domenica 30 settembre 2018

La Stampa 30.9.18
“Siamo sotto attacco di Satana”
L’appello del Papa
di Andrea Tornielli


Con un appello che non ha precedenti Papa Francesco chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare il rosario nel mese di ottobre per «proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi». Lo fa rimettendo in auge due antiche preghiere, una alla Madonna e una allo stesso San Michele. È un’iniziativa che indica quanta sia la preoccupazione del Vescovo di Roma per la piaga degli abusi sui minori, ma anche per l’innalzarsi del livello degli attacchi contro lo stesso Papa e i vescovi, usando in modo strumentale lo scandalo pedofilia per combattere battaglie di potere nella Chiesa e mettere in stato d’accusa il Pontefice, come ha fatto un mese fa, con la sua clamorosa richiesta delle dimissioni papali, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti.
«Il Santo Padre - ha scritto la Sala Stampa vaticana in un comunicato diffuso a mezzogiorno di ieri - ha deciso di invitare tutti i fedeli, di tutto il mondo, a pregare il Santo Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre; e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Santa Madre di Dio e a San Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi».
Papa Francesco invita tutti i fedeli «a concludere la recita del Rosario con l’antica invocazione “Sub Tuum Praesidium”, e con la preghiera a San Michele Arcangelo che ci protegge e aiuta nella lotta contro il male». La preghiera – aveva affermato Bergoglio lo scorso 11 settembre, in un’omelia a Santa Marta - «è l’arma contro il Grande accusatore che gira per il mondo cercando come accusare».
«Con questa richiesta di intercessione - spiega ancora la Sala Stampa - il Santo Padre chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare perché la Santa Madre di Dio, ponga la Chiesa sotto il suo manto protettivo: per preservarla dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato e impegnata a combattere senza nessuna esitazione perché il male non prevalga». Il Papa ha chiesto anche che la recita del rosario durante il mese di ottobre si concluda con la preghiera scritta da Leone XIII: «San Michele Arcangelo, difendici nella lotta: sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio».

Il Fatto 30.9.18
Il Papa ricevette la lettera di Julieta: ecco la prova
La denuncia sulle violenze subite arrivò nel 2014 alla Segreteria di Stato-Affari generali
di Dolores Álvarez e Maddalena Oliva


La lettera è scritta a mano. Riporta la data del 3 dicembre 2013. Julieta Añazco – la donna di La Plata, Buenos Aires, che ieri col Fatto Quotidiano ha ricordato drammaticamente lo stupro subito, a soli sette anni, dal prete argentino Ricardo Giménez più di trent’anni fa, e il silenzio che Papa Bergoglio avrebbe tenuto sulla vicenda – ha la prova di come in Vaticano non potessero non sapere.
Il Fatto è venuto in possesso del testo originale della lettera, di cui Julieta aveva conservato copia, ma soprattutto della ricevuta di ritorno della posta prioritaria con cui il documento venne spedito dalla donna, il 23 dicembre 2013. Bergoglio era stato eletto Pontefice qualche mese prima. E di fronte a quel Papa che “veniva quasi dalla fine del mondo”, che veniva dalla sua stessa Argentina, Julieta, insieme ad altre donne vittime di Giménez, prende carta e penna.
“Oggi abbiamo tutte tra i 35 e i 55 anni – si legge nella lettera, indirizzata direttamente a Papa Francesco –, ma eravamo bimbe tra i 4 e i 10 anni quando il sacerdote della Chiesa Cattolica Héctor Ricardo Giménez abusò sessualmente di noi. Alcune sono state picchiate. Molte di noi sono oggi in cura psicologica e psichiatrica. Molte hanno cercato di suicidarsi perché per noi el Padre Ricardo era quasi un Dio, e nella testolina di noi bambine, come eravamo al tempo, Dio non poteva fare certe cose. Eppure questo uomo abusava sessualmente di noi nel nome di Dio. Questo uomo, che oggi indossa ancora l’abito talare e ha 80 anni, è un pericolo per la società”. Poi la donna rivolge la sua richiesta: “Chiediamo un processo ecclesiastico per tutti i sacerdoti che abusano di un minore. Aspettiamo presto una risposta da Lei, Sua Santità, perché sappiamo della sua lotta contro i casi di pedofilia nella Chiesa”.
Il timbro di ricezione dell’ufficio postale della Città del Vaticano porta la data del 14 gennaio 2014, quindi poche settimane dopo l’invio da parte di Julieta. Ma che la lettera sia giunta a destinazione lo prova anche un altro timbro: quello degli Affari generali della Segreteria di Stato vaticano. Quindi, parliamo del cardinale Giovanni Angelo Becciu, Sostituto alla Segreteria di Stato fino a pochi mesi fa, quando Bergoglio ha nominato per questo ruolo il Monsignor Edgar Peña Parra.
Becciu proprio due giorni fa, in un’intervista a Tv 2000, si è scagliato nuovamente contro i preti pedofili, arrivando a proporre test psicologici a cui sottoporre i seminaristi. “Era inimmaginabile pensare che questa sporcizia fosse così diffusa”, ha detto. “È un tale flagello che ci ha messo anche in crisi sul tipo di Chiesa che finora abbiamo concepito: non possiamo essere tolleranti e non vederne la mostruosità”.
Ma intanto Julieta, come anche le altre donne, aspetta. Da anni. Fino a quando ancora?

Corriere La Lettura 30.9.18
«Catherine Nixey, Nel nome della croce
La distruzione cristiana del mondo classico, Bollati Boringhieri»
No, la violenza non è soltanto dei cristiani
Catherine Nixey ha scritto un saggio piacevole, scorrevole e inutilmente unilaterale. Che segue sempre lo stesso schema di un’opposizione tra pagani tolleranti e illuminati e seguaci del Vangelo fanatici e ignoranti. Il fatto è che, se non ci liberiamo di queste ricostruzioni arbitrarie e di questi luoghi comuni, non saremo mai capaci di costruire una società su valori condivisi
di Mauro Bonazzi


«Sono venuto a portare la spada, non la pace!», tuonava Gesù nel Vangelo di Matteo. Nella tarda antichità al posto delle spade venivano usate delle mazze, provvidenzialmente ribattezzate «Israele». Vestiti di nero, con lunghe barbe nere, le brandivano orde di monaci, anonimi e irrintracciabili: arrivavano, colpivano e sparivano, in missione per far sentire la voce del Signore. Altre volte ci si accontentava di bastoni e pietre. Tra i tanti che assaporarono questa forma molto concreta di giustizia divina fu Ipazia, la celebre filosofa e matematica: trascinata in una chiesa, fu scorticata viva; morta, fu fatta a pezzi e le sue membra gettate nel fuoco. Non erano solo gli esseri umani a essere investiti da questa furia. A Palmira, la perla del deserto, fu ad esempio raso al suolo il tempio di Atena e la sua statua tirata giù dal piedistallo, con le braccia mozzate e la testa decapitata. Così, nel volgere di un paio di secoli fu spazzata via una cultura millenaria, quella greca e romana, fatta di terme (dove succedeva di tutto, ma proprio di tutto) e teatri, di poesie erotiche e discussioni filosofiche. C’era stato una volta un mondo capace di godersi la vita, dove ora regnava il terrore di Dio.
Ricordano qualcosa di attuale queste storie di fanatici barbuti e statue abbattute (a Palmira!)? Di sicuro sono vicende che non mancano di una discreta ironia per quanti ricordano il celeberrimo (o famigerato) discorso che Joseph Ratzinger tenne a Ratisbona nel settembre del 2006: negava la legittimità di qualsivoglia legame tra fede e violenza (un legame, suggeriva il Papa maldestramente, forse caratteristico del mondo islamico), rivendicando con chiarezza la necessità di un confronto proficuo con la ragione (il logos dei greci, più precisamente). Chissà che cosa avrebbero risposto Scenute di Atripe, oggi santo della chiesa copta (cristiana), allora instancabile bastonatore (ma non mancava mai di piangere per i nostri peccati, dopo le sue spedizioni) o Tertulliano, uno dei grandi padri della chiesa romana, quello del credo quia absurdum, con tanti saluti ai ragionamenti dei filosofi.
Scritto con grande verve, piacevole e scorrevole, il libro di Catherine Nixey ricostruisce con dovizia di dettagli questi e numerosi altri episodi analoghi, sempre secondo lo stesso schema di un’opposizione tra pagani tolleranti e illuminati contro cristiani fanatici e ignoranti. La tradizione in cui s’inserisce è gloriosa, da Voltaire a Edward Gibbon (passando per esempi meno nobili di scrittori nostrani che campano grazie a un pubblico ristretto ma sempre contento di sentirsi ripetere quanto stupidi siano i cristiani o più in generale i credenti).
È però anche inutilmente unilaterale. Il problema non è solo quello dell’attendibilità storica — davvero la tarda antichità è stato questo bagno di sangue e roteare di mazze? In gioco c’è il problema dell’identità europea e occidentale, e del difficile rapporto che essa intrattiene con la tradizione cristiana. Era il tema che stava sullo sfondo del discorso di Ratzinger a Ratisbona. Ne stiamo ancora discutendo.
In una prospettiva strettamente storica il mito di un’opposizione tra pagani illuminati e cristiani fanatici è appunto nient’altro che un mito. Cirillo, il vescovo di Alessandria e il mandante morale dell’assassinio di Ipazia, fu anche un raffinato teologo: brutale e disumano quanto si vuole nelle battaglie politiche, ma non certamente un ignorante. Ancora di meno lo era Origene, di cui si ricorda solo che si era evirato in ossequio a un passo del Vangelo (ma si eviravano anche i sacerdoti di diversi culti misterici pagani, pare, e Ipazia aveva sbattuto in faccia a uno spasimante un assorbente sporco di sangue perché si rendesse conto di cosa fosse l’amore: non era un’epoca particolarmente sensibile alle sirene del corpo, senza troppe distinzioni tra cristiani o pagani); o tanti altri padri della Chiesa, impegnati in dibattiti infiniti e sottilissimi. Raramente si è discusso tanto come in questi secoli. Le mani e la testa di Cicerone appesi ai Rostri per far contento Marco Antonio o la fila infinita di schiavi crocifissi sulla via Appia dopo la rivolta di Spartaco ci ricordano in compenso che la violenza, pubblica o privata, non era certo prerogativa dei soli cristiani. Il punto decisivo è piuttosto che cristiani e pagani con il passare del tempo divennero due comunità compiutamente integrate. Fronteggiandosi da campi ideologici opposti, queste due fazioni hanno finito per rendersi simili l’una all’altra, ritrovandosi in una eredità culturale comune. Ed è questo su cui bisognerebbe riflettere.
Lontana e poco conosciuta, questa storia, fatta di scontri violentissimi e amanuensi che copiavano pazienti pagine e pagine di testi, è infatti molto più attuale di quanto non si creda. Ai tanti che oggi inneggiano al cristianesimo come ultimo baluardo in difesa della nostra civilità andrebbe ricordato che il cristianesimo non è nato qui: è un prodotto orientale, che ha lentamente e inesorabilmente invaso tutte le coste del Mediterraneo. Perché così è stato e così sempre sarà: le persone e le idee si muovono. Ma ai tanti altri che nel cristianesimo vedono solo una lunga e interminabile teoria di errori e violenze andrebbe fatto osservare che lo spazio riservato da questa religione alla ragione, a quello che i Greci chiamavano logos, è davvero significativo. Quando Paolo predicò sull’Areopago, gli Ateniesi lo irrisero per l’assurdità della sua fede. Ma i suoi successori hanno progressivamente sviluppato una teologia, un modo di guardare al mondo e all’uomo, che non aveva niente da invidiare alla filosofia greca. Pur con tutti gli episodi violenti che si possono rievocare, la battaglia tra Gerusalemme e Atene è stata anche, e forse soprattutto, un confronto di idee, che si è conclusa non con la distruzione del nemico, ma con la conservazione (parziale, sia ben chiaro) del suo patrimonio. E con la comprensione dell’importanza dell’intelligenza e delle parole nella vita degli uomini. Era una delle idee che stava alla base del discorso di Ratzinger. Non c’è bisogno di essere credenti per riconoscere che non aveva tutti i torti.
Naturalmente, non si vuole con questo affermare che tutti i problemi siano stati risolti. «Io», aveva risposto Gesù Cristo, quando Ponzio Pilato gli aveva chiesto che cosa fosse la verità. Non è evidentemente una risposta che può soddisfare il non credente. Ma intanto si sono poste le basi per un terreno comune (quello della verità o dell’accordo) su cui ritrovarsi, in cui le istanze opposte possano esprimersi. È il problema della tolleranza, in altre parole, un principio fondamentale oggi che appare difficilmente compatibile con le idee di questi primi cristiani. Ma proprio il confronto con questa tradizione dovrebbe aiutarci a fare chiarezza, impedendo di fare della tolleranza un idolo vuoto: perché una tolleranza illimitata non può che scadere in un relativismo morale per cui ognuno si sente libero di fare quello che vuole a casa sua, disinteressandosi di quello che succede altrove.
Una società ha piuttosto bisogno di una serie di valori condivisi per potersi orientare tra i tanti conflitti potenziali che l’attraversano. E uno dei principi che più hanno contribuito al successo della tradizione cristiana è stato quello di una comunanza di tutti gli esseri umani — «senza distinzioni di genti e classi, liberi e schiavi», scriveva Benedetto Croce. L’appartenenza degli esseri umani a un’unica famiglia. È un’idea che era stata abbozzata nel mondo greco (dagli stoici) e che sarà ripresa in tutt’altro modo dall’Illuminismo con lo sviluppo dell’idea dei diritti umani. È un’idea che sta alla base della civiltà europea. E di cui andare tanto più orgogliosi proprio oggi che viene criticata da più parti, vuoi perché sentita come una forma sottile di imperialismo vuoi perché incapace di difendere la nostra specificità rispetto alle altre civiltà. Senza negare le violenze che indubbiamente ci sono state, ma consapevoli della nostra storia.

Repubblica 30.9.18
Biagio De Giovanni
Il vecchio Croce in libreria col bastoncino. Il Pci e la cacciata dell’89. I sovranismi e l’incubo Anni 30. E ora, professore?
"Sono tempi anomali: il punto è quanto riusciremo a reggerli"
di Antonio Gnoli


