spiegato che Tamimi «non è una lottatrice pacifica ma difende la violenza e il terrore», ha annunciato la sua particolare ritorsione, disertando il derby di sabato al Bernabéu tra Real e Atlético.
In realtà, a Madrid la giovane "pasionaria" palestinese è stata anche protagonista di altri eventi pubblici, come un incontro in Municipio, dove ha ricevuto un reagalo ed elogi da parte della sindaca Manuela Carmena, da sempre impegnata nella difesa dei diritti umani. Ma evidentemente a irritare di più Israele è lo "sgarbo" che ritiene di avere subito dal mondo del calcio, anche per le ripercussioni che il marchio Real Madrid genera a livello globale. A gennaio di due anni fa, lo stess club blanco aveva invitato il bimbo palestinese Ahmed, 4 anni, unico sopravvissuto all’incendio della sua casa in Cisgiordania da parte di estremisti ebrei: a Madrid il piccolo aveva potuto incontrare il suo idolo Cristiano Ronaldo. Ma il conflitto israelo-palestinese è stato sempre un campo minato difficile da gestire anche per il Barça: dalle proteste, sei anni fa, della comunità palestinese per l’invito al Camp Nou del soldato israeliano Gilad Shalit, che era stato per 5 anni ostaggio di Hamas; alla polemica, nel 2013, per il "peace tour" dei blaugrana in Cisgiordania, un viaggio in cui si era deciso di non fare tappa a Gaza.
E due mesi e mezzo fa è stata la nazionale argentina a provocare un polverone annullando all’ultimo momento un’amichevole a con Israele a Gerusalemme in seguito alle contestazioni palestinesi.
La provocazione
Nel dicembre 2017 Ahed Tamimi, schiaffeggia e insulta un soldato israeliano (in alto), per cui ha scontato 8 mesi di carcere.
In visita in Spagna, ha ricevuto in regalo la maglia del Real Madrid da Emilio Butragueño (a sinistra nella foto)

Corriere 1.10.18
Nuova autarchia la campagna di Xi
«Riso cinese in scodelle cinesi»
La propaganda mostra il leader tra contadini e operai
Pechino risponde sul fronte interno alla guerra dei dazi
di Guido Santevecchi


PECHINO Il giallo dei campi maturi e il blu del cielo d’autunno spazzato dal vento. I coreografi del Partito comunista cinese hanno avuto gioco facile nel presentare in una luminosità epica l’ultimo «viaggio d’ispezione» di Xi Jinping nella provincia nordorientale dell’Heilongjiang. Ma è stata più che routine propagandistica. Il leader supremo è uscito da un’estate difficile, durante la quale ha ricevuto qualche critica interna per la linea politico-economica. Segni di nervosismo di fronte all’offensiva dei dazi lanciata dalla Casa Bianca.
L’amicizia proclamata meno di un anno fa da Trump, ospite nella Città Proibita, è già finita (per la verità l’Imperatore di Pechino non l’aveva mai proclamata, lasciando che fosse il presidente Usa a vantarsene su Twitter). E ora, nel pieno della guerra commerciale con gli Stati Uniti, Xi Jinping gira tra campagne e fabbriche, per rinsaldare il consenso si mischia tra contadini e tute blu e predica: «Il protezionismo e l’unilateralismo stanno sollevandosi, rendono sempre più difficile per la Cina ottenere tecnologie e know-how. Ci forzano a contare solo su noi stessi». Il messaggio più interessante è nel commento di Xi: «Alla fine questo non è un male, perché ci spinge ad avere ancora più fiducia in noi per completare lo sviluppo».
Xi è convinto (non a torto) che dietro lo scontro dei dazi ci sia la strategia americana di replicare la guerra fredda in versione commerciale, per negare all’avversario i mezzi indispensabili a raggiungere in breve tempo il predominio tecnologico pianificato dal piano «made in China 2025». Un uomo esperto di commerci e hi-tech come Jack Ma prevede che «questa guerra non finirà presto, potrebbe durare vent’anni».
I tg cinesi rilanciano incessantemente le parole del leader. Xi che chiede a un operaio davanti ai trattori schierati: «Compagno, tutto questo è prodotto in Cina?». «Sì, compagno segretario generale, tutto fatto da noi». E poi lo slogan: «Riso cinese in scodelle cinesi».
Le immagini di Xi ricordano i ritratti a olio che hanno accompagnato il culto della personalità di Mao, maestro nell’arringare le masse. L’elogio della nuova autarchia fa venire in mente anche Mussolini durante la Battaglia del grano negli Anni Trenta, davanti a una macchina trebbiatrice: «Camerata macchinista, accendi il motore». La grande differenza è che Mao e il Duce pensavano soprattutto all’autarchia agricola, alla manifattura industriale, ora Xi vuole il primato cinese nell’alta tecnologia, anche se ama ancora farsi vedere tra contadini e operai. Parla di campi di grano e trattori, ma pensa a microchip, software e intelligenza artificiale «made in China».