Avevo incontrato Biagio De Giovanni al "Festival della politica" di Venezia Mestre e sentendolo parlare di Marx (ricorrono i duecento anni della nascita) e di marxismo italiano, che imperversò tra gli anni Sessanta e Settanta, mi venne la curiosità di capire quel senso di disperazione e di inutilità che ormai alberga negli intellettuali di sinistra. De Giovanni ha ottantasette anni. Vive a Napoli in una bella casa. Un quarto piano dalla cui terrazzetta si scorge uno spicchio di mare. E se penso, come pensava la Ortese, che il mare non bagna Napoli, declinerei solo una mezza verità. L’altra metà è che Napoli è liquida e porosa. Come le idee che tanti intellettuali napoletani hanno nel tempo coltivato. Il professore indossa una t- shirt color amaranto. I capelli, bianchi e irregolari, sfrecciano verso l’alto accentuando la lunghezza di un viso ancora bello. Il fatto di averlo raggiunto, in questo supplemento di estate che sembra non voler morire, si spiega anche perché ho appena letto il suo nuovo libro dedicato a Schmitt e Kelsen (Edizioni scientifiche), come dire due concezioni molto diverse della democrazia. E allora immagino che sia la persona idonea per capire dove stiamo andando.
Lei professore dove va?
« Da nessuna parte. Sono finite le stagioni in cui credevo che la meta era vicina e che una società migliore si sarebbe realizzata. Devo dire che per lungo tempo è stato una sorta di pensiero fisso, abilmente avvolto in una sorta di attesa che a Napoli può voler dire rassegnazion, fatalismo ma anche speranza».
Ma lei non è napoletano.
«Sono nato in un paesino dell’Irpinia: Montenero, nel 1931. Dunque abbastanza fortunato per aver superato indenne le aspettative di vita. Non soffro la vecchiaia. Ma il caldo sì, che in questo momento mi affligge. Le pare normale?».
Non so più cosa sia normale. Cosa suggerisce?
«Viviamo tempi anomali. Il punto è per quanto ancora riusciremo a reggerli. Oltre un certo livello, la sopportazione del nuovo può trasformarsi in patologia».
Come si difende?
«Sono stato preso da una foga di lavoro che nella mia vita non ha precedenti. Mia moglie che ha un occhio più clinico mi dice: stai esagerando. Rispondo che è il solo modo per difendermi dal rincoglionimento. Lei conosce le tre fasi del rincoglionimento?».
A dire il vero no.
«Nella prima lo sai solo tu; nella seconda lo sai tu e gli altri; nella terza lo sanno solo gli altri».
A che punto è il rincoglionimento della sinistra?
«Assolutamente nella terza fase. La sinistra ha perso orientamento, memoria e capacità percettive. Ma non lo sa. Purtroppo».
Che cosa rimpiange di quel mondo?
«Dovrei dirle tutto, ma so che alcune cose erano sbagliate, però noi intellettuali abbiamo svolto un ruolo importante».
Ne è sicuro?
«Abbastanza da poter dire che eravamo ascoltati. C’era una circolazione di idee e di problemi di cui la politica nella sua autonomia teneva conto. Era un’epoca, gli anni Sessanta e Settanta, carica di contraddizioni. Le grandi culture politiche erano vive. Peccato che dopo un po’ cominciarono a morire senza che ce ne accorgessimo».
La miopia di chi è sazio?
«Forse eravamo stregati dal nostro ruolo senza riuscire ad andare oltre il nostro naso ideologico».
Oltre cosa c’era?
« L’ironia che avrebbe bilanciato la passione, e il distacco che avrebbe reso più credibile il realismo. Ripenso al professore con cui ho studiato e ho iniziato il lavoro universitario».
Dica il nome.
«Si chiamava Angelo Cammarata. Era stato un brillante allievo di Giovanni Gentile. Se ne distaccò quando Gentile nel 1925 redasse il manifesto degli intellettuali fascisti. Maestro, gli disse Cammarata, tra le tante cose straordinarie non ci ha insegnato la libertà».
E lei si è laureato con lui?
«No, mi laureai con Pietro Piovani su Giambattista Vico. Piovani scambiò la sua cattedra di Napoli con quella di Cammarata a Trieste e io divenni assistente di quest’ultimo. Come le dicevo era ironico e paradossale: " Come sarebbe bella l’università senza studenti!" esclamava. Un’altra sua frase ricorrente era: "I titoli sono un ostacolo alla conoscenza dei candidati". Cammarata insegnava Logica del diritto a giurisprudenza e Piovani era uno storico delle idee».
In quel periodo il clima culturale era alimentato da Croce.
« Me lo ricordo quando uscivo dal liceo Genovesi, non distante da Palazzo Filomarino dove viveva. Certe volte vedevamo il vecchio Don Benedetto, col bastoncino, entrare nelle librerie antiquarie. Ossequiato dai bottegai. Era il 1948».
Croce morì nel 1952. Come reagì Napoli?
Ricordo il funerale. Fu impressionante la presenza di popolo. C’era tutto il quartiere di Spaccanapoli a rendergli omaggio».
E lei era crociano?
«La mia è stata una matrice attualistica. Però c’è un Croce che va sottratto alla vulgata del filosofo della bonomia e dell’ottimismo. La riflessione degli ultimi anni è tutta, o quasi, all’insegna del tragico. Ho appena consegnato un libretto che uscirà per il Mulino».
Era un pensatore di statura europea, come Schmitt, Kelsen, Heidegger, ovviamente Gentile.
« La sua grandezza è indiscutibile, ma anche una certa preveggenza. Nel 1933 scrisse una lettera a Karl Vossler dicendo che i due veri pericoli per la Germania liberale erano Heidegger e Schmitt. E quando i fascisti per provocazione irruppero nella sua abitazione commentò: "Lo Stato etico ha bussato alla mia porta"».
Ha senso un paragone tra l’Europa di quegli anni e quella dei nostri giorni?
« L’Europa degli anni Venti e Trenta esce dalla prima crisi della mondializzazione. Tutto quello che accadrà tra il 1914 e il 1939 è frutto di quella vicenda. Si rompe il rapporto tra storia e vita. Il potere comincia a orientarsi direttamente sulle masse. E le masse sono alla ricerca di una nuova guida politica. Tutto questo lo si coglie benissimo oltre che nel dibattito filosofico anche in quello costituzionale ».
Il monito di Weimar fa da sfondo a questa situazione.
«Weimar fu il fallimento della democrazia nelle sue componenti liberali. La domanda che cominciò a ossessionare le menti migliori era quale forma dare alla vita. O a quel che ne restava».
La vita?
«Le pulsioni, i desideri, le frustrazioni che si scatenarono alla fine
della prima guerra mondiale esplosero sotto forma di richieste a volte contraddittorie e a volte paradossali. Era necessario disciplinarle».
Con quale esito?
«Si assisté alla drammatizzazione del rapporto tra filosofia e politica. Heidegger andrebbe letto in questa chiave, così Schmitt. Le organizzazioni politiche furono incapaci di contenere il magma vitale. Vennero alla ribalta nuovi soggetti. Nacquero i totalitarismi».
Ha parlato della prima mondializzazione. Una seconda crisi è quella della globalizzazione. È plausibile un confronto?
«Per risponderle devo fare un passo indietro. Quando alla fine degli anni Ottanta crollò il comunismo sovietico si pensò che l’Occidente, l’Europa soprattutto, avesse davanti una prateria da conquistare. Sono stato per dieci anni parlamentare europeo. Ricordo perfettamente l’ottimismo che trasudava da ogni discorso».
Giustificato dal modo in cui gli eventi si erano sviluppati?
«L’Europa veniva da sessant’anni di conquiste economiche e, soprattutto, da una grande espansione dello stato sociale. Quando cadde il muro e successivamente implose l’impero sovietico la convinzione che si fece strada fu che fosse finita la geopolitica e si stesse andando verso l’unificazione del mondo».
Sembrava questa la direzione.
« L’illusione fu immaginare che la globalizzazione sarebbe stata un processo soft. Due autorevoli pensatori provarono a legittimare quel processo dandogli la veste nobile del pensiero post-liberale».
A chi si riferisce?
« A Jürgen Habermas e Jacques Derrida. Due tra i più ascoltati pensatori del dopoguerra. Derrida vide nel nuovo processo europeo una sorta di realizzazione universale del sogno Atene, Roma, Gerusalemme. Habermas con il suo il patriottismo costituzionale pensò che si sarebbero sconfitti definitivamente i nazionalismi».
Che cosa non ha funzionato in quelle analisi?
« Beh, l’Europa si è mossa in tutt’altra direzione. L’unificazione della Germania, ad esempio, mutò l’equilibrio europeo».
In che modo?
« Venne meno per prima cosa l’asse franco- tedesco. Mitterrand comprese che i vecchi equilibri traballavano e volle mettere sotto custodia una Germania a quel punto troppo potente. Tu cresci ma al contempo accetti l’unione monetaria. Questo fu lo scambio. Senza capire che la prima a trarne benefici sarebbe stata proprio la Germania. Poi ci fu l’11 settembre, a seguire la crisi americana del 2008 che ridimensionò drasticamente le velleità del monetarismo. Al contempo, la vecchia Europa dell’Est cominciò ad andare per conto proprio. Poi la Brexit. Infine i sovranismi. A questo punto è lecito chiedersi se siamo in una situazione analoga agli anni Trenta».
Cosa risponde?
«Poiché la guerra è un evento poco probabile, tenderei a rispondere no. Ma le altre condizioni ci sono tutte. L’effetto più drammatico è il divorzio tra sovranità e democrazia. Da quando si è indebolito il recinto della statualità — le norme costitutive che lo compongono — la democrazia della rappresentanza è entrata in profonda crisi».
Si parla di un ritorno allo Stato-nazione.
« Ne dubito fortemente. Lo Stato- nazione — come lo abbiamo conosciuto, cioè attraverso le lotte e le guerre, ma anche per la grande cultura di cui era portatore — è tramontato».
Sostituito da chi o cosa?
«Dallo Stato-popolo la cui sovranità si incarna nella sua esistenza immediata. Ma se saltano i corpi intermedi, le spinte che provengono dal basso sono recepite o manipolate dall’alto senza mediazioni ».
È la rete a produrre questa ebbrezza politica?
«È una componente fondamentale che dà una sensazione di potenza sconosciuta in passato. Individuo e massa si saldano fino a diventare la stessa cosa. Siamo a questo punto: nel momento in cui cade l’idea stessa di rappresentanza, crolla il nucleo fondante della democrazia moderna. Il passaggio, per come lo vedo io, è avvenuto».
Non si torna indietro?
« Non lo so, e non so neppure quale prospettiva si delineerà. Tornare a politiche del passato mi pare difficile, ma anche improponibile il tipo di risposte che le nuove forze adottano. Sarà un processo, comunque, molto lungo».
L’Europa sarà ancora la stessa?
«Mi pare difficile che resti uguale. C’è una grande trasformazione in atto e non vedo l’altra sponda. La rottura è stata radicale. Lo slancio che coinvolse tutti alla fine della guerra si è esaurito. Ho ancora chiara l’immagine di me tredicenne che con mio cugino salimmo su di un blindato inglese che arrivava nel mio paese. Allora ebbi la sensazione che un’Europa nuova stava nascendo: dalle macerie, dai morti, dai tedeschi in fuga, dagli alleati nell’ultima offensiva».
Quella spinta è svanita?
«Totalmente e, ripeto, non si torna indietro. La rottura è troppo profonda perché si possa immaginare di curarla con qualche palliativo. La storia difficilmente fa sconti».
Ha affrontato altre rotture?
« Essendo stato comunista ho vissuto con molto pathos il crollo di un mondo dal quale pur con molte riserve provenivo. In quel 1989 scrissi un articolo, "C’era una volta Togliatti e la fine del comunismo reale", che, con grande sorpresa, vidi pubblicato in prima pagina sull’Unità. Fu un evento clamoroso. Ripreso perfino dal Washington Post. Era agosto. Quando i dirigenti del Pci tornarono dalle vacanze si prepararono a giubilarmi. In pochi mesi fui allontanato dalla direzione centrale. Alessandro Natta, che non era più segretario da un anno, parlò di colpi di sole. Difendeva l’indifendibile».
Le rotture sono situazioni complicate da gestire.
«Quella dell’89 sembra distante anni luce da ciò che ci sta accadendo. Ma certamente siamo il frutto anche di quel collasso. Purtroppo, noto oggi lo stesso oscuro vitalismo che serpeggiò negli anni Venti e Trenta. Non so quale forma assumerà. Il mondo mi si presenta come un grande e illeggibile caos. È il nostro o il mio limite più drammatico. Alla mia età potrei dire: fai finta di niente e goditi fin che puoi qualche libro, il pezzo di mare che vedi, gli amici che restano. Dopotutto, hai già dato, nel bene e nel male. Ma non ci riesco e mi viene un furore insensato che scarico in maniera frenetica nel lavoro. Mi illudo di trovare una luce, anche fioca, una strada pur sconnessa, una ragione ancora plausibile. Che non può essere oggi politica ma culturale. E poi penso a Napoli, alla vita sotto il vulcano. Alle forze, spesso imprevedibili, che li fanno somigliare. E mi chiedo se è questo che davvero volevo».

Il Sole Domenica 30.9.18
1898-1918. Un grande affresco storico e sociale del ventennio in cui l’Europa dominò, nel bene e nel male, l’intera scena mondiale
I vent’anni che sconvolsero il mondo
In questo articolo Emilio Gentile presenta, in anteprima per il Domenicale, la trama del suo nuovo libro
Ascesa e declino dell’Europa nel mondo 1898-1918
Emilio Gentile Garzanti, Milano, pagg. 464 In libreria dal 4 ottobre


Ci fu un tempo in cui l’Europa era il centro del mondo. La sua supremazia si estendeva su tutto il pianeta, in ogni campo del sapere e dell’agire, se non della saggezza.
Ciò accadeva cento anni fa. Fu l’apogeo di un’ascesa iniziata quattro secoli prima, con la scoperta del Nuovo Mondo e la circumnavigazione dei continenti da parte di navigatori europei, che aprirono ai loro sovrani le vie dell’espansione mondiale. Fra il 1898 e il 1918, le potenze imperiali europee esercitavano un’egemonia planetaria. Dei circa 150 milioni di chilometri quadrati delle terre emerse, gli imperi europei possedevano il 35 per cento nel 1800, quasi l’85 per cento nel 1914.
Ascesa e declino dell’Europa nel mondo, 1898-1918 è un saggio di storia mondiale, senza pretendere di essere una storia totale, nel senso di raccontare tutto quanto accadde nel mondo, in tutti i Paesi, fra tutti i popoli, durante tutto il periodo di supremazia mondiale dell’Europa. Altri possono essere capaci di simili imprese, che richiedono una capacità di conoscenza pressoché divina. Sprovvisto di tale capacità, l’autore più modestamente intende per storia mondiale il racconto dei fatti politici, economici, sociali, culturali, pacifici e bellici, che negli anni fra il 1898 e il 1918 hanno condizionato e cambiato, nel mondo, l’esistenza della maggior parte degli esseri umani, per il meglio o per il peggio, o per entrambe le esperienze. Protagonisti sono gli Stati di tutti i continenti, presenti in proporzione all’influenza che ciascuno di essi ha avuto nella storia del tempo.
La collocazione dell’Europa al centro del libro non è dovuta alla preferenza dell’autore, il quale, italiano ed europeista, si sente un cittadino della Storia, ed esplora le vicende umane del passato senza pregiudizi né preferenze, mosso unicamente dal desiderio di conoscere, evocare e comunicare come i contemporanei del passato vissero le loro esperienze. La storia europea ha una parte predominante nella storia mondiale fra il 1898 e il 1918, perché durante quei venti anni l’esistenza dei popoli nel mondo fu condizionata, influenzata, favorita o stravolta, persino destinata alla vita o alla morte, dal sapere e dall’agire dell’Europa imperiale. Di ciò furono consapevoli le popolazioni assoggettate al dominio degli europei, ma che dagli europei stessi appresero il sapere e l’agire per contrastarli e osteggiarli, fino a scacciarli: quest’ultimo evento avvenne però molti anni dopo la storia narrata in questo libro, quando l’egemonia mondiale dell’Europa imperiale era ormai finita.
Gli anni fra 1898 e il 1918 furono l’epoca della mondialità europea. «Mondialità» non è sinonimo di globalizzazione, mondializzazione, internazionalizzazione: questi fenomeni di interdipendenza economica, commerciale, finanziaria, tecnologica sono precedenti, contemporanei e posteriori all’epoca della mondialità europea, e le afferiscono, senza coincidere però interamente con essa. Per «mondialità» si intende l’effettiva supremazia militare, politica, economica, culturale che una collettività umana esercita su altre popolazioni del pianeta, legittimandola con la convinzione di essere una civiltà universale, destinata a modellare e a guidare l’intera umanità.
Altri imperi, sin dal più remoto passato, hanno ritenuto di essere una civiltà mondiale, come l’impero romano e l’impero cinese: ma il loro dominio e la loro civiltà si arrestavano ai confini delle terre e dei mari allora conosciuti. La mondialità europea è stata un fenomeno unico perché l’Europa imperiale raggiunse effettivamente l’egemonia sull’intero pianeta in coincidenza con la scoperta delle ultime regioni sconosciute, ovunque investendo le popolazioni di altri continenti con la potenza delle sue armi, la sua scienza, la sua tecnica, le sue ricchezze, la sua civiltà, la sua intraprendenza curiosa, ambiziosa, avida e rapinosa. Ma fra i protagonisti di Ascesa e declino dell’Europa nel mondo ci sono musulmani, egiziani, turchi, giapponesi, cinesi, indiani, che furono fautori della modernizzazione delle loro civiltà per sottrarsi all’egemonia della mondialità europea.
La supremazia dell’Europa mondiale fu conseguenza di un altro fenomeno europeo avvenuto nello stesso periodo, un fenomeno grandioso e straordinario, sia per la sua totale novità storica sia per l’influenza irrefrenabile esercitata su tutto il pianeta: la modernizzazione industriale. Senza la rivoluzione industriale, ci sarebbe stata una Europa imperiale, ma non una Europa mondiale. La mondialità europea fu conseguenza della modernità industriale nei trasporti, nella produzione, nella potenza armata, nell’accumulazione di capitali e nel loro investimento ovunque sul pianeta. E fu conseguenza anche della modernità politica, cioè lo Stato nazionale e laico, l’autorità centrale, la razionalità burocratica, l’organizzazione della libera ricerca, l’istruzione pubblica, la trasformazione delle masse dei governati in cittadini liberi, con diritti e doveri, partecipanti alla scelta dei governanti.
Nonostante il loro bellicoso antagonismo, le potenze europee condividevano la convinzione che il dominio nel mondo era un diritto e un dovere della loro civiltà e della loro superiorità di razza nei confronti delle razze inferiori, che popolavano gli altri continenti. L’imperialismo, il razzismo, lo sfruttamento delle popolazioni asservite, persino il genocidio, furono componenti della mondialità europea: ma lo furono, allo stesso modo, il pensiero critico, la libertà di ricerca, la scienza sperimentale, la laicità della cultura e della politica, l’inventiva tecnologica, la modernizzazione, il capitalismo, l’autonomia dell’individuo, i diritti del cittadino, la sovranità del popolo, lo Stato nazionale, il governo parlamentare, il liberalismo, la democrazia, il socialismo, il comunismo, i partiti, i sindacati, l’emancipazione femminile, la protezione dell’infanzia, la difesa della salute, la tutela degli anziani, l’allungamento della vita umana. L’Europa mondiale fece tutto il bene e tutto il male di cui può rivelarsi capace l’essere umano. Il meraviglioso e il mostruoso convissero nella mondialità europea, come mai era accaduto nella precedente storia dell’umanità.
La stagione dell’Europa mondiale fu breve. Ma nessun altro periodo della storia è stato altrettanto fitto e denso di esperienze nuove, profonde, vaste, sconvolgenti, esaltanti e terribili, che coinvolsero l’umanità intera. Le nuove esperienze, ancora più profonde, vaste, sconvolgenti, esaltanti e terribili, vissute dall’umanità nel corso del Novecento e all’inizio del Terzo millennio, furono propaggini di fatti accaduti nella stagione breve della mondialità europea. L’assetto politico dell’Europa dopo il 1989, le guerre del Golfo, i massacri e le pulizie etniche nei Balcani, il terrorismo islamico e l’11 settembre 2001, i conflitti armati in Medio Oriente, le tensioni belliche e i nazionalismi xenofobi in Europa orientale, le ambizioni egemoniche della Turchia, persino le sfide planetarie fra le potenze mondiali come gli Stati Uniti, la Russia, la Cina: sono tutti avvenimenti che spontaneamente fanno evocare, specialmente nel centenario della Grande Guerra, la stagione breve della mondialità europea, nelle frequenti analogie fra la situazione di incertezza e di paura del mondo attuale e la situazione del mondo nel ventennio precedente la Grande Guerra.
Le analogie sono spesso fuorvianti. Tuttavia, conoscere quel che accadde nella breve stagione della mondialità europea può forse aiutare a comprendere quel che accade nel mondo del Terzo millennio, dove nessuna grande potenza in declino o in ascesa può vantare un’egemonia mondiale. E la mondialità sembra essere divenuta unicamente l’attributo di un presente disordinato e di un futuro minaccioso, accomunati nella dimensione planetaria. Forse i popoli, in tutto il mondo, aspirano a realizzare una mondialità, che non sia la supremazia planetaria di una potenza imperiale, ma la mondialità del genere umano nella libertà e nella dignità. L’aspirazione è nobile speranza, ma se non si è capaci di realizzarla, è soltanto illusione. E la delusione può essere perfino malvagia.

Corriere La Lettura 30.9.18
Il guinzaglio anglosassone alla filosofia tedesca
Wolfram Eilenberger denuncia il declino del pensiero del suo Paese colpa della pretesa di farne una scienza, dell’influenza «dannosa» della tradizione analitica, dell’invasione della lingua inglese che appiattisce la stessa elaborazione intellettuale
conversazione di Donatella Di Cesare con Wolfram Eilenberger


DONATELLA DI CESARE — Già alcuni anni fa è stata «la Lettura» a interrogarsi per la prima volta sulla sorte della filosofia tedesca, passata ormai del tutto in secondo piano. Da allora si può dire che la questione sia diventata persino più acuta. Se si prescinde da Peter Sloterdijk, a suo modo un outsider, molto popolare nei media ma rimasto ai margini della vita accademica, nella Germania di oggi mancano figure filosofiche di rilievo. Ben pochi libri riescono a varcare i confini e a risvegliare l’interesse internazionale. Il saggio di Wolfram Eilenberger Il tempo degli stregoni, di recente pubblicato in italiano da Feltrinelli, è un’eccezione. Lei parla di Wittgenstein, Heidegger, Cassirer, Benjamin, del periodo magico del primo Novecento — davvero altri tempi! Dato che lei attualmente non ha un posto all’università, questo successo mi sembra una conferma della chiusura della filosofia accademica, incapace di parlare al grande pubblico. Com’è possibile che una grande tradizione si esaurisca a tal punto? Quali sono a suo avviso i motivi di questa crisi così profonda e drammatica?
WOLFRAM EILENBERGER — La filosofia tedesca appare oggi condannata all’irrilevanza. Il motivo è chiaro: è diventata una professione universitaria, una materia tra le altre. Anche i giovani finiscono per intenderla in tal modo. Persino quelli che hanno più talento, vedono in questa disciplina solo lo strumento per avviarsi alla carriera accademica. A prevalere sono allora i carrieristi e gli sgobboni. Molto presto si restringono gli interessi e si richiede una specializzazione. Regna sovrano l’ottuso imperativo di pubblicare e pubblicare: sempre le stesse questioni rimasticate nello stesso formato dell’articolo specialistico. Il tutto per di più in inglese. Chiunque voglia arrivare al vertice, deve subire già a trent’anni queste imposizioni. La ricerca viene così deformata e, anzi, bloccata da necessità esterne e del tutto fittizie.
DONATELLA DI CESARE — Questo vale, però, anche per l’Italia. Il capitalismo accademico sta ormai stravolgendo non solo l’università, ma lo studio e la ricerca. I criteri di valutazione, buoni forse per le materie scientifiche, hanno effetti devastanti sulle materie umanistiche. La libertà di pensiero e la critica sono minacciate dal bieco calcolo del punteggio.
WOLFRAM EILENBERGER — È esatto. Così vengono tirati su bravi pensatori aziendali — non spiriti liberi! Certo è antico il conflitto tra la filosofia ridotta a professione e quella concepita invece come vocazione. Ma adesso si può dire con chiarezza che il più grande nemico della filosofia è la volontà di essere una «scienza» e una disciplina accademica come le altre.
DONATELLA DI CESARE — Aggiungerei almeno altri tre fra i motivi della profonda crisi in cui versa la filosofia tedesca. Il primo è l’influenza dannosa esercitata dalla «filosofia analitica». Si tratta di una corrente di stampo normativo e formale che, pur avendo esordito nell’area linguistica tedesca — con Gottlob Frege prima, con Ludwig Wittgenstein poi — si è sviluppata e articolata nelle accademie angloamericane. In tal senso è una filosofia che ha ben poco a che fare con la tradizione europea. Il secondo motivo riguarda invece la lingua tedesca, ormai inspiegabilmente quasi espulsa dalle università. La questione diventa qui culturale: la Germania ha puntato quasi esclusivamente sulle materie scientifiche, privilegiando gli accordi con la Cina e con gli Stati Uniti. Interi dipartimenti di filologia antica o di orientalistica sono stati enormemente ridimensionati, se non chiusi del tutto. Il criterio è sempre l’utilità per il mercato. Eppure era lì il cardine della tradizione tedesca. Ciò ha avuto conseguenze anche per la filosofia, costretta o a essere solo «storia della filosofia» oppure a improvvisarsi ancella dei nuovi studi che vanno così di moda: le scienze dei media e quelle della cultura. Questo terzo motivo viene spesso taciuto. Certo che la filosofia deve intervenire nello spazio pubblico. Ne sono più che convinta. Ma senza concedere troppo al mercato.
WOLFRAM EILENBERGER — Si deve ammettere che oggi la filosofia tedesca ha toccato il punto più basso degli ultimi 300 anni. Nel contesto internazionale non offre più alcun impulso né esercita il fascino d’un tempo. Sembra non avere voce neppure in una prospettiva interdisciplinare. Dall’ermeneutica filosofica di Gadamer alla teoria dei sistemi di Luhmann, dall’etica del discorso di Habermas alla metaforologia di Blumenberg, gli ultimi grandi progetti filosofici risalgono oramai a cinquant’anni fa. Il pensiero sembra oggi ripiegato su di sé, al contrario di quel che avvenne invece all’inizio del Novecento, nella Berlino e nella Vienna degli anni Venti. Un motivo di crisi è certo anche la lingua. Diminuisce nel mondo il numero di persone che parlano o anche solo capiscono il tedesco. L’inglese è diventato egemone ormai anche nella filosofia. Questo dominio della lingua va di pari passo con quello del metodo. Grazie alle logiche della classifica e al criterio della valutazione il paradigma della filosofia analitica, importato dagli Stati Uniti, domina il mercato in Europa e in Germania. Per il panorama filosofico i contraccolpi sono gravi. Ormai negli Istituti di Filosofia, anche in quelli più rinomati, si tengono corsi in inglese (sui filosofi tedeschi!) e si spingono gli studenti a pensare e scrivere in quella lingua. È davvero grottesco! Come se la propria lingua madre fosse un semplice strumento esteriore per esprimere il pensiero, non un mezzo che articola e condiziona modi e contenuti del pensare. Sarebbe come se, ad esempio, per salvare la letteratura tedesca, oppure quella italiana, si consigliasse ai giovani talenti di scrivere soltanto in inglese. Sennonché i filosofi analitici in Germania vanno decantando questi esiti, come un cane che gira sfoggiando pieno d’orgoglio il proprio guinzaglio. Quasi che si trattasse di un progresso decisivo, di una sprovincializzazione, di un’apertura globale.
DONATELLA DI CESARE — Ho l’impressione che la riunificazione abbia giocato un ruolo molto importante. Non credo che la Germania abbia elaborato davvero il passato. Dopo il 1989 la filosofia è stata dichiarata e si è autodichiarata colpevole — al contrario della scienza, ben più direttamente coinvolta nel nazismo. Che cosa c’era di meglio, per rimuovere Auschwitz, che ricominciare con la filosofia americana? Non importa, poi, che si buttasse via anche il bambino con l’acqua sporca.
WOLFRAM EILENBERGER — Lei ha ragione quando afferma che, dopo la frattura della Shoah, l’accesso alla storia tedesca sembra diventare sempre più problematico. E lo è tutt’oggi. Posso parlare per esperienza personale: già per la mia generazione aveva un che di liberatorio immergersi solo nel pensiero americano. Era possibile aggirare così del tutto anche quel grande ambito, complesso e per certi versi inquietante, costituito dall’idealismo tedesco. Basta con Fichte, basta con la muffa speculativa, basta soprattutto con il pessimismo culturale alla Nietzsche o alla Heidegger! In questo senso mi convince la sua tesi interpretativa: la riunificazione tedesca ha indubbiamente contribuito a rafforzare un’avversione già profonda verso la propria storia, la propria cultura, la propria tradizione. Ciò è connesso anche con una certa sopravvalutazione della filosofia, peculiarità tutta tedesca. La filosofia sarebbe il centro, la fonte originaria di ogni sapere e di ogni scienza. Quando nel bel mezzo della civiltà si arriva alla barbarie, allora la filosofia, secondo questo modo di vedere, non può non essere la prima accusata, non può non avere la colpa maggiore. Heidegger mi è testimone! D’altra parte è pur vero che un pensiero vivo può svilupparsi solo grazie a un dialogo serrato con la tradizione. Non a caso quest’idea ha improntato la filosofia tedesca del dopoguerra e ha avuto grande rilievo fino a pochi anni fa. Gadamer e Blumenberg hanno in fondo costruito la loro riflessione intorno a questo cardine. Proprio contro la filosofia analitica, così certa del suo metodo, così astorica e al contempo così unidimensionale, è indispensabile mantenere il dialogo con la tradizione.
DONATELLA DI CESARE — A me pare, tuttavia, che anche la filosofia classica non riesca, in Germania, a dire gran che di nuovo. Il pensiero politico è molto normativo; non ha più né una dimensione critica né, tanto meno, un afflato utopico. Quanto è andato perduto del passato! Un esempio eloquente è la Scuola di Francoforte. È difficile scorgere un sia pur esile nesso con Benjamin o persino con Adorno. Si può dire che proprio nel contesto tedesco abbia avuto la meglio quello strano motto di Richard Rorty che afferma la priorità della democrazia sulla filosofia. In fondo anche Habermas, a ben guardare, è un filosofo di Stato. La filosofia normativa, soprattutto in Germania, si presenta come una ripresa, se non una riedizione, del neokantismo, quella filosofia accademica che regnava a Marburgo prima che Heidegger la spazzasse via. Eppure lei sembra avere un’alta opinione di Cassirer e dei neokantiani, quei filosofi che, a loro volta, rileggevano Kant con il proposito onesto, ma decisamente vetusto e per alcuni versi miope, di delineare un’etica, una teoria della conoscenza, un’ontologia. Riproporre oggi un «neokantismo» come stile e modalità della filosofia vuol dire presentarsi come bravi liberali, in grado di democratizzare la democrazia, superare gli ostacoli della comunicazione, mitigare le sofferenze umane, fornire qualche viatico per essere un po’ meno infelici.
WOLFRAM EILENBERGER — È impossibile mettere in dubbio l’assenza di ogni impulso nonché, aggiungerei, una certa mancanza di coraggio. Questo vale in particolare per la Scuola di Francoforte che ha toccato l’apice dell’irrilevanza nei suoi epigoni, ad esempio nella figura di Axel Honneth. Politicamente ciò si traduce nel ripetuto auspicio, né coraggioso né efficace, che il capitale finanziario perda finalmente il potere. Come se a tal fine fossero necessari i filosofi! Si capisce perché da questa corrente non viene alcun contributo che possa aiutare a riflettere sulle grandi questioni di oggi, ad esempio sulla dinamica della migrazione, o sull’ancoraggio culturale di una nazione, un tema che finisce per venire usurpato dalla destra. Che errore!
Occorre poi parlare di Jürgen Habermas, l’ultima grande figura di filosofo ancora attivo. Il suo influsso sulla filosofia tedesca, sia dal punto di vista istituzionale, sia da quello dei contenuti, è stato enorme; ma non sempre gli effetti sono stati positivi. Com’è noto, dal consenso alla conformità, e al conformismo, il passo è breve. Si deve rimproverare a Habermas non solo di aver addomesticato e ammansito l’ambito del pensiero politico, ma anche di averlo recintato e chiuso ideologicamente. Diciamolo pure: ormai da diversi anni Habermas è il filosofo di Angela Merkel.
In Germania l’assenza di idee nei filosofi e nelle filosofe di sinistra è ormai quasi istituzionalizzata e va ricondotta in gran parte a questo stallo. Per superarlo sarebbe forse auspicabile ricollegarsi al primo Novecento mondiale e riscoprire la vitalità di quegli anni. Il pensiero di Benjamin, con la sua radicalità, può ancora essere d’ispirazione. A mio avviso, però, è Cassirer il filosofo che può essere il punto di riferimento per temi che oggi ci stanno a cuore, dall’importanza dell’Europa al significato decisivo della cultura. È attingendo a queste fonti ancora così vive che la filosofia tedesca potrà forse rifiorire. Non si può escludere che ciò stia già avvenendo. Si deve infine ammettere che è sempre difficile giudicare la propria epoca dalla prospettiva del presente. Solo questo si può dire con certezza: se qualcosa di nuovo nascerà nella filosofia tedesca, ciò avverrà fuori dai percorsi accademici. Non sembra che si possa attendere molto dal mondo universitario.

Il Fatto 30.9.18
Marco Revelli - Il politologo: “Mi oppongo con forza a un governo di destra che limita i diritti fondamentali, ma difendere l’austerità fa il gioco di Salvini”
“Questo Def è giusto. La sinistra non può tifare per lo spread”
di Luca De Carolis


“Io detesto con tutte le mie forze questo governo, ma opporsi a esso in nome del fiscal compact è inquietante”. Il politologo Marco Revelli studia da sempre la sinistra ma conosce bene anche il populismo, a cui ha dedicato anche un libro (Populismo 2.0). E non si capacita: “L’opposizione attuale non si può neanche chiamare tale”.
Portare il rapporto tra debito e Pil al 2,4 per cento può sembrare comunque un azzardo, professore. La reazione dei mercati e della Borsa è stata molto negativa, e non si può ignorare.
Non si può tifare per lo spread sperando che si porti via Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Io mi oppongo a un governo che aggredisce i diritti fondamentali, limitando i permessi umanitari e perseguitando le Ong che salvano vite umane. Spero che Salvini cada domani. Ma non ci si può opporre a un governo di destra spostandosi ancora più a destra.
Sostenere il rigore nei conti è di destra?
L’errore è già qui. Le politiche dell’austerità e questi assurdi vincoli europei hanno fatto sprofondare buona parte del Paese nella povertà. E così hanno alimentato il populismo. Sostenere ancora queste idee significa gonfiare le vele del consenso per questo governo.
Quindi toccare il 2,4 per cento per realizzare il reddito di cittadinanza è giusto, per capirci?
Una qualche forma di contrasto alla povertà è indispensabile, e decidere misure d’urgenza per realizzarla è sacrosanto. Anche facendo la voce grossa con i commissari europei. Io sono stato per tre anni presidente della Commissione di indagine sull’Esclusione sociale, dal 2007 al 2010, e ogni anno nella nostra relazione che mandavamo al ministro del Lavoro chiedevamo di istituire una misura universalistica contro la povertà, comunque la si voglia chiamare. E ogni volta ci rispondevano che non bisognava creare forme di assistenza, e ma posti di lavoro.
Una risposta che può avere un senso.
È la stessa che danno ora. Solo che di posti di lavoro non se ne vedono, se non quelli senza garanzie del Jobs Act, che non hanno certo sanato la piaga. E ricordo che una forma di reddito esiste in quasi tutti i Paesi d’Europa.
Quindi è d’accordo con il governatore della Puglia, il dem Michele Emiliano, secondo cui un Def così lo dovrebbe aver fatto il Pd?
Lo avrebbe dovuto fare la sinistra, certo. E guardi, questo reddito per come lo hanno pensato i 5Stelle non mi sembra neanche sufficiente, perché lega la percezione della misura all’accettare offerte di lavoro. Ma contrastarlo dicendo che così la gente sarà incentivata a starsene sul divano è un triste luogo comune.
È un rischio che in parte esiste.
Nessuna forza di sinistra può fare il partito dell’austerità. Il voto del 4 marzo andrebbe letto e capito. I cittadini hanno votato in un certo modo perché stufi di determinate politiche.
Lei prima ha definito questo governo di destra. Ma lo sono anche i 5Stelle, o rappresentano un’anima di sinistra?
(Sorride, ndr) Diciamo che è difficile essere di destra nella misura in cui lo è Salvini. I Cinque Stelle sono variegati e confusi, talvolta incompetenti come nel caso del ministro delle Infrastrutture Toninelli, che ha appoggiato la chiusura dei porti. Anche se va detto che nella vicenda del ponte di Genova ha ragione nell’opporsi ad Autostrade.
Quindi il responso è…?
Il M5S ha una connotazione più sociale, anche in considerazione dei territori dove ha fatto il pieno di voti (le regioni del Sud, ndr). Ma il mio giudizio complessivo sul governo non cambia.
Però da sinistra…
Non possono sostenere che “i conti uber alles”. E devono tornare ad ascoltare il Paese. Altrimenti faranno sempre e solo il gioco di Salvini.