Repubblica 1.10.18
Il boom del merchandising
Peppa Pig power la maialina fa ricchi i falsari cinesi
Il personaggio dei cartoni è diventata cult attirando le aziende di contraffazione
di Filippo Santelli


PECHINO «Non è un’esagerazione . In Cina stiamo perdendo decine di milioni di dollari». Provate a mettervi nei panni dei dirigenti di eOne, ne capirete la disperazione. La loro superstar, Peppa Pig, in Cina è un personaggio di culto. Ipnotica per i bambini, che la vogliono su quaderni, zainetti, bagnoschiuma e yogurt; un simbolo di controcultura per i giovani, che se la fanno stampare sulle t-shirt e perfino tatuare addosso. Il mercato più grande del mondo, la Terra Promessa di ogni azienda, pende dai grugniti della simpatica porcellina.
Eppure di tanta passione ai canadesi di eOne finisce in tasca ben poco, esclusi i diritti per trasmettere le sue avventure in tv. Tutti gli altri prodotti Peppa, di cui strabordano gli e-commerce cinesi, arricchiscono una schiera di aziende locali, leste a piratarne il musetto ancora prima che si affacciasse nel Paese.
Perché in Cina il cartone è arrivato solo nel 2015, un decennio dopo la sua prima apparizione. Preceduto di molto dalla sua fama: nel 2011 un’azienda di Shenzhen aveva già registrato all’ufficio marchi venti variazioni del nome, seguita negli anni successivi da tanti altri "abusivi del copyright". Così quando Peppa è atterrata a Pechino i buoi per eOne erano già scappati. Perseguire una per una le imprese che fatturano con il merchandising della porcellina richiederebbe anni, senza contare che il diritto cinese le protegge. Se un marchio è depositato in una categoria, per esempio materiali scolastici, nulla vieta di ottenere un’esclusiva in ambiti diversi, dai giocattoli ai prodotti per l’igiene orale. Sì, esiste anche il dentifricio Peppa.
Nel dibattito che infuria sui social, hashtag #labattagliaperpeppa, c’è chi riconosce un merito agli abusivi: aver capito in anticipo che il cartone avrebbe stregato anche grugnendo in mandarino. «Me lo aspettavo — ha detto il presidente di eOne, divisione famiglie, Olivier Dumont — parla di valori familiari che valgono per ogni bambino del mondo, è un maiale ed è rossa, cose che in Cina funzionano». E però pochi potevano prevedere un successo del genere. Perché oltre che dai più piccoli, milioni di spettatori sulla tv di Stato, la porcellina è stata adottata anche dai giovani: "Peppa power" lo vedi scritto sulle magliette delle ragazzine alla moda di Pechino, o tatuato sul corpo di ragazzi un po’ ribelli (ispirati, pare, anche da un simile disegno sulla pelle di Alberto Gilardino). Una generazione di ventenni "ai margini" ha iniziato a girare con gli orologi di plastica della porcella e a postare le foto di Peppa in posa da gangster, mentre fuma sigari e dispensa volgarità. Così qualche mese fa è finita pure lei censurata su Douyin, la app culto dei mini video, in una retata che ha coinvolto anche droghe, travestiti (sic) e post contro il governo, «l’antitesi dalla giovane generazione che il Partito coltiva».
La più improbabile icona di controcultura. E un personaggio di cui tutti i cinesi, con le finalità più diverse, si sono appropriati.
Nella loro disperata battaglia per controllare l’identità di Peppa, quelli di eOne segneranno presto un punto a favore: fra qualche mese apriranno i primi due ufficialissimi parchi a tema, uno a Pechino e uno a Shanghai. Nel frattempo però gli abusivi continuano la loro opera: una società ha da poco registrato 26 varianti di George Pig, il fratellino di Peppa. Non molleranno di sicuro adesso: il 2019, in Cina, sarà l’anno del maiale.