il manifesto 30.9.18
La sinistra divisa e l’esplosione delle paure
Europa e Sinistra. Mentre noi ci attardiamo a trovare risposte, la destra vera, quella dei poteri economici e finanziari, prepara il suo futuro tornando al passato con nuovi equilibri
di Aldo Carra


Altre divisioni si annunciano a sinistra. Con Diem25 o con Dema, con una sinistra radicale o con un fronte liberal-democratico oppure, più in generale, europeismo o sovranismo o una delle tante sfumature tra euroscetticismo e rossobrunismo.
Le prime divisioni guardano alle vicine elezioni europee, le seconde, con i loro «ismi» guardano ancora più lontano ed aspirano alla dignità di posizioni strategiche, di campi ideali. Orientarsi non è semplice perché è in corso un processo di accumulo, di sommatoria di fattori disgreganti che mette in discussione tutto. Il rinculo di una globalizzazione, che non sopporta le contraddizioni che essa genera nei movimenti di capitali, merci e persone, produce paure e chiusure crescenti. In una Europa che si è allargata troppo, a paesi molto diversi e non è riuscita ad emergere come potenza autonoma nel nuovo scenario geopolitico, queste paure si sono amplificate. In Italia sono esplose.
QUI GLI ERRORI DI PARTENZA e di percorso sul cambio lira-euro e, soprattutto, sul mancato avvicinamento iniziale dei debiti – magari con un doppio binario tra parte a carico del singolo Stato e parte condivisa – stanno producendo i loro effetti nefasti. Una partenza con un handicap di ben 80 miliardi l’anno di spesa per i soli interessi sul debito ed un cammino rallentato da pesanti politiche di austerità adottate proprio nel mezzo della più grande crisi dal dopoguerra hanno generato una equazione: Europa uguale prigione. E prigione a vita, con scarsissime possibilità di ottenere uno sconto di pena per comportamenti austero-virtuosi, visto che nessun governo riesce ad alleggerire il debito.
MA NOI SIAMO UN PAESE che accanto ad un debito pubblico elevato ha anche un debito privato basso e risparmi elevati (oltre ad un patrimonio storico dal valore unico al mondo); un paese, quindi, con una rete di garanzie meno drammatica di quanto sembra se si tiene conto solo del debito pubblico. E questa è una contraddizione che le persone avvertono e che alimenta forti sentimenti di vittimismo ed antieuropei.
IN QUESTO CLIMA, POI, la sensazione che, in questa Europa, questa Italia non ha possibilità alcuna di fare né politiche di sviluppo né politiche di redistribuzione, sta determinando una vera e propria mutazione antropologica della politica. Niente più strategie di medio – lungo periodo, rinuncia della politica alla sua funzione di guardare al futuro, competizione sull’oggi alla ricerca del consenso reso più mobile dalla crisi delle ideologie, quindi, competizione nel campo ristretto dei sentimenti quotidiani influenzati dalle cronache, ricerca di nemici da additare, vicini, lontani e soprattutto deboli. Così, la politica, campo in cui si dovrebbe pesare per la forza delle idee e dei soggetti sociali che si rappresentano, cede il posto ad un neo-contrattualismo d’accatto permanente, ad una competizione ad horas, in cui contano solo l’urlo e la minaccia, per contrattare, per poter dire che quel poco che si strappa è merito proprio, ed il molto che manca è colpa degli altri, che siano Europa, o vecchie forze o migranti. Una politica win win: il consenso di oggi si incamera ed il nemico rimane per accrescerlo domani.
DA QUI LO SPETTACOLO, ridicolo, ma di grande impatto mediatico, della guerra dei decimali di deficit da strappare, lo scalpo da mostrare ai propri elettori urlando vittoria. Un decimale strappato diventa come un gol realizzato e la democrazia esercizio di tifoseria. Povera politica, in una povera Italia. E povera anche la sinistra, come avrebbe aggiunto un vecchio canto popolare!
Non so se si chiamerà sinistra quella che verrà dopo questo ciclo che speriamo duri poco, se è vero che in un contesto deideologizzato i cicli politici si accorciano. Penso che essa o qualcosa che le somigli potrà nascere solo se da subito ci facciamo alcune domande ed insieme cerchiamo le risposte. Di fronte alla crisi di fiducia è possibile e come creare forme di partecipazione dei cittadini europei alle scelte comunitarie in modo da avvicinarli alle istituzioni e ridurre la sensazione di essere stati espropriati? Ed è possibile, al livello intermedio degli Stati nazionali che rimangono, creare spazi di partecipazione che i cittadini possano sentire come propri senza cadere nell’illusione di destra del ritorno agli stati sovrani? E tutto questo non implica una ridefinizione di ruoli e poteri tra livello statuale e livello europeo, quindi una nuova Europa? E in Italia, col debito pubblico che abbiamo e con le previsioni che non ci sarà sentiero di crescita in grado di assorbirlo, si può prescindere da un riesame del problema debito schivato con i vincoli del trattato di Maastricht?
E VISTO CHE IL DOCUMENTO Savona presentato dal governo ripropone il tema della ristrutturazione del debito spalmandolo nel lungo periodo, non sarebbe il caso che la sinistra costruisse un dialogo su questo terreno? E l’idea di una moneta fiscale temporanea per dare ossigeno alla domanda e ad investimenti non dovrebbe quantomeno essere presa in considerazione? Insomma si possono utilizzare i prossimi mesi per ragionare su queste ed altre domande spostando l’attenzione dalla prigione del presente? Facciamo attenzione: mentre noi ci attardiamo, la destra vera, quella dei poteri economici e finanziari prepara il suo futuro tornando al passato con nuovi equilibri. E non credo che questo pericolo si possa combattere solo parlando di schieramenti ed alleanze tra i vecchi protagonisti dell’Europa che fu.

Il Fatto 30.9.18
Molti Paesi d’Europa hanno deficit più alti del nostro, ma il problema rimane l’Italia
La svolta - Dopo anni di sforzi per ridurre l’indebitamento, ora lo lasceremo salire
di Ste. Fel.


Nel 2017, l’Italia ha registrato un deficit del 2,4 per cento. Perché i mercati ora reagiscono così male alla prospettiva che abbia il 2,4 anche nei prossimi tre anni, dopo l’1,7 del 2018? La risposta va cercata nel confronto con gli altri Paesi europei.
C’è un solo Stato che, a oggi, si trova sotto procedura di infrazione per deficit eccessivo, la Spagna, tutti gli altri sono nel “braccio preventivo” del Patto di Stabilità.
La maggior parte dei 26 virtuosi (dalla Bulgaria a Cipro, alla Svezia) hanno anche raggiunto il proprio “obiettivo di medio termine”, che varia da Paese a Paese ma riguarda la riduzione del debito.
L’Italia, come la Polonia e il Portogallo, fino a due giorni fa era “in deviazione” dal percorso di aggiustamento, cioè andava nella direzione imposta dalle regole ma a un ritmo più lento. Nel 2017 e nel 2018, infatti, l’Italia non ha ridotto il debito quanto previsto e sicuramente non lo farà nel 2019 (la richiesta era un taglio minimo, 0,1 per cento del saldo strutturale, che ora invece peggiorerà). La Commissione Ue, dopo aver considerato una serie di “fattori rilevanti”, ha comunque giudicato sufficiente lo sforzo strutturale del 2018 che avrebbe portato il debito nel 2019 al 130,8 per cento del Pil.
I nuovi numeri annunciati dal governo cambiano lo scenario. Nel 2019 il deficit nominale medio nei Paesi dell’area euro è stimato allo 0,4 per cento del Pil, quello dell’Italia sarà sei volte maggiore, 2,4 per cento. Il deficit nominale indicato come obiettivo per l’Italia dal governo Gentiloni, 0,8 per cento, non era considerato credibile comunque: la mancata crescita già imponeva di adeguare la stima a 1,1 e quel numero non considerava le clausole di salvaguardia sull’Iva, 12,5 miliardi (0,8 per cento del Pil) da trovare per evitare l’aumento dell’imposta sui consumi. I precedenti governi le hanno sempre finanziate in deficit, quindi il deficit atteso plausibile dell’Italia era comunque 1,8-1,9. Altri Paesi hanno deficit più alti, ma sono tutti impegnati in un percorso di riduzione rilevanti. La Francia, per esempio, avrà nel 2018 un deficit del 2,8 per cento invece che del 2,6 atteso, ma lo sta riducendo comunque ogni anno dal picco del 2009 (7,2 per cento).
Nella convergenza verso finanze pubbliche solide e sostenibili, l’Italia già arrancava, ora ha scelto di andare in direzione opposta. È vero che l’Italia ha un saldo primario (le entrate dello Stato meno le uscite, prima di considerare gli interessi sul debito) del 2,7 per cento del Pil, il terzo più alto dell’Ue (verrà ridotto a 1,3 il prossimo anno). Ma non basta a renderci virtuosi, perché ci sono, appunto, gli interessi e la zavorra del debito. Nel 2019 il debito pubblico medio dell’Ue dovrebbe essere 78,5 per cento del Pil, quello dell’Italia sarà oltre il 130,8. La riduzione attesa del debito per l’Italia era dell’1,9 per cento del Pil, superiore alla media dei Paesi Ue dell’1,6 per cento. Ma ora quel numero andrà rivisto di molto, alla luce della scelta di tenere un deficit nominale del 2,4 per cento e non soltanto per un anno, ma per tutti i tre anni coperti dalla legge di Bilancio.
Anche se nella percezione diffusa l’Europa è ancora in una fase di austerità, l’Ufficio parlamentare di bilancio (l’autorità indipendente sui conti pubblici), a giugno osservava che i dati dei programmi dei vari Paesi Ue “indicano per il 2018 una politica di bilancio leggermente espansiva”, mentre per il 2019 era atteso un impulso “leggermente restrittivo” che avrebbe peggiorato gli effetti del rallentamento del ciclo economico.
In teoria non è sbagliato spendere di più quando l’economia rallenta, ma l’Italia non si limita a tenere una politica espansiva, bensì smette di cercare di convergere verso gli obiettivi concordati e spende in deficit tanto da far di nuovo aumentare il debito dopo anni in cui, pur con un ricorso al disavanzo costante, era riuscita a stabilizzare l’indebitamento con anche una piccola riduzione.

Il Fatto 30.9.18
“Manovra, il debito scenderà grazie al Pil in crescita del 3%”
Paolo Savona - Il ministro per gli Affari europei spiega i dettagli del documento approvato dal governo: “Il deficit al 2,4% è sostenibile”
di Paolo Savona
ministro per gli Affari europei


Per una valutazione corretta delle scelte effettuate dal Consiglio dei ministri si deve partire dai provvedimenti approvati con la Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza 2018. Va innanzitutto ricordato che il programma di politica economica e finanziaria del governo è coerente con il contratto di governo e con la risoluzione parlamentare approvata il 19 giugno scorso, che hanno trovato espressione: 1) nella cancellazione degli aumenti dell’Iva previsti per il 2019; 2) nell’introduzione del reddito di cittadinanza, con la contestuale riforma e il potenziamento dei Centri per l’impiego; 3) nell’introduzione della pensione di cittadinanza; 4) nell’introduzione di modalità di pensionamento anticipato per favorire l’assunzione di lavoratori giovani (superamento della legge Fornero); 5) nella prima fase dell’introduzione della flat tax tramite l’innalzamento delle soglie minime per il regime semplificato di imposizione su piccole imprese, professionisti e artigiani; 6) nel taglio dell’imposta sugli utili d’impresa (Ires) per le aziende che reinvestono i profitti e assumono lavoratori aggiuntivi; 7) nel rilancio degli investimenti pubblici attraverso l’incremento delle risorse finanziarie, il rafforzamento delle capacità tecniche delle amministrazioni centrali e locali nella fase di progettazione e valutazione dei progetti, nonché una maggiore efficienza dei processi decisionali a tutti i livelli della pubblica amministrazione, delle modifiche al Codice degli appalti e la standardizzazione dei contratti di partenariato pubblico-privato; 8) in un programma di manutenzione straordinaria della rete viaria e di collegamenti italiana a seguito del crollo del ponte Morandi a Genova, per il quale, in considerazione delle caratteristiche di eccezionalità e urgenza degli interventi programmati, si intende chiedere alla Commissione europea il riconoscimento della flessibilità di bilancio per condurre politiche di rilancio dei settori chiave dell’economia, in primis il manifatturiero avanzato, le infrastrutture e le costruzioni; 9) nello stanziamento di risorse per il ristoro dei risparmiatori danneggiati dalle crisi bancarie.
Questi strumenti perseguono lo scopo di colmare il gap di crescita reale del Pil rispetto al resto d’Europa senza danni per la stabilità dei prezzi, anzi contribuendovi caricando sui conti pubblici l’onere dell’aumento dell’Iva necessario per colmare il deficit tendenziale del precedente governo stimato dal ministero dell’Economia e delle finanze in 1,24 per cento, ossia abbondantemente al di sopra di quello concordato con la Commissione.
Il governo ha ereditato 5 milioni di poveri i cui bisogni di sopravvivenza sono impellenti già da ieri; tra questi vi sono parte del 10 per cento dei lavoratori disoccupati, di cui un numero socialmente inaccettabile di giovani. Il reddito e la pensione di cittadinanza, nonché il pensionamento anticipato perseguono l’obiettivo di attenuare le difficoltà di questa parte della popolazione, come impongono le regole della convivenza di una nazione civile.
La situazione della crescita reale volge al peggio a causa dei mutamenti nelle condizioni del commercio internazionale da cui dipendono le sorti delle nostre esportazioni, tuttora il punto di forza della nostra economia. L’anno in corso dovrebbe registrare una crescita reale dell’1,5 per cento e le previsioni di consenso per il 2019 sono nell’ordine dell’1 per cento. Se non si vuole un peggioramento dell’economia e un aumento delle condizioni di povertà e di disoccupazione occorre attivare nuovi interventi di politica fiscale.
L’ideale sarebbe quello di attivare massicci investimenti, nell’ordine dei risparmi in eccesso degli italiani, pari a circa 50 miliardi di euro, presenti da alcuni anni nella nostra economia. Occorre riavviare il secondo motore della nostra economia, quello delle costruzioni, il cui spegnimento ha largamente contribuito alla crisi. Le condizioni di realizzazione di questi investimenti sono state trascurate, ponendo vincoli interni ed esterni alla loro realizzazione. È ragionevole pensare che nel solo 2019 si possa raggiungere un aumento degli investimenti nell’ordine di almeno l’1 per cento di Pil, di cui la metà su iniziativa dei grossi centri produttivi di diritto privato dove lo Stato ha importanti partecipazioni. Se così fosse, l’incidenza sul disavanzo sarebbe nell’ordine di 0,5 per cento, senza tenere conto del gettito fiscale che questa nuova spesa garantirebbe. A tal fine, oltre ai provvedimenti già indicati nella Nota di aggiornamento (rafforzamento delle capacità tecniche delle amministrazioni centrali e locali, maggiore efficienza dei processi decisionali a tutti i livelli della pubblica amministrazione, modifiche al Codice degli appalti e standardizzazione dei contratti di partenariato pubblico-privato), opererà costantemente una Cabina di regia a Palazzo Chigi per intervenire sui punti di blocco o di ritardo.
L’attuazione di questi stimoli alla domanda aggregata, tenuto conto dei moltiplicatori della spesa, può portare a una crescita nel 2019 di circa il 2 per cento e crescere ancora di mezzo punto percentuale all’anno, raggiungendo quella soglia minima del 3 per cento necessario per guardare al futuro dell’occupazione e della stabilità finanziaria del Paese che una crescita intorno all’1 per cento annuo non garantirebbe.
Se la sostenibilità del debito pubblico italiano viene giudicata sulla base del rapporto tra debito pubblico e Pil, va constatato che esso si ridurrà nel corso dell’intero triennio, dato che la crescita del Pil nominale resterà in modo permanente al di sopra del 2,4 per cento del deficit di bilancio. Ciò vale nella peggiore delle ipotesi, quella di una mancata crescita, ma ancor più in quella di un successo della combinazione di spesa come quella indicata nella Nota di aggiornamento.
Poiché il governo è composto da persone che capiscono i rischi finanziari, ma anche avvertono i gravi pericoli dovuti a un peggioramento della crescita, l’attuazione del programma di governo sarà oggetto di un costante monitoraggio per verificare se gli andamenti dell’economia e della finanza restano coerenti con gli strumenti attivati; tutto ciò a cominciare dal 31 dicembre 2018, ancor prima dell’avvio del programma. Sono certo che il mercato valuterà in positivo le scelte fatte riconoscendo al governo il beneficio della razionalità che alimenta la speranza del mantenimento di una stabilità politica non meno preziosa della stabilità di bilancio.

Il Fatto 30.9.18
Tria, un’altra storia della “vittoria”
di Furio Colombo


Il colloquio di Salvini e Di Maio, vicepresidenti del Consiglio, con il ministro dell’Economia Tria, è durato un po’ troppo per essere stato cordiale. Sapevamo troppe cose prima. Sapevamo che Tria aveva detto no e aveva ricordato di avere giurato sulla Costituzione di dire quel no. Sapevamo che i due “vicepremier” erano stati pesanti e avevano giurato sulla testa dei loro elettori di stroncare quel no. L’esito era scontato, eppure non un solo commentatore o economista aveva previsto che due persone decisamente incompetenti in economia avrebbero spazzato via il massimo esperto del loro stesso governo, che adesso avrà difficoltà a far credere anche solo le sue generalità quando va in Europa (o dovunque, pensate alla Cina), dicendo di rappresentare l’Italia. Le modalità della lunga conversazione, mentre scende la notte e un altro tipo di buio su Roma, ricordano altre conversazioni, anch’esse poco gentili. In tutti gli eventi duri di questo genere si tratta di far dire all’interrogato dov’è la cassaforte. E quando, dopo molta fatica, gli interroganti si convincono che non c’era una cassaforte, ottengono almeno il bancomat. Infatti in tutti questi casi, l’importante è guadagnare tempo. Qualcosa deve avvenire subito e anche in queste vicende molto diverse si assomigliano. Per esempio, spesso, l’interrogato viene ferito. In questo caso sembra che alla vittima sia stato autorevolmente suggerito di cedere, nonostante la brutalità delle circostanze, testimoniate da frasi dette in pubblico con un certo furore da uno degli interroganti di Tria.
Ha denunciato un piano di sabotaggio dei tecnici contro i politici in atto da anni. Stranamente non ha notato che questa affermazione solleva i politici che vengono prima di lui (cioè gli avversari mortali di Cinque Stelle, detti anche “assassini politici”) dalla accusa di essere responsabili di tutte le colpe elencate nell’ultima campagna elettorale, e che sono ormai la Bibbia del nostro futuro (“sta scritto, dobbiamo farlo”). Dopo “il trattamento Tria” (e senza che il ministro interrogato e sconfitto si sia più visto in pubblico) gli interroganti, benché non abbiano trovato, se non nel debito, i soldi cercati, sono apparsi al balcone del palazzo del governo e hanno salutato la folla da vincitori come in Venezuela (ricordate? Così è cominciata quella storia non lieta: per primo è sceso in piazza il governo, non l’opposizione). Nella notte del trionfo la folla erano un centinaio di persone incerte, convocate in fretta, dopo il cedimento di Tria, per festeggiare la vittoria di un governo contro se stesso. L’intera vicenda, interrogatorio, “vittoria” e festa, è troppo difficile da spiegare, visto che il ministro trattato come avverso e pericoloso resta nella compagine e, almeno all’estero, dovrà presentarsi come ministro dello stesso governo che lo ha sottomesso, come ai tempi dell’autocritica sovietica. Attrae attenzione l’evidente affinità di vicende, fra reddito di cittadinanza e vaccino. In uno si dice: “Noi ci occupiamo delle domande degli italiani, non di quelle dei burocrati d’Europa”, dimenticando certe leggi dell’economia su debiti e prestiti. Sarebbe come disprezzare il termometro o la noia di misurare la pressione, perché viene prima il paziente. Nell’altro (vaccini) si dice: “Sono i cittadini a decidere, l’obbligo è assurdo”. Come se fosse assurdo l’obbligo di non attraversare i binari. La frase “prima i cittadini” (ovvero lo slogan razzista “prima gli italiani”) fa un salto di auto-affermazione e auto-celebrazione quando diventa l’annuncio “stiamo abolendo la povertà”.
È un salto pericoloso, specialmente se lo si unisce a tutte le altre abolizioni previste, abolizione delle informazioni, che ciascuno adesso si forma da solo in Rete, guidati dalla Casaleggio associati, abolizione della rappresentanza, sostituita dalla democrazia diretta, abolizione degli esperti, che sono parte di una casta pericolosa, abolizione di chiunque abbia fatto politica “prima di noi perché sono sicuramente indegni”. La elezione, dunque, viene allo stesso tempo demonizzata (è una casta) ed esaltata (al giudice si dice che non lo ha eletto nessuno). Colpisce che tutte queste frasi del “cambiamento” italiano siano identiche a frasi di Bannon e Trump. Alcune si trovano nel discorso di pochi giorni fa alle Nazioni Unite, E certo c’è una quasi identità fra Di Maio (25 settembre ) “Stiamo facendo un gran bene all’Italia e agli italiani” e Trump (24 settembre): “Nessuno ha fatto meglio di noi per gli americani”. E tutti ripetono lo stesso credo: “Bisogna liberarsi del controllo e della dominazione di una governance globale mai eletta, che non rende conto a nessuno”. Ah, e anche la parola d’ordine “Nessuno può contraddire il popolo” (Bannon, Trump, Di Maio, Conte). Chi sta copiando chi? Da dove viene e dove va questa storia? E chi è il vero autore?

Il Fatto 30.9.18
“Così il reddito di cittadinanza verrà speso con il bancomat”
In manovra - Ecco come funzionerà la misura
di Luca De Carolis e Roberto Rotunno


Con l’avvicinarsi della legge di Stabilità si vanno sempre più delineando i tratti del reddito di cittadinanza. Per ora c’è una certezza: sarà erogato sotto forma di carta acquisti che i beneficiari potranno spendere per i beni necessari a una vita dignitosa, come per esempio alimenti e medicinali. Per ricevere l’aiuto bisognerà stare sotto una certa soglia di reddito e patrimonio (ma dal calcolo sarà esclusa la prima casa) e bisognerà attivarsi nella ricerca di un lavoro con l’aiuto dei centri per l’impiego che saranno proprio a tal proposito rinforzati.
Insomma, il cavallo di battaglia elettorale ora è atteso alla prova dei fatti. Se ne sta occupando un gruppo ristretto con al suo interno tecnici e politici. Al reddito di cittadinanza “tecnologico” sta lavorando anche il viceministro all’Economia dei 5Stelle, Laura Castelli, che premette: “Il progetto lo stiamo definendo assieme al team per la trasformazione digitale di Diego Piacentini e alla Banca mondiale”. Ed è lei a spiegare nel dettaglio come funzionerà: “Ogni cittadino che ha diritto al reddito potrà adoperare la propria tessera bancomat, e recarsi in un negozio. Poniamo che debba comprare del pane: gli basterà dare il bancomat al fornaio, che riconoscerà il codice della tesserina tramite un apposito software, e scalerà la cifra dell’acquisto. Non ci sarà alcuno scambio di denaro: il negoziante riavrà dallo Stato in giornata la cifra spesa dal singolo cittadino, come già avviene ora con i normali acquisti.
E le banche di acquirente e venditore non avranno visionato nulla”. Invece, per i pagamenti che necessitano di bonifico bancario (ad esempio, il versamento dell’affitto di un immobile) si potranno utilizzare sistemi di pagamento tramite app (come lo smart payment). Insomma, sarà tutto telematico. E le ragioni di questa scelta, continua Castelli, sono molteplici: “Innanzitutto, in questo modo potremo far sì che il reddito venga tutto destinato al consumo, e controllare il modo in cui viene speso. E così potremo anche garantire il pagamento dell’Iva”. Non solo: “Prevediamo di escludere alcuni circuiti da questo processo. Per capirci, nessuno potrà usare il bancomat per scommettere”. E la tempistica? “Le tecnologie per i pagamenti sono già tutte disponibili. Mentre ci vorranno alcune settimane per incrociare le banche dati di Inps, centri per l’impiego, Comuni e centri di formazione”. Viene alla mente la social card per gli anziani. Ma Castelli ribatte: “Questo è un metodo diverso: nessuno avrà paura di sentirsi ghettizzato usando una carta riconoscibile, perché potrà adoperare il suo consueto tesserino bancomat”.
Il disegno è chiaro: il reddito di cittadinanza non sarà un bonifico elargito dallo Stato in favore dei beneficiari; sarà un ticket da spendere. Un sistema che dovrebbe far sì che questa cifra torni immediatamente nell’economia reale. Per essere ancora più certi che questa misura spinga i consumi, il governo sta valutando meccanismi che premino chi più spende (o penalizzino chi spende di meno). L’idea è far crescere del 4% il reddito di cittadinanza ogni qualvolta il beneficiario ne utilizzi – per acquisti tracciabili – almeno il 75 o l’80%. Oppure decurtare del 4% la somma erogata a chi ne spenda meno del 75%. I fruitori di questa misura saranno selezionati con l’Isee (l’indicatore della situazione economica): massimo 9.360 euro. La dotazione dovrebbe essere di 10 miliardi di euro e la platea potenziale si aggira intorno ai 6 milioni di italiani. A chi faceva notare che questa divisione porta a calcolare 128 euro al mese a testa, il ministro del Lavoro Luigi Di Maio ha risposto dicendo che il sussidio pieno (780 euro, come confermato nella nota di aggiornamento al Def) andrà solo a chi parte da reddito zero. Per gli altri ci sarà solo un’integrazione.
Resta il capitolo spinoso dei servizi per il lavoro, che dovranno assicurare che la misura aiuti i disoccupati nella ricerca di un posto e non finisca per essere mero assistenzialismo. L’obiettivo è potenziare già da gennaio i centri per l’impiego, per far partire con le erogazioni da marzo. Alcuni giorni fa il governo ha ricevuto dall’Anpal (agenzia per le politiche attive del lavoro) un documento sullo stato di salute dei centri per l’impiego. L’operazione per risistemarli, assumendo nuovo personale e rinnovando l’infrastruttura tecnologica, non semplice: bisognerà mettere d’accordo tutte le Regioni (che, secondo la Costituzione, hanno la competenza in materia di politiche attive del lavoro).

Il Fatto 30.9.18
L’attacco di Grillo: “Lo spread non preoccupa la gente”

“Come è possibile che termini come spread possano effettivamente preoccupare la gente? La gente è depressa per la disoccupazione reale, per l’annichilimento della speranza e non per via di qualche disappunto dei Benetton o degli altri amici dei governanti che ci hanno preceduto”: a dirlo, ieri, Beppe Grillo in un post pubblicato sul suo blog. “Eppure è evidente come sia diffusa la convinzione che i cittadini identifichino le mattane dei banchieri con le loro stesse vite, e i rischi per il capitalismo speculativo con quelli della loro esistenza. Questa confusione è l’unica speranza di chi pretende il popolo italiano, e coloro lo rappresentano, sottomessi a delle percentuali astratte: quasi di soppiatto il 3%, la percentuale istituzionale di anni, si è trasformata in 0,8 e poi in 1,6”. Grillo attacca poi “gli esperti” che fanno di tutto “perché i timori degli speculatori diventino quelli dei cittadini. C’è da chiedersi cosa potrebbe portare la gente comune a identificarsi con gli speculatori. Per quanti sforzi vengano fatti dai media, è difficile che milioni di persone in difficoltà si percepiscano come ‘risparmiatori’ che investono in Borsa”.

Repubblica 30.9.18
Sinistra una protesta divisa in due
di Alessandra Longo


Quando si dice: troppa grazia. Lungamente assente dalla scena, l’opposizione oggi si materializza addirittura in due piazze. A piazza del Popolo con il Pd, a piazza del Duomo con I Sentinelli, l’Anpi e i deportati dell’Aned. Stessa ora, stesso programma, contro il governo, contro il razzismo.
Roma e Milano. I militanti del tormentato mondo della sinistra potranno sfilare con "L’Italia che non ha paura", convocata da Maurizio Martina, o con l’Italia dell’"Intolleranza zero" invocata da decine di comunità e associazioni, dall’Arcigay alla Chiesa Valdese, dal Pd milanese (che aderisce) a Potere al Popolo.
Una coincidenza, dice Luca Paladini, leader dei Sentinelli. Il Pd nazionale doveva scendere in piazza, a Roma, il 29 ma qualcuno si è accorto che, porca miseria, era proprio il giorno del derby Roma-Lazio e dunque ecco lo slittamento di un giorno, cioè a oggi, 30 settembre.
Milano, spiegano, non era più in grado di fermare la macchina e dunque va così: overdose di protagonismo a sinistra (da includere anche, sempre oggi, la commemorazione a Marzabotto del 74esimo anniversario della strage con folta delegazione di partigiani e gonfaloni dei comuni medaglia d’oro).
«Meglio due piazze che zero piazze», la butta Paladini. Ha ragione, però, peccato. Dopo la bella riuscita di piazza San Babila ad agosto, organizzata dai Sentinelli e dal comitato Insieme senza muri, (in occasione dell’incontro Orban/Salvini), per un cittadino elettore di sinistra sarebbe stato quasi commovente (e parecchio inedito) vedere tutti riuniti nello stesso spazio fisico. E invece i luoghi deputati della protesta antigovernativa saranno due. E due saranno i palchi sui quali si alterneranno cittadini comuni, a Roma una madre che parla dei vaccini, a Milano, dove è d’obbligo vestirsi di rosso, il ricercatore che ha denunciato la capotreno in vena di annunci razzisti.
Tricolori, bandiere di partito e della Ue da una parte, le insegne dell’associazionismo lombardo dall’altra.
Da Milano, informa il Pd, partirà per Roma un convoglio di otto carrozze, vagoni con zona relax, karaoke e torneo di carte.
Per un ipotetico partigiano iscritto al Pd, solo l’imbarazzo della scelta.
Piazza del Popolo o Piazza Duomo? E poi non vengano a dirci che l’opposizione non si fa sentire. Non lascia e, anzi, raddoppia.

il manifesto 30.9.18
C’è un vuoto di idee sulla scuola gialloverde
di Anna Angelucci


All’indomani dell’abolizione transitoria della chiamata diretta dei docenti e della richiesta di proroga dell’obbligatorietà dei test Invalsi all’esame di Stato, ci aspettiamo da governo e Parlamento una seria riflessione critica sull’intero impianto dell’autonomia scolastica inaugurato 20 anni fa da Luigi Berlinguer. È un problema politico di straordinaria importanza, se è vero che su istruzione e lavoro si gioca il futuro del nostro Paese.
La cosiddetta “Buona scuola” rafforza l’autonomia scolastica istituita nel 1997, cui dà «piena attuazione» (art.1,1) orientandola alla «massima flessibilità e diversificazione» (art. 1,2) attraverso i suoi 212 commi che individuano molecolarmente tutti i campi d’azione.  Una iper-regolamentazione che impone, in modo cogente e prescrittivo, come realizzare quei processi di privatizzazione, aziendalizzazione, gerarchizzazione, verticismo, mercificazione del sapere, flessibilizzazione del lavoro, anglofonia, digitalizzazione e scuola d’impresa messi in campo 20 anni fa con una legge di riforma della pubblica amministrazione che assimilava anche le scuole “finalmente” autonome ai dettami del new public management dando la dirigenza ai presidi.
Non è un caso che l’ultima delle nove deleghe della 107 preveda modifiche agli organi collegiali, ultimo baluardo di una gestione democratica e partecipata della vita scolastica. Dalla didattica all’organizzazione, dalla gestione del personale alle assunzioni dei docenti, dalle reti di scuole ai rapporti col territorio, alla valutazione, all’alternanza scuola-lavoro, alla tecnologia digitale, alla progettazione, alle discipline, alle competenze, ai bonus premiali e fiscali: non c’è ambito in cui la 107 non preveda l’autonoma gestione politico-economica delle risorse, purchè finalizzate a efficienza e innovazione.
Le scuole pubbliche, nella mente di Matteo Renzi così come in quella di Berlinguer, sono libere, al pari di quelle private e paritarie (laiche o confessionali), di comportarsi come aziende e di competere sul mercato dell’istruzione. È così anche per il ministro Bussetti, per il premier Conte, per questo Parlamento?
Calpestandone l’originario impianto unitario, la scuola italiana negli ultimi 20 anni è stata trasformata da istituzione a servizio, e l’interesse generale cui assolveva per mandato costituzionale a bisogno particolare, locale.
Da vent’anni, cioè dall’autonomia di Berlinguer, le scuole italiane si sono trasformate in progettifici, che drenano risorse e denaro, tempo e impegno alle attività curricolari. Oggi bisogna aggiungere le centinaia di ore di studio perse per l’alternanza scuola-lavoro e il tempo sprecato per i test Invalsi, pervasivamente presenti in tutti i cicli scolastici e inutilmente preposti a fotografare l’esistente. Gli attuali Parlamento ed esecutivo si stanno muovendo con accordi e proroghe, ancorché privi di una cornice di revisione strutturale della riforma e la prima domanda intelligente da porsi non è se si intende mantenere l’impianto della 107, ma piuttosto se i vent’anni di autonomia scolastica berlingueriana più i tre anni di quella renziana hanno migliorato la scuola oppure no. La risposta è sotto i nostri occhi.
Ci aspettiamo da questo Parlamento che la chiamata diretta dei docenti venga definitivamente abolita per legge: essa è in contrasto col principio costituzionale della libertà di insegnamento. E che agli studenti venga restituito il diritto allo studio, cancellando per sempre l’alternanza scuola-lavoro.
La scuola non è un’azienda, gli studenti non devono essere costretti a lavorare, i docenti non possono essere soggetti a chiamata, i dirigenti non possono scegliere chi gli serve, come chiedono Fondazione Agnelli e Confindustria.