La Stampa 1.10.18
La Macedonia vota “no” all’Europa
Referendum sul nome, manca il quorum Si complica il cammino verso Nato e Ue
di Marta Ottaviani


La Macedonia decide sul suo nuovo nome e anche sul futuro dell’Europa, la strada ora è tutta in salita. Ieri si è tenuto un referendum dove l’elettorato è stato chiamato a decidere se accettare o meno la nuova denominazione di «Macedonia del Nord», frutto dell’accordo fra l’ex Stato jugoslavo e la Grecia, sottoscritto lo scorso giugno. I risultati si avranno solo oggi, ma ieri alle chiusura delle urne, i dati davano un’affluenza sotto il 35% (fra questi il 90% ha votato sì), e quorum non superato. Un mezzo flop per il premier Zoran Zaev, con impatto su Atene e Bruxelles e il sollievo di Mosca.
La posta in gioco
Due giorni fa, il vicepremier macedone con delega agli Affari Europei, Bujar Osmani, ha reso noto che la consultazione sarebbe stata considerata valida anche se non fosse stata raggiunta la soglia del 50%, che la legge considera il quorum per dichiarare il voto vincolante, segno che un risultato deludente era nell’aria, anche se forse non con questa portata. In ogni caso, la parola finale spetterà al Parlamento di Skopje, il cui compito, con un’affluenza così bassa, risulta ancora più delicato. Se tutto il processo avrà esito positivo, la Macedonia, oltre a cambiare nome, sarà automaticamente candidata a entrare nella Nato e in Unione Europea.
Una posizione difficile, soprattutto per il premier Zoran Zaev, che si è speso in prima persona per chiudere l’accordo con Atene e che durante la campagna elettorale si è trovato come primo oppositore Gjorge Ivanov, presidente della Repubblica, che ha invitato con forza i quasi due milioni di aventi diritto al voto a disertare le urne. Ieri alla chiusura dei seggi, la scarsa affluenza ha portato in piazza i no al referendum, che si sono ritrovati di fronte al parlamento di Skopje.
Reazione a catena
Il risultato della consultazione avrà ripercussioni non solo sulla politica interna, ma anche su quella regionale. Se, come appare certo prevarrà il sì, per quanto rappresenti il desiderio di una minoranza del Paese, il premier Zaev procederà con tutti i passaggi costituzionali del caso. La debole affermazione in sede referendaria, però, rischia di avere conseguenze anche in Grecia, dove il primo ministro, Alexis Tsipras, si è giocato il tutto per tutto su un accordo che gli ha consentito di rinegoziare la ristrutturazione del debito greco con Bruxelles e che avrebbe dovuto essere uno dei fiori all’occhiello del giovane leader ellenico, nella campagna elettorale per le elezioni politiche dell’autunno 2019, che ora potrebbero essere anticipate in primavera.
Ma ci sono altri tre attori che seguono con attenzione le vicende nei Balcani: la Nato, la Russia e l’Unione Europea. Mosca ha dichiarato di non aver interferito nell’esito referendario, ma ha legami stretti con Macedonia Unita, uno dei grandi sponsor del boicottaggio alla consultazione. Il Cremlino, non vede di buon occhio l’espansione della Nato e in seconda battuta della Ue nella ex Jugoslavia. Bruxelles, dal canto suo, sta cercando di finalizzare il più in fretta possibile l’inizio del cammino di adesione per Macedonia e Albania.
Nella campagna referendaria i social hanno avuto un ruolo fondamentale. Le piattaforme sono state invase da un movimento chiamato #bojkotiram, letteralmente «io boicotto», che nel giro di poche settimane ha avuto una diffusione capillare. Ancora priva di un leader carismatico, la sua dimensione al momento rimane quella virtuale, dove nazionalismo e antieuropeismo sono le caratteristiche principali.

Il Fatto 1.10.18
Alla fiera dell’Est: “pizzini” e fucili per zittire la stampa
La nuova destra - In Croazia licenziato l’anchorman Zovko
Il bavaglio polacco. I fondi tagliati ai giornali anti-Orbán
di Roberta Zunini


Nonostante il ministro dell’Interno austriaco, Herbert Kinckl, figura di spicco della destra, abbia negato di essere l’autore dell’email inviata dal suo ufficio ai capi della polizia per consigliare loro di “limitare al massimo” il contatto con tre giornali perché “critici o parziali nei confronti del Ministero”, il messaggio testimonia l’atmosfera censoria che tenta i sovranisti di destra. Qualche giorno fa, per esempio, la tv pubblica croata (Hrt) ha licenziato uno dei giornalisti più autorevoli, Hrvoje Zovko, attualmente anche presidente della Associazione dei giornalisti croati, per “comportamento aggressivo e non professionale verso suoi superiori”. Sono però molti a sospettare che le vere ragioni siano politiche. Zovko è stato ufficialmente licenziato per aver aggredito con frasi volgari un suo superiore alcune settimane fa durante una disputa sulla linea di gestione del canale dedicato a notiziari e approfondimenti. Il giornalista è noto per essere critico del governo di centrodestra, e specie di partiti e organizzazioni di estrema destra o clericali.
Da quando la destra, tre anni fa, è arrivata al potere in Croazia, la struttura gestionale della tv pubblica è visibilmente cambiata e nella programmazione dominano trasmissioni di tono nazionalista. Molti giornalisti si sono licenziati. Anche in Polonia – governata dalla destra cattolica-nazionalista – i media soffrono. Il vicepremier Piotr Glinski ha dovuto più volte ribadire che “in Polonia c’è totale libertà di stampa”, ma secondo il rapporto di Reporter senza frontiere (Rsf) “il partito Legge e Giustizia (PiS) alla guida dell’esecutivo ha trasformato i media pubblici in organi di propaganda”. Rispetto al 2017, l’indice di libertà della stampa polacca è sceso al 58° posto su 180, perdendo in un anno quattro posizioni. Lo stesso Glinski, che è anche ministro della Cultura, non è estraneo alla censura. Nel 2015 ordinò la sospensione di uno spettacolo La morte e la fanciulla tratto dall’opera del Nobel Elfriede Jelinek, giudicato “pornografico” a causa di una scena di sesso simulato. Lo spettacolo però rimase in cartellone e il ministro scaricò la propria rabbia contro uno dei volti più noti della tv di Stato (Tvp), Karolina Lewicka, che venne sospesa per alcune ore dopo un acceso scambio verbale in proposito proprio con Glinski.
Lewicka fu reintegrata dopo che il comitato etico aveva affermato che “non ha violato l’etica del giornalismo di Tvp”. Gli attacchi di Glinski non sono stati gli unici. L’ex ministro della Difesa Antoni Macierewicz nel 2017 ha denunciato il giornalista investigativo Tomasz Piatek autore di un’inchiesta sui presunti legami del ministro con i servizi militari russi, ma le accuse sono state ritirate pochi mesi fa. Dopo aver conquistato il potere, il PiS ha consegnato il controllo dei media statali al Tesoro. Fino a quel momento i direttori delle emittenti venivano nominati dal National Broadcasting Council, organo costituzionale a protezione della libertà di espressione. La mossa ha trasformato la tv di stato e l’agenzia di stampa statale PAP in organi di propaganda. Non va meglio in Repubblica Ceca, scesa di 11 punti, al 34° posto della lista. Il capo dello Stato, Milos Zeman, a inizio anno si è presentato a una conferenza stampa con un kalashnikov finto con la scritta “per i giornalisti”. Non è stato da meno l’ex primo ministro slovacco Robert Fico che l’anno scorso aveva accusato i giornalisti di essere delle “sordide e anti patriottiche prostitute”.
A marzo, il leader della destra nazionalista si era dovuto dimettere per le proteste scatenate dall’assassinio del giornalista Ján Kuciak, e della sua compagna, ucciso mentre stava per pubblicare sul sito Aktuality una inchiesta su corruzione e truffe nell’ambito dei fondi Ue. Kuciak aveva sostenuto l’esistenza di rapporti tra la ‘ndrangheta e membri del governo. Ultimo ma non ultimo, il premier ungherese Orbàn, il frontman del gruppo di Visegrad. Pochi giorni dopo la sua rielezione, sei mesi fa, uno dei due quotidiani nazionali d’opposizione, Magyar Nemzet, è stato costretto a chiudere perché in crisi finanziaria. Pur avendo una lunga storia alle spalle e si fosse guadagnato grande autorevolezza, il giornale non è più riuscito a ottenere investimenti pubblicitari.
Le aziende, secondo l’editore, hanno temuto la reazione del governo e ora si affidano ai giornali filo governativi. L’anno scorso il sito di news 888.hu aveva pubblicato una black list di giornalisti accusati di fare propaganda a favore dell’Università di Budapest del finanziere George Soros, considerato da Orbàn un sabotatore dell’identità nazionale. “Paesi che fino a 10 anni fa sembravano sul punto di diventare democrazie compiute, come Turchia, Polonia, Ungheria e Venezuela, stanno regredendo visibilmente”, ha denunciato Michael J. Abramowitz, il presidente di Freedom house.