Corriere30.9.18
Inchieste
Quel «patto sporco» con la mafia
Il magistrato Nino Di Matteo esplora i retroscena della «trattativa con lo Stato»
Il sostituto procuratore affronta una stagione drammatica in una intervista con Saverio Lodato (Chiarelettere)
di Corrado Stajano


Ci si è già dimenticati, in questo Paese senza memoria, della terribile sentenza del 20 aprile di quest’anno, il processo detto della Trattativa tra lo Stato e la mafia? Un pentolone ribollente di brutture, di tradimenti, del sangue di tanti innocenti vittime dell’Italia peggiore? La notizia della grave condanna inflitta dalla Corte d’assise di Palermo agli assassini mafiosi e a uomini delle istituzioni con indosso l’uniforme dell’Arma benemerita della Repubblica sembra già scivolata via lasciando il posto alle notizie piccanti, esse sì di rigore, sui sarti, i cuochi, i portatori di influenze e di sogni.
Per fortuna esistono ancora i libri. Ne è appena uscito uno che fa rabbrividire, Il patto sporco. Il processo Stato-mafia nel racconto di un suo protagonista: Nino Di Matteo, il pubblico ministero più perseguitato del Bel Paese, che analizza le motivazioni della sentenza di condanna e risponde, in una approfondita intervista, alle domande di Saverio Lodato, tra i più agguerriti giornalisti del fenomeno mafioso.
Il libro narra fatti conosciuti e sconosciuti, documentati e rilevanti, vista la fonte, ed è importante per costruire la storia sanguinosa, spesso coperta di mistero di questi anni.
Nino Di Matteo, ora sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia, non si sente un eroe. Quel che ha fatto l’ha fatto, dice con semplicità, soltanto nel nome dello Stato di diritto, con grandi sacrifici, suoi e della sua famiglia. Sottoposto «al primo livello di protezione eccezionale», non deve esser stato facile vivere in quel modo, lasciato solo anche da chi avrebbe dovuto difenderlo, l’Associazione nazionale magistrati, il Consiglio superiore della magistratura, insultato anche da persone impensabili, accademici, opinionisti, giornalisti, magistrati. Ma lui aveva le prove di quel che faceva: risultano ora con chiarezza dalle 5.252 pagine delle motivazioni della sentenza della Corte d’assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto depositata il 18 luglio scorso.
Ne ha subite di minacce in 25 anni di inchieste e di solitudine Nino Di Matteo. Totò Riina, intercettato nel 2013 nel carcere di Opera mentre all’ora d’aria parla con un mafioso pugliese: «Gli farei fare la fine del tonno. La stessa che ho fatto fare a Falcone», dice commentando con rabbia l’impegno di Di Matteo nel processo sulla Trattativa.
«Lei deve stare attento perché noi siamo molto avanti. Abbiamo già comprato l’esplosivo, abbiamo studiato tutte le sue abitudini», gli dice nel carcere di Parma, nel 2014, il mafioso Vito Galatolo. «Perché?», chiede il magistrato. E il mafioso, levando lo sguardo alla famosa fotografia di Falcone e Borsellino sorridenti, appesa alla parete, in palermitano stretto replica indicando Falcone: «Non comu a chistu, ma come l’autru». E aggiunge: «Ce lo hanno chiesto». (Sono stati differenti, quindi, la matrice e i moventi della strage di via D’Amelio rispetto a quelli della strage di Capaci. Chi chiese, al di fuori della mafia?)
E un costruttore palermitano che si era occupato dell’acquisto del tritolo per uccidere Di Matteo, all’ufficiale della Guardia di Finanza che l’arrestava dice: «Per capire dove viene l’esplosivo e che cosa c’è dietro, dovete cercare in alto».
E ancora. Matteo Messina Denaro, l’attuale capo della mafia, latitante da 25 anni, «rampollo di una famiglia con quattro quarti di nobiltà mafiosa» dice che Di Matteo è andato troppo avanti con le sue inchieste. Il magistrato commenta così le ragioni della latitanza del capomafia: «Temo la copertura di ambienti deviati delle istituzioni che hanno ragioni di temere, sapendo di quali terribili segreti è a conoscenza, che un giorno possa decidere di vuotare il sacco».
Un libro di piombo questo Il patto sporco. Quei 200 chili di tritolo comprati in Calabria per uccidere Di Matteo non sono stati trovati. Dove sono nascosti? C’è ancora, da parte della mafia, l’intenzione di usarli? C’è qualcuno che sa dove sono, nelle istituzioni, nei Servizi, «deviati», naturalmente? Una minaccia che pesa.
Questo processo non è fondato, come in una guerra dichiarata tra eserciti nemici che trattano ad esempio su uno scambio di prigionieri: la posta in gioco, invece, è stata discussa alla pari tra uomini dello Stato e i poteri criminali di quello stesso Stato. Il reato contestato è infatti: «Violenza e minaccia a corpo politico dello Stato». I governi del tempo. Una trattativa soltanto politica: «I carabinieri (generali e ufficiali superiori) omettono di lasciare traccia scritta dei loro colloqui (con gli uomini della mafia), omettono di riferire ai vertici dell’Arma e alla magistratura, cercano invece sponde politiche, informando autorità istituzionali e parlamentari». E ancora: «Non lo hanno fatto perché sapevano che con Vito Ciancimino stavano conducendo una trattativa politica: cosa volevano i mafiosi per far interrompere quella strategia dell’attacco frontale allo Stato e alla politica? Ecco perché, mentre tacevano con chi avrebbe dovuto sapere, riferivano ad autorità politiche e ministeriali», di cui la sentenza fa abbondantemente i nomi e illustra i desideri dei mafiosi, contro i «pentiti», il carcere duro, il 41 bis, il sequestro dei beni, la modifica della legge Rognoni-La Torre, la revisione, attraverso una sentenza della Corte di Strasburgo, degli ergastoli del maxiprocesso del 1986.
E questo — la pressione assassina — seguitando a uccidere: dopo via D’Amelio, le stragi di Firenze, Roma, Milano, del 1993; la bomba non esplosa per il cattivo funzionamento del telecomando nel gennaio 1994 allo stadio Olimpico di Roma che avrebbe ucciso centinaia di carabinieri.
Il libro è ricco di fatti che provano l’esistenza della vergognosa trattativa e anche di interrogativi non tutti con una risposta. Perché Totò Riina, in corso d’opera, decide di cambiare il piano dell’assassinio di Falcone, non più a Roma, ma in Sicilia? E dieci anni prima: chi ha rubato il diario di Carlo Alberto dalla Chiesa nella cassaforte di villa Pajno, a Palermo, subito dopo il suo assassinio in via Carini, poco lontano? (Specialisti di Servizi, non rozzi criminali). Dov’è finita, 1992, l’agenda rossa di Paolo Borsellino sul campo di battaglia di via D’Amelio, passata in più di una mano?
Qual è il vero significato dei foglietti coi numeri di telefono del Sisde di Roma e del capocentro di Palermo trovati dalla Polizia scientifica sul cratere di Capaci? Chi fece sparire quasi del tutto i file informatici di Falcone dopo la sua morte? Quali furono i motivi dell’accelerazione dell’assassinio di Paolo Borsellino? Che cosa aveva scoperto il magistrato nei tragici 57 giorni dopo Capaci? La cattura di Riina, nel gennaio ’93, poi, e la mancata perquisizione del suo covo, sono smaccate prove dell’accordo tra le parti «per evitare che saltassero fuori atti e documenti compromettenti proprio su quella fase della trattativa». Come mai restò segreta per quasi vent’anni la lettera che i familiari dei detenuti a Pianosa e all’Asinara inviarono nel febbraio 1993 al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro furibonda di minacce contro Nicolò Amato, a capo del Dipartimento delle carceri, e contro Vincenzo Scotti, ministro dell’Interno che si erano mostrati intransigenti nel loro lavoro? Rappresentavano un ostacolo per ogni accordo sottobanco e vennero rimossi rapidamente dal loro incarico. (Quella lettera segreta fu trovata da Nino Di Matteo e dall’allora pm Antonio Ingroia solo nel 2011 negli archivi del Dipartimento delle carceri). Quando i capimafia oltranzisti e moderati — come in politica — si convinsero che il nascente movimento di Forza Italia, tramite Dell’Utri, rappresentava la carta vincente? Andreotti, ormai aveva fatto il suo tempo, l’assassinio di Lima aveva segnato un’epoca. (Nelle sedute della Commissione antimafia della XII legislatura, il primo governo Berlusconi, nel ’94, si parlava ossessivamente di 41 bis e di «pentiti», la minaccia di cui liberarsi).
Questo amaro libro è anche l’utile specchio di un Paese fragile come il nostro. Popolato però di uomini e donne che fanno il loro dovere e ancor più del loro dovere, con grande passione. Energie positive che restano isolate perché mancano i ponti della buona politica. L’altra Italia.

Il Fatto 30.9.18
Anche Candy va ai cinesi: lo storico marchio italiano venduto ad Hayer per 475 milioni


Anche Candy vola in Cina. La storica azienda di elettrodomestici, che per prima ha portato la lavatrice nelle case degli italiani, sarà acquisita da Qindao Hayer per 475 milioni di euro. Lo stesso gruppo cinese quotato a Shanghai ha annunciato che due soci italiani cureranno il trasferimento di proprietà. Gli eredi del fondatore Eden Fumagalli, Beppe e Aldo, così come Donatella Versace poco prima di loro (la regina della moda italiana è reduce dalla cessione dell’azienda di famiglia alla Holding Kors) si sono dichiarati felici dell’operazione. Hanno dichiarato: “Qingdao Haier e Candy Group condividono la stessa visione, che è quella di continuare a migliorare la qualità della vita delle famiglie. Crediamo che la capacità di innovazione, tecnologia e design unite allo stile italiano di Candy si integreranno perfettamente con il modello operativo di Qingdao Haier”. Haier, leader mondiale della produzione di elettrodomestici, stabilirà il proprio quartier generale a Brugherio (MB). Nel comunicato ufficiale si legge che il colosso cinese continuerà a investire nell’azienda italiana “per aumentarne la competitività in Europa e a livello globale”. Candy nel mondo conta più di 4000 dipendenti, 1000 dei quali nella sede di Brugherio, unica italiana. La Fiom Cgil Brianza ha riferito che in azienda “si è diffuso un clima di grande apprensione”. E ha aggiunto “Siamo in attesa di ricevere le informazioni dovute”.

Repubblica 30.9.18
Cina
Ti vuoi sposare? Puoi spendere solo 2.900 dollari
di Filippo Santelli


PECHINO Maledetta politica del figlio unico: nella campagna cinese, dove ogni 100 donne ci sono 150 uomini, trovare moglie è un’impresa. Le famiglie sono pronte a tutto per accoppiare i loro "rami spogli", i figli scapoli. E a Da’anliu, villaggio di pescatori a Sud di Pechino, la somma versata alla famiglia della sposa ha sfondato i 30 mila dollari.
Un’enormità per un paesino dove il reddito medio annuo è di 3 mila, così le autorità hanno deciso di limitarla per legge: il costo di un matrimonio non dovrà superare i 2.900 dollari, pena una denuncia per traffico di esseri umani. Ma senza riforme che aiutino la Cina rurale a svilupparsi, le ragazze continueranno a trasferirsi nelle città, il loro numero a diminuire, il prezzo ad aumentare. Semmai, pagato sottobanco.

Il Sole 30.9.18
I dazi di Trump, l’attendismo di Pechino
di Marcello Minenna


Nuova sberla di Trump al colosso cinese, che vanta un surplus commerciale con gli Usa di 376 miliardi di dollari.
La prima, simbolica, tornata di dazi Usa-Cina del 2018 (tariffe da ambo i lati per 50 miliardi) non si è ripercossa sulla crescita delle due grandi economie, ma la situazione potrebbe mutare. Trump punta a mantenere alta la pressione ed ha rilanciato con altre tariffe su circa 200 miliardi di importazioni.
Nuova sberla di Trump al colosso cinese, che vanta un surplus commerciale con gli Usa di 376 miliardi di dollari.
La prima, simbolica, tornata di dazi Usa-Cina del 2018 (tariffe da ambo i lati per 50 miliardi) non si è ripercossa sulla crescita delle due grandi economie, ma la situazione potrebbe mutare. Trump punta a mantenere alta la pressione ed ha rilanciato con altre tariffe su circa 200 miliardi di importazioni.
La rappresaglia cinese è apparsa poco incisiva: sono stati colpiti “solo” 60 miliardi di beni Usa, mentre sono rimasti aperti i canali diplomatici. Pechino ha infatti quasi esaurito le contromosse immediate, dato che le importazioni dagli Usa ammontano a solo 130 miliardi (prevalentemente agroalimentare e materie prime).
La spavalda dichiarazione di Trump sulla «facilità di vincere le guerre commerciali» pare avere un senso. Un Paese che ha un deficit commerciale maggiore ha più munizioni da spendere in uno scontro tariffario puro, anche se la teoria economica ci ricorda che complessivamente c’è una perdita secca di benessere.
Le tariffe non sarebbero l’unica arma a disposizione del governo cinese. Il dragone potrebbe lasciar deprezzare lo yuan sul dollaro: come già successo, anche piccoli movimenti al ribasso della valuta cinese darebbero una spinta alle esportazioni e potrebbero de facto annullare gli aumenti di prezzo. Tuttavia il Presidente Xi Jinping ha lasciato intendere di non avere intenzione di “allargare” il conflitto attraverso svalutazioni competitive.
Ci sono dei motivi fondati a favore di uno yuan stabile: da quando nel 2015 la divisa cinese è stata ammessa tra le valute di riserva del Fondo monetario internazionale (Fmi), il suo utilizzo è esploso ad oltre il 2% delle transazioni globali. Sono stati stretti accordi con 33 banche centrali mentre 13 piazze finanziarie globali (tra cui Londra e Francoforte) hanno attivato un mercato in yuan. Ciò consente alle imprese cinesi di operare sui mercati annullando il rischio di cambio e riducendo i costi di funding. L’internazionalizzazione dello yuan ha contribuito all’ulteriore spiazzamento della concorrenza estera. Per godere di questi privilegi tuttavia è necessario che lo Yuan resti una valuta poco volatile.
D’altronde l’impatto dei dazi di Trump nella peggiore ipotesi (tariffe al 25% da gennaio 2019 su ulteriori 250 miliardi) potrà rallentare la crescita del Pil al massimo dello 0,9% annuo. Un effetto modesto, che il governo punta a controbilanciare attraverso politiche fiscali e monetarie di stimolo della domanda interna.
La strategia migliore per la Cina potrebbe essere passiva: lasciare che i dazi si trasformino in un aumento dei prezzi per il consumatore americano. In un’economia a pieno impiego come gli Usa è infatti improbabile che dazi sull’import possano stimolare la manifattura locale, su prodotti (tessile, elettronica) dove il vantaggio competitivo cinese resta incolmabile. Il consumatore americano pagherà prezzi più alti: secondo Goldman Sachs l’inflazione Usa crescerà mediamente dello +0,3% annuo. Si registrerebbe un +0,8% solo nel caso peggiore.
Basterà lo spauracchio inflazione per frenare Trump e favorire una tregua commerciale, auspicata anche da una parte dell’amministrazione Usa? Non è detto: aumenti di prezzi su prodotti acquistati saltuariamente non sono percepiti dal consumatore come quelli su beni essenziali, ad esempio la benzina. In questa fase di forte crescita dei redditi reali i consumatori potrebbero ignorare gli aumenti senza cambiare abitudini.
Insomma se l’esito della trade war è incerto, Trump mantiene il vantaggio strategico dell’iniziativa.

Repubblica 30.9.18
ll caso Kavanaugh
Dalle molestie di 30 anni fa al movimento # MeToo
Sesso, potere e silenzi Così le donne d’America stanno cambiando la storia
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON Era il crimine muto, soffocato con una mano sulla bocca, come le donne che lo subivano in silenzio e tacevano. Una generazione fa, negli anni ’80 quando avvenne l’aggressioe che potrebbe sgambettare la corsa del giudice trumpista Kavanaugh verso la Corte Suprema, il tentato stupro non era neppure reato. Era una semplice “infrazione” conciliabile, che la polizia non avrebbe investigato e la magistratura non avrebe perseguito. L’uomo era ancora “cacciatore” e le donne, lo sapevano tutti, se la cercavano. La prescrizione scattava dopo appena un anno.
Basta prendere il metro dei trentasei anni che corrono fra la notte dell’estate 1982, quando in una casa dei sobborghi di Washington il dottor Christine Blasey Ford ricorda di essere stata aggredita dal futuro giudice Brett Kavanaugh — certo dell’impunità — e i 25 anni di carcere che oggi alcuni Stati americani infliggono a chi tenta di violentare un minore dopo raffiche di nuove leggi varate a cavallo del millennio, per misurare quanta strada sia stata fatta, dall’indulgenza maschile delle leggi alla rivolta delle donne divenuta anche il messaggio di #metoo. La condanna del silenzio, alla quale milioni di donne, di ragazze, di ragazzine si sono ribellate, risultato inevitabile appena 30 anni or sono, è diventato il grido di una denuncia che può demolire il trono di maschi potentissimi — come il King Kong di Hollwyood, Harvey Weistein, o il signore assoluto della network Fox, e consigliere di vari presidenti repubblicani, Roger Ailes. Nell’eterno duello fra sesso e potere, non è più un solo genere a vincere sempre.
Ma se la traiettoria è chiara dagli anni dei dormitori universitari nei quali il “Giudice Vergine”, il piagnucoloso Kavanaugh, apparteneva a una “animal house” che aveva come motto: “il NO vuol dire SÍ, il SÍ vuol dire sesso anale”, il percorso del lungo viaggio è stato tortuoso e accidentato ed è ben lontano dal traguardo della giustizia. In una nazione che perennemente oscilla fra gli estremi del puritanesimo moralista e del permissivismo hippy, che predica la più rigorosa astinenza sessuale nelle cavernose cattedrali del telepredicatori ma poi compra la musica “gangsta” che canta la più truculenta sessualità, ogni inversione a U resta possibile.
Bill Clinton fu assediato e incriminato per aver mentito e nascosto le sue squallide performance con una stagista ventenne, Monica, da una Destra cristianissima e sdegnata, della quale faceva parte, nel team degli inquisitori, anche il giudice oggi sotto scrutinio, ironico karma della Storia. Ma è quella stessa Destra cristianissima e perbenista che ha inghiottito le sedici denunce per assalti e molestie sessuali contro Donald Trump e ha accettato come innocente fanfaronata da spogliatoio maschile il suo galante corteggiamento preferito: allungare la mani e afferrare le donne per i genitali.
La linea sulla spiaggia della giustizia arretra e poi ritorna, ma a ogni onda si spinge più avanti.Nel 1991, quando la collaboratrice di un altro candidato al massimo scranno della magistratura, l’avvocato Anita Hill, accusò Clarence Thomas di stalking sessuale, i repubblicani ricorsero alla più trita delle tattiche, quella della vittima colpevole. “Lei è una donna respinta”, proclamò un senatore, dunque offesa nella propria vanità e decisa a vendicarsi. Oggi, i senatori repubblicani, terrorizzati dall’idea di apparire come vecchi capri all’assalto della dottoressa Ford, neppure hanno avuto il coraggio di interrogarla, appaltando le domande a una donna megistrato, ingaggiata per l’occasione. È stata lei, la Ford, a intimidire quei decrepiti mandarini che nel 1991 avevano cercato di intimidire Hill. Si va da un eccesso all’altro, obiettano i benpensanti, agitando l’incubo di donne isteriche e mitomani o buttandola nel pecoreccio del varietà televisivo da domeniche pruriginose. È sempre una questione di “lei dice, lui dice”, rispondono coloro che costruiscono dighe di sabbia con il secchiello contro l’onda e avvertono che il mondo ribolle di donne con troppa immaginazione o di cercatrici d’oro. Ma anche questa diga si sfarina di fronte alle richerche sui quasi 300mila casi all’anno di violenza sessuale sulle donne che indicano in una percentuale massima del cinque per cento le “false denunce”.
Crollano, in attesa di sapere se il caso Kavanaugh sarà irrobustito dall’indagine affidata allo Fbi dopo che Trump ha accettato — primo caso di una visibile retromarcia del Presidente irremovibile e infallibile — stelle dei media e della politica, in quella Fox News tanto cara alla destra, ma anche nella politicamente correttissima CBS, la “Tiffany del giornalismo”, dove il presidente Les Moonves ha dovuto dimettersi dopo le accuse di un donna. Si è sfatto il “Papà d’America”, l’attore Bill Cosby che a 81 anni è entrato in carcere per scontare almeno tre anni, colpevole di avere drogato almeno una sua collaboratice ventenne per potersi sollazzare.
Se la strada di Brett Kavanaugh dovesse precipitare, sarebbe un caso di studio, un segnale storico che neppure la prepotenza e il privilegio di casta possono mettere una mano sulla bocca delle donne. Lo sanno i suoi sponsor,come Trump,come quei decrepiti sepolcri imbiancati in Senato, figli della cultura di “Mad Men”, del tempo di donne costrette ad accettare tutto e sorridere facendosi “carine” per l’elemosina di una carriera.
Che cosa ricorda di più di quella sera?, ha chiesto un senatore democratico a Christine. “Le risate”. Quali risate? “Le risate di Brett Kavanaugh e del suo amico, che ridevano, ridevano e di divertivano mentre lui mi teneva schiacciata sul letto e cercava di soffocarmi”. Ridono ancora, ma sempre meno.

La Stampa 30.9.18
“Sui migranti la Romania non sta con Visegrad”
di Francesca Sforza


«Più democrazia, più benessere e meno burocrazia, questa è stata l’Europa per noi», dice l’ambasciatore della Romania George Bologan, impegnato in questi giorni a preparare la prima visita di un presidente romeno in Italia da quarantacinque anni a questa parte. «Klaus Iohannis arriverà a metà ottobre per celebrare i dieci anni del partenariato strategico consolidato con l’Italia, e sarà la sua unica visita all’estero per tutto il 2018», dice Bologan, ricordando inoltre che il 2018, per la Romania, ha segnato il centenario della Grande Unione dopo la prima guerra mondiale, con la firma dei Trattati del Trianon e di Versailles. «Un anno carico di significati per noi».
Ambasciatore Bologan, la globalizzazione ha influito negli scambi commerciali tra Italia e Romania?
«L’anno scorso abbiamo avuto un interscambio di 14,6 miliardi di euro e l’Italia è il secondo partner commerciale della Romania, dopo la Germania, con una quota di 10,5% del commercio estero romeno totale. Le nostre stime per il 2018 sono in crescita, con la novità di un grande aumento di società a capitale romeno in Italia (24 mila) e di società italiane in Romania (oltre 45 mila). Particolarmente importante si è rivelato il settore agricolo, anche grazie ai fondi europei». 
Popoli legati dall’interesse o dall’amicizia, secondo lei?
«Italia-Romania hanno una relazione privilegiata all’interno dell’Ue per via del fattore umano, anche grazie a numerose famiglie miste. Un rapporto radicato dall’antichità, basato sui rapporti tra comunità umane. Oggi la partecipazione di cittadini romeni in Italia è a tutti i livelli, dagli artisti agli ingegneri, dagli edili alle badanti. Ci sono ad esempio 187 mila studenti romeni, e la metà degli infermieri stranieri in Italia vengono dalla Romania».
L’anno scorso la Romania ha festeggiato i dieci anni dell’adesione all’Ue, che bilancio si può fare?
«I cambiamenti sono stati enormi: il Pil è raddoppiato, le aziende hanno conosciuto una stagione di sacrifici ma oggi sono più competitive, le zone rurali sono cresciute grazie alla Pac, la libertà di movimento ha creato circolazione di manodopera e di cervelli, la burocrazia si è fatta più snella. L’entrata della Romania nell’Ue è stato un vantaggio anche per il mercato di tante aziende italiane. L’Ue resta per la storia il progetto politico che ha portato pace, benessere, mobilità di idee e delle persone, tante opportunità per gli studenti Erasmus e non solo».
Come è stata vissuta in Romania la scelta del Regno Unito di uscire dall’Ue?
«Con sorpresa e rammarico, per noi l’Europa è sempre stata il sogno politico del benessere, l’espressione di una democrazia per cui i giovani dell’89 si sono spesi e sacrificati. Ma il popolo britannico si è espresso e la sua volontà va rispettata, siamo fiduciosi nella capacità e nella saggezza dei negoziatori».
A gennaio la Romania assumerà per la prima volta la presidenza di turno dell’Unione, che impronta darà, ad esempio sulla questione dei migranti?
«Sarà una presidenza sotto il segno dello slogan “coesione”, come valore fondante dell’Ue. Durante l’assemblea generale dell’Onu il presidente romeno Iohannis ha parlato con l’alto commissario per i rifugiati Filippo Grandi assicurando che i valori dell’accoglienza saranno rispettati e ispireranno il lavoro della Presidenza. Il centro di transito di emergenza di Timisoara ha offerto fino a oggi assistenza a più di 2500 migranti e continuerà a farlo. Sosteniamo il global compact, le operazioni di Frontex, e ci impegneremo per promuovere la cooperazione con gli stati di provenienza dei migranti. Il flusso potrà essere diminuito se lavoriamo insieme per combattere le cause profonde del fenomeno nei paesi di origine e per impedire che il traffico di esseri umani diventi una fonte inumana e sdegna di guadagno». 
Cosa pensa della politica di Orban?
«La Romania non fa parte del gruppo di Visegrad ed è più interessata a sostenere progetti di solidarietà».
Crede che il rafforzarsi di movimenti populisti e nazionalisti incrinerà il progetto europeo?
«Il populismo e il nazionalismo non sono un’esclusiva europea, e in forma embrionale sono anche in Romania, ma non hanno molto seguito, perché soprattutto i giovani sono invece animati da un grande fervore europeista. Credo che l’attuale crisi e i piccoli malintesi renderanno l’Europa ancora più forte. L’insoddisfazione di alcuni gruppi sociali va ascoltata dalla politica, e in qualche caso ci vogliono misure severe, funzionano anche in una democrazia sana. Il patriottismo contribuisce alla coesione sociale, importante è non smarrire la percezione di sé: cooperazione significa soprattutto saper ascoltare, e poi agire».

La Stampa 30.9.18
Trump spinge per uno Stato palestinese Netanyahu frena
di Giordano Stabile


Benjamin Netanyahu mette i paletti al piano di pace di Donald Trump. Il premier israeliano è rimasto sorpreso dall’improvviso sostegno del presidente americano alla nascita di uno Stato palestinese. Per due anni la Casa Bianca ha messo nell’angolo i palestinesi, ha spostato l’ambasciata a Gerusalemme, tagliato i fondi ai rifugiati. Ma aveva anche promesso qualcosa di «molto buono» in cambio delle concessioni fatte a Israele. E ora ha spiegato che l’accordo che preferisce, quello «che funziona meglio» è nel solco della soluzione «due popoli, due Stati». Il piano sarà presentato entro tre mesi dal consigliere della Casa Bianca, suo genero, Jared Kushner, che «ama Israele ma saprà essere onesto con i palestinesi».
«Mai finché sarò premier»
Netanyahu non ha mai escluso la possibilità della nascita di uno Stato palestinese, ma non è certo la sua prima scelta. Anche nel celebre discorso all’università di Bar Ilan, nel 2009, sotto la spinta di Obama, era rimasto prudente. L’arrivo di Trump sembrava aver seppellito la linea seguita fin dagli accordi di Oslo, e qualche mese fa il premier ha proposto uno «Stato minus», qualcosa in meno della piena sovranità e qualcosa in più di una semplice autonomia per Cisgiordania e Gaza. Dopo le dichiarazioni di Trump, è sembrato spiazzato. A New York ha spiegato che preferisce «parlare di sostanza, non di etichette». La parola Stato «può voler dire tante cose – ha continuato - persone diverse intendono cose diverse, che cosa intendo io? Non lo so, fate voi, voglio che i palestinesi si autogovernino, ma senza poterci fare del male».
Netanyahu deve fronteggiare anche gli alleati di destra nella coalizione: il ministro dell’Educazione e leader del partito Beit Yehudi Naftali Bennett ha minacciato di «uscire dal governo se nascerà uno Stato palestinese». Il ministro dell’Energia Yuval Steinitz, del partito del premier, il Likud, ha proposto una «confederazione» fra Israele e la Cisgiordania. Per questo, il leader israeliano ha ribadito quali sono le linee invalicabili per Israele. Lo Stato palestinese dovrà essere demilitarizzato e «Israele dovrà avere la preminenza nel controllo della sicurezza, in ogni circostanza». Non ha escluso che l’accordo di pace possa arrivare durante il suo mandato, che scade l’anno prossimo, ma ha insistito: «Israele non cederà mai il controllo della sicurezza sulla sponda occidentale del Giordano. Non accadrà finché io sarà primo ministro e credo che anche gli americani lo capiscano».

La Stampa 30.9.18
Esplosione al congresso dei comunisti separatisti
di Giuseppe Agliastro


Un’altra violenta e misteriosa esplosione scuote il Sud-est ucraino in guerra. Ieri pomeriggio, un mese dopo l’attentato dinamitardo in cui ha perso la vita il capo dei separatisti di Donetsk, Aleksandr Zakharchenko, una deflagrazione ha ferito Igor Khakimzyanov, il candidato comunista alle elezioni dell’11 novembre in cui si sceglierà il nuovo leader dell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk.
L’esplosione - riportano i media russi e ucraini - è avvenuta all’ingresso dell’edificio che ospita regolarmente le riunioni dei comunisti locali e ha investito almeno quattro persone. «Stavo entrando nel palazzo con un membro del mio staff elettorale quando c’è stato il botto», racconta Khakimzyanov. Hromadske tv ha pubblicato una foto del candidato comunista con il volto annerito, probabilmente ustionato dall’esplosione, e il braccio destro vistosamente fasciato. Stando ad alcune fonti, la deflagrazione è stata provocata da un ordigno rudimentale e si è verificata proprio alla fine di un congresso dei comunisti a cui pare fossero presenti circa 50 persone. «Sul luogo dell’esplosione - riferisce il membro del partito comunista Gennady Filonenko - è stato trovato un pacco. Due donne - aggiunge - sono rimaste ferite, una di loro ha riportato gravi ustioni».
L’attentato del 31 agosto
Da parte sua, il segretario dei comunisti di Donetsk, Boris Litvinov, interpreta quanto avvenuto come «un tentativo di minare la partecipazione» del suo partito alle elezioni. Come nel caso dell’assassinio di Zakharchenko, non è però chiaro chi si nasconda dietro questo crimine. L’omicidio del leader ribelle, ucciso da una bomba il 31 agosto in un bar di Donetsk, aveva scatenato un feroce scambio di accuse tra Kiev da una parte e il Cremlino e i miliziani filorussi dall’altra. Mosca, che sostiene militarmente i separatisti, aveva subito puntato il dito contro l’Ucraina, secondo cui invece il numero uno dei ribelli era caduto vittima di una lotta intestina per il potere o di «un conflitto tra i terroristi e i loro sponsor russi». Adesso è possibile che la scena si ripeta.
Zakharchenko era ovviamente un nemico giurato di Kiev. Ma pare che il capo dei ribelli avesse pian piano perso la fiducia di Mosca e, secondo alcune fonti dei separatisti sentite dalla Reuters, era destinato a essere messo da parte. Al suo posto pare che fosse stato designato Denis Pushilin, che fino a qualche settimana fa guidava il «Parlamento» di Donetsk. Il 7 settembre, pochi giorni dopo la morte di Zakharchenko, il Consiglio del Popolo ha in effetti eletto proprio Pushilin come «presidente» ad interim. Il sospetto è che si tratti di un’investitura a lungo termine, naturalmente col consenso del Cremlino.

il manifesto 30.9.18
Il Grande Gioco sino-pakistano
Geopolitica dei corridoi. Entro il 2030 il «China-Pakistan economic corridor» collegherà il porto di Gwadar con Kashgar in Cina. I più preoccupati del progetto e della sfida egemonica di Pechino sono gli Usa
di Alberto Negri