Corriere 1.10.18
Carteggi
Il cuore potente, e innamorato, di Gentile
La corrispondenza del filosofo idealista con la fidanzata e futura moglie Erminia in un volume edito da Le Lettere
di Alessandra Tarquini


Fra il 1898 e il 1900, un giovanissimo Giovanni Gentile scrisse alla sua fidanzata tutte le volte che si allontanò da lei. L’aveva conosciuta a Campobasso, dove si era trasferito per insegnare nel liceo classico Mario Pagano. Lì viveva Erminia Nudi, una maestra carina, ma non bellissima, una brava ragazza intelligente e operosa. Così Giovanni la vide, e da allora non poté fare a meno della sua «dolce bontà», «la bontà vera, la bontà che viene ingenua e schietta dai più intimi penetrali dell’anima», quella che «non può svanire».
Nella prima lettera, il 31 dicembre 1898, il filosofo ventitreenne si rivelò: «Ma quali amori!... Io m’ingannavo. Credevo d’amare, d’aver amato, e invece comincio soltanto ora a comprendere questo divino linguaggio dell’anima».
Davanti alla potenza dei sentimenti, l’intellettuale che avrebbe trasformato la cultura italiana, l’autore della riforma della scuola, il futuro ideologo del fascismo riconobbe il proprio cambiamento. «Sento una nuova vita risvegliarsi dentro il mio spirito; e ne sono infinitamente grato a te, che la susciti». È un «mondo ignoto», un dialogo profondo e ininterrotto: «L’amore nostro — così le scrive nei primi mesi del 1899 — è relazione spirituale d’anime; tu lo sai così bene, e spesso me lo ricordi. Non dovremmo, quindi, mai arrestarci alla espressione esteriore del volto, al suono talvolta quasi irriflesso delle parole; ma fin nell’anima, tendere, e starcene paghi, alla voce del sentimento, saldo e sempre immutabile». Insomma, quando ci si vuole bene, non si deve avere paura di non trovarsi, di non piacersi, del tempo e della lontananza perché l’amore, dice il filosofo, è più forte del desiderio. Se oggi non ti ho sentita vicina, non ti ho capita, non ti ho desiderata, lo farò domani perché tu sei tu.
Il cuore del giovane Gentile non era meno potente della sua testa. E quello di Erminia? Purtroppo non lo sappiamo perché nella raccolta Lettere alla fidanzata, edita da Le Lettere con l’accurata introduzione di Hervé A. Cavallera, non ci sono le risposte di lei. Dalle parole del futuro marito intuiamo che con lui Erminia discuteva di tutto: lavoro, studio, vita. In effetti, è bello guardare il mondo con gli stessi occhi. E allora, sperando nella pubblicazione dell’intero carteggio, ci piace immaginarla gentile e concentrata, intenta a leggere cosa le scrive Giovanni.