KARACHI C’è un nuovo «Great Game» in Asia che può cambiare gli equilibri mondiali. È il progetto di «Corridoio sino-pakistano», 60 miliardi di dollari in autostrade, ferrovie, porti, terminal petroliferi – che solleva gli entusiasmi nei palazzi del potere di Islamabad, Lahore e Karachi ma anche le preoccupazioni degli americani che vedono in questo piano strategico del presidente cinese Xi Jinping una sfida alla loro egemonia sulle rotte oceaniche e dei rifornimenti energetici.
I TONI SONO QUELLI di una svolta epocale. «L’amicizia tra Cina e Pakistan sarà eterna: il corridoio è una pietra miliare nelle relazioni bilaterali e per l’economia di tutta la regione», dice a Lahore nell’antico palazzo coloniale del Raj britannico il governatore del Punjab Mohammad Sarwar, un businessman di successo che prima di rinunciare alla cittadinanza inglese militò con i laburisti e fu anche il primo deputato musulmano del parlamento di Londra.
Non è da meno a Karachi il governatore del Sindh. Siamo nella città natale di Mohammed Ali Jinnah, il fondatore del Pakistan, sorto drammaticamente dalla partizione con l’India del 1947.
«Karachi è una città strategica per pakistani e cinesi, qui passa il 60% dell’economia, il 90% dell’import-export e a Gwadar ci sono i terminali del petrolio saudita e del gas del Qatar», sottolinea Imran Ismail, come Sarwar un altro uomo d’affari nominato dal nuovo premier Imran Khan, il leader del Movimento per la giustizia (Pti) che con le elezioni vinte nel luglio scorso guida «un governo del cambiamento», in alternativa alle tradizionali dinastie dei Bhutto e degli Sharif e in alleanza con partiti radicali musulmani.
Promette lotta alla corruzione e una sorta di welfare state islamico. «Nessun musulmano può dirsi tale se non crede che il profeta Maometto sia l’ultimo profeta», proclama il neo-premier usando gli argomenti dei partiti più radicali.
«Mio marito non è soltanto un politico ma un leader», dichiara la terza moglie di Imran Khan, una sorta di predicatrice sufi che nelle occasioni ufficiali si presenta con il niqab a coprire interamente il volto ma senza nascondere grandi ambizioni.
Centimetri di stoffa che misurano distanze storiche. «In questa università con 44mila studenti venti anni fa solo il 4% delle donne metteva il velo», dice Mohammed Ajmal Khan vice-rettore dell’Università statale di Karachi.
«E QUESTO – AGGIUNGE – lo dobbiamo anche all’influenza di Paesi del Golfo come l’Arabia Saudita».  La quale, naturalmente, come uno dei maggiori finanziatori del Pakistan, è il primo paese che Imran Khan ha chiamato a fare la sua parte nel progetto del secolo tra Pechino e Islamabad.
«Vogliamo lavorare al successo del Corridoio. Manderemo anche dei team in Cina per imparare come si allevia la povertà e si distribuiscono due pasti al giorno ai poveri», questo è il primo tweet inviato dopo la vittoria elettorale da Imran Khan, popolare capitano vincitore del mondiale di cricket nel ‘92.
Non è un caso che l’ex playboy, ormai devoto dell’Islam e che piace anche ai generali – i veri detentori del potere in Pakistan – abbia sottolineato in maniera così clamorosa i legami con la Cina.
«È stato il Pakistan che nel 1972 aprì la strada allo storico viaggio di Nixon in Cina proprio grazie ai nostri buoni rapporti con Pechino.
E ora i cinesi hanno deciso di stanziare 46 miliardi di dollari, il maggiore investimento straniero nella storia del Pakistan: questo significa in maniera concreta di come stanno cambiando gli equilibri internazionali, un messaggio anche per Washington», dice nel suo ufficio di Islamabad Ahmad Chaudry, direttore dell’Istituto di Studi Strategici.
CON GLI STATI UNITI non corre buon sangue. Il presidente Donald Trump non è soddisfatto della mancata collaborazione con Islamabad in Afghanistan e nella lotta al terrorismo, dimenticando che furono proprio gli Stati uniti a volere che il Pakistan usasse i jihadisti, allora chiamati mujaheddin, per sconfiggere negli anni Ottanta l’Unione Sovietica che nel 1979 aveva occupato Kabul. Così Washington ha bloccato 300milioni di contributi alle forze armate pakistane e ora mette i bastoni tra le ruote a Islamabad che per risollevare la sua economia vorrebbe ricorrere ai prestiti del Fondo monetario.
Gli Stati uniti si oppongono perché dicono che questi soldi andranno a rifondere i debiti del Pakistan con la Cina. E quando il segretario di Stato Mike Pompeo il 5 settembre è andato in visita a Islamabad il suo omologo pakistano non è neppure andato all’aereoporto a riceverlo.
LA RIPICCA DI POMPEO è stata una delle visite americane più brevi della storia: si è fermato solo due ore, giusto il tempo per una fugace stretta di mano al nuovo premier.
Sullo sfondo ci sono i rapporti con l’India che occupa dal 1947 metà del Kashmir: Washington in questi anni, anche con i contratti militari, ha palesemente favorito gli indiani. Una tensione perenne tra due Paesi con l’atomica in un’area nevralgica del mondo.
Perché gli americani sono cosi nervosi per l’influenza di Pechino in Pakistan? Il corridoio sino-pakistano è imperniato sul porto di Gwadar con cui la Cina intende aggirare lo Stretto di Malacca, riducendo di oltre 10 mila chilometri e 26 giorni la distanza marittima dagli strategici giacimenti di idrocarburi nella regione del Golfo. Con questo progetto la Cina si sottrae al controllo della marina americana che oggi, volendo, potrebbe chiudere quando vuole i rubinetti del rifornimento energetico cinese.
IL «CHINA-PAKISTAN Economic Corridor» (Cpsc) prevede entro il 2030 una rete imponente di infrastrutture, comprese quelle energetiche, che collegheranno il porto pachistano di Gwadar con la città di Kashgar, nella regione cinese dello Xinjiang, a 3.200 chilometri di distanza.
Gwadar si affaccia sull’Oceano Indiano, sulle rotte del 44% per cento delle importazioni di greggio di Pechino (ma anche del 66% dell’India e del 75% del Giappone). Pechino non ha sbocchi sul Mare Arabico, una spina nel fianco per il paese perché gran parte delle merci in uscita ed entrata via mare devono attraversare l’Oceano Indiano e incunearsi nello Stretto di Malacca per raggiungere i porti del Mar cinese meridionale. Attraverso lo Stretto passano ogni giorno sulle petroliere oltre dieci milioni di barili di greggio.
IL CORRIDOIO FERROVIARIO e stradale destinato a collegare Kashgar con Gwadar cambia drasticamente la situazione: i container potrebbero raggiungere le coste del Pakistan via terra evitando lo Stretto.  Oggi una portacontainer impiega 45 giorni dalla Cina al Medio Oriente mentre dal porto di Gwadar ne servono dieci. L’iniziativa si inserisce nella strategia cinese definita «filo di perle» che consiste nel consolidare partnership strategiche con gli stati asiatici piazzando capisaldi lungo una linea marittima che collega il Mar Cinese Meridionale al Golfo del Bengala e poi all’Oceano Indiano e al Mar Rosso. Pechino ha insediato distaccamenti in porti tailandesi e birmani, nello Sri Lanka, in Bangladesh e a Gwadar in Pakistan.
GLI ACCORDI DEL PAKISTAN con la Cina segnalano le profonde trasformazioni in corso nell’ordine mondiale: ecco perché negli Stati uniti il nuovo «Grande Gioco» asiatico viene considerato una sfida diretta alla superpotenza americana.

Corriere 30.9.18
Francia, il caso Onfray: si può essere scorretti alla tv pubblica?
di Stefano Montefiori


Come deve comportarsi il servizio pubblico con i campioni del politicamente scorretto? La domanda è di attualità in Francia, dove Michel Onfray e Éric Zemmour stanno vivendo un passaggio delicato delle loro carriere. Il primo è il filosofo libertario di sinistra diventato celebre con il «Trattato di ateologia» e con una produzione sconfinata e talvolta profetica sulla fine della civiltà occidentale, il secondo è il polemista di estrema destra anti-islam condannato per incitamento all’odio religioso. Onfray e Zemmour devono parte del loro successo al fatto di avere sfidato il «pensiero unico»: Onfray denunciando «il dogma neoliberista di Maastricht», Zemmour contestando l’idea progressista dell’abbraccio alle culture diverse, specialmente quella musulmana. All’inizio la loro era una voce nuova, inattesa. Poi, assieme ad altri intellettuali controcorrente come Alain Finkielkraut, sono diventati onnipresenti. Hanno continuato a denunciare «il pensiero dominante», senza ammettere che il pensiero dominante stava diventando il loro. Fanno audience perché sono efficaci e perché le sparano grosse: da «Osama ha ragione» (Onfray) a «I tuoi genitori hanno sbagliato a chiamarti Hapsatou, dovevano usare un nome francese come Corinne» (Zemmour). Fustigatori del presidente Macron, ora vedono gli spazi restringersi: Onfray, privato della trasmissione su France Culture, abbandona per protesta l’Università popolare di Caen da lui fondata nel 2002; Zemmour, primo in classifica con il saggio «Destin français», è ovunque su giornali, radio e tv private, ma stenta ad apparire nel servizio pubblico. Qualcuno grida alla censura. Altri fanno notare che esiste un diritto alla libertà d’espressione, non alla sovraesposizione mediatica.

Corriere La Lettura 30.9.18
La fisica a caccia della vita
«Ecco una questione fondamentale: i processi di meccanica quantistica svolgono un ruolo importante nella biologia? Ci sono indizi che le cose possano stare proprio in questo modo»
Lo scienziato sudafricano George Ellis illustra quello che la ricerca può (e non può dire) sull’esistena. E auspica una maggiore integrazione tra discipline umanistiche e scientifiche
di Ida Bozzi


Il grande mistero dell’universo siamo noi. Non solo lo spazio profondo o l’origine del cosmo, che pure sono frontiere della conoscenza. Ma noi, la nostra coscienza e biologia, il motivo per cui siamo qui. Ce ne parla una grande mente della fisica, lo scienziato sudafricano George Ellis, professore emerito di Sistemi complessi all’Università di Cape Town in Sudafrica, e per molti anni docente di Fisica del cosmo alla Sissa, Scuola internazionale superiore di studi avanzati di Trieste. Proprio alla Sissa, Ellis è atteso il 2 ottobre per inaugurare un nuovo super-istituto, l’Ifpu, Institute for Fundamental Physics of Universe, che prevede la collaborazione di quattro grandi istituzioni scientifiche per studiare la fisica dell’universo con modalità e progetti d’avanguardia.
In vista dell’incontro di Trieste, città cui è molto legato anche per i ricordi personali («io e mia moglie eravamo buoni amici di Margherita Hack e Aldo de Rosa»; in particolare Ellis ammirava Hack «sia come scienziata e direttore dell’Osservatorio di Trieste, sia come donna forte che ha avuto molto coraggio nell’esprimere le sue opinioni»), il professore spiega quali sono le sfide della Fisica, tra limiti e spiragli per la conoscenza.
Cominciamo dai limiti. Che cosa può e non può fare la scienza, in particolare la fisica?
«La scienza è molto potente, nella sua sfera d’indagine propria: osservazioni molto precise di oggetti distanti (in astronomia) o di piccoli oggetti (usando microscopi), e misure molto precise ripetibili in laboratorio o con collider di particelle e, più recentemente, in biologia molecolare e neuroscienze. Tuttavia ci sono due tipi di limiti a ciò che la scienza può fare. Intanto, ci sono i limiti fisici: i telescopi misurano la radiazione degli oggetti che possiamo vedere, ma ci sono vaste regioni dell’universo che non possiamo vedere (nessuna particella ci porta informazioni in modo più veloce della luce). Poiché l’universo ha un’età limitata (da quando è diventato trasparente alle radiazioni), non possiamo vedere oggetti più lontani di 42 miliardi di anni luce, né dimostrare affermazioni su ciò che potrebbe esistere oltre. Usiamo i collider di particelle per “vedere” su scale molto piccole, ma c’è un limite anche per le energie che possiamo usare nei collider, per dimensioni e costo (pensate al Cern). In particolare non possiamo testare le teorie della gravità quantistica».
Ma c’è un altro problema.
«Il secondo limite è più fondamentale. Molti aspetti di ciò che esiste non sono suscettibili di osservazioni o esperimenti ripetibili e precisi, questioni di grande importanza per l’umanità, come la natura della bellezza o l’esperienza dell’amore o l’esistenza del bene e del male: lo sono per alcuni aspetti, ma il loro nucleo non lo è. Non ci sono test sperimentali per il bene e il male, o la bellezza e la bruttezza, o la qualità della letteratura. Forse non rappresentano la conoscenza umana, ma piuttosto l’esperienza umana; ciò non diminuisce la loro importanza per noi. E c’è il problema più profondo che la scienza deve affrontare».
E quale sarebbe?
«Se mai ci sarà una completa spiegazione scientifica del difficile problema della coscienza: perché possiamo provare qualia (cioè aspetti qualitativi dell’esperienza, ndr) come verde e rosso, dolore, fame, sapore di sale? Il mio punto di vista è che non risolveremo mai il problema in modo scientifico. Impareremo molto sui correlati neurali della coscienza ma non risolveremo il problema di come la coscienza possa venire in essere. Ci sono molte sfide nella scienza: la natura della gravità quantistica è una questione chiave. Abbiamo due teorie principali (teoria delle stringhe e gravità quantistica dei loop) e molte altre (come la teoria degli insiemi causali). Difficile testarle sperimentalmente, o verificare se stanno andando nella giusta direzione (ad esempio, non c’è nessun test diretto per tutte le dimensioni superiori supposte nella teoria delle stringhe). E un’altra questione è: i processi di meccanica quantistica svolgono un ruolo importante in biologia? Ci sono indizi che possa essere così. Insieme al premio Nobel Philip Anderson, considero questi problemi di emergenza fondamentali (l’emergenza in fisica e in altre discipline è una proprietà per cui il “tutto” ha caratteristiche che le parti da sole non hanno, ndr)».
Le prossime sfide sono la materia oscura e l’energia oscura?
«Sono questioni irrisolte molto importanti in cosmologia. Possiamo rilevare entrambe, attraverso i loro effetti, ma vogliamo sapere che cosa sono, ed è molto più difficile. La materia oscura può essere testata in molti modi, cosa che si sta facendo ora. Ma l’energia oscura è così debole che forse può essere verificata solo attraverso i suoi effetti astrofisici e cosmologici, che non ci dicono di che cosa è fatta. Il sistema solare è troppo piccolo per il rilevamento diretto. Nuove sfide sono sorte con il rilevamento di onde gravitazionali dalle collisioni di buchi neri e stelle di neutroni. È una prodezza tecnica meravigliosa. Esplorare come la teoria si rapporti a queste osservazioni è una sfida chiave per l’astronomia multi-messaggero: sarà uno degli obiettivi principali del nuovo Ifpu di Trieste».
Torniamo a parlare della vita. Siamo destinati a non sapere perché la vita esiste?
«È una proprietà misteriosa dell’universo, il fatto di essere di natura tale da permettere alla vita di esistere — essere bio-friendly. Da un punto di vista cosmologico, potrebbe essere altrimenti, con nessuna vita possibile nell’universo (ad esempio perché in quell’universo non esistono stelle o pianeti, o elementi pesanti come carbonio e fosforo). Un’ipotesi scientifica per spiegarlo è assumere che il nostro cosmo faccia parte di un multiverso: miliardi di parti in espansione come quella in cui viviamo, ciascuna con diverse proprietà fisiche, in modo che alcune siano bio-friendly anche se la maggior parte non lo sono (per noi non osservabili perché fuori dal nostro orizzonte visivo). È una buona spiegazione filosofica, ma è insoddisfacente in termini scientifici perché non puoi provarla. E non risolve il problema del perché la vita possa esistere. Anzi, lo stesso problema si pone anche per il multiverso: perché consente universi in cui la vita può esistere? Sarebbe risolto se potessimo dimostrare che, qualunque meccanismo abbia creato gli universi, doveva crearli necessariamente bio-compatibili, ma non abbiamo alcun controllo scientifico su quale potrebbe essere un tale meccanismo — se pure quest’idea ha senso. Alla fine, perché l’universo consente alla vita di esistere non è problema risolvibile scientificamente».
Quindi non lo sapremo mai?
«Secondo me non si dovrebbero prendere in considerazione solo i dati scientifici, ma anche molti altri dati sulla natura dell’esistenza, come la presenza della bellezza e della bruttezza, dell’amore e dell’odio... Ciò esiste e anch’esso dà informazioni sulla natura dell’universo, perché l’universo è di natura tale da rendere possibile la sua esistenza. I dati scientifici catturano solo parte della realtà, come ha notato ad esempio Arthur Eddington. Il resto di tale esperienza consiste anche di dati sulla natura dell’esistenza e di possibilità che possono verificarsi nell’universo; per esempio, gran parte della storia umana è guidata dalle idee, più che da fisica o biologia, come è stato spiegato nel libro Sapiens di Yuval Noah Harari».
Forse la prossima sfida della scienza potrebbe essere un ripensamento filosofico del mondo.
«Infatti: gli scienziati devono riflettere attentamente sulla relazione con la filosofia. Esiste attualmente una sofisticata filosofia della scienza che coinvolge gli scienziati su alcune questioni fondamentali».
La fisica quantistica è molto difficile; forse gli scienziati dovrebbero essere, anche, filosofi.
«Concordo moltissimo: i fisici devono impegnarsi con la filosofia, ma il tipo giusto di filosofia! Tra l’altro, io non penso che la meccanica quantistica sia troppo difficile per i filosofi stessi; molti di loro sono davvero ben preparati e ne discutono a un livello sofisticato: mi vengono in mente David Albert, Tim Maudlin, David Wallace, Shelley Goldstein, Simon Saunders...».

Corriere La Lettura 30.9.18
1415-1485, il secolo breve dell’Inghilterra medievale

di Amedeo Feniello

Come sulle tavole di un teatro, sono le parole di William Shakespeare ad aprire e chiudere il secolo breve dell’Inghilterra medievale. Le prime sgorgano travolgenti dalla bocca di re Enrico V d’Inghilterra, alla battaglia di Azincourt, il 25 ottobre 1415: «Noi pochi. Noi felici, pochi. Noi manipolo di fratelli: poiché chi oggi verserà il suo sangue con me sarà mio fratello». Le altre, appartengono a Enrico VII, nel Riccardo III, dopo la battaglia di Bosworth, il 22 agosto 1485: «E poi, così come abbiam deciso a sacro giuramento innanzi a Dio, faremo ritornare in buona pace la rosa rossa con la rosa bianca». Appena settant’anni separano le due date. Due momenti che marcano la storia inglese e ne condizionano fortemente gli sviluppi futuri.
Azincourt è il momento clou della lunga guerra dei Cent’anni, che, dal 1339, impegnava i regni di Inghilterra e Francia. Battaglia che incarna il mito della vittoria impossibile, del trionfo di Davide su Golia, del fante e arciere appiedato inglese contro la regina dei campi di battaglia, la cavalleria pesante. Quindi, non fu solo uno scontro armato ma molto di più: la fine di un’epoca. Di una forza leggera e mobile, con arcieri e uomini d’arme, ben diretta sul campo e con terreno favorevole, capace di diventare «superiore alle pesanti armi feudali, alla massa scomposta di cavalieri nobili a caccia di gloria prima che della vittoria».
Le premesse già c’erano state, nel corso della stessa guerra, con le vittorie inglesi a Crécy (1340) e a Poitiers (1356), adoperando tecniche di battaglia analoghe. Poi c’era stata la battaglia degli Speroni d’oro, l’11 luglio 1302 a Courtrai, quando la borghesia delle città fiamminghe, i suoi artigiani, contadini, uomini di fatica e macellai, armati di picche e di goedendag — l’antenato dell’alabarda — infersero un duro colpo alla cavalleria francese guidata da Roberto d’Artois, rovesciando, per la prima volta, i rapporti di forza, con il debole a prevalere sul più forte.
L’effetto di Azincourt, nell’immediato, è impetuoso. Il più grande e ricco regno d’Occidente è in balia di Enrico V. Le devastazioni del suo esercito si susseguono per quattro anni. Il re consolida le sue conquiste. Si riprende la Normandia. Il trattato di Troyes, nel 1420, è il suo capolavoro politico; e, attraverso il suo matrimonio con la figlia di Carlo VI, Caterina, pone le basi perché le due Corone, inglese e francese, se pur distinte nel trattato, potessero essere cinte da un unico e medesimo signore.
Ma come spesso avviene nella storia, non tutto era prevedibile. Né che un granellino cominciasse a rovinare l’ingranaggio. Da poco era nata infatti una bambina: si chiama Giovanna. Cresce, sente voci che le parlano. La Francia va liberata ed è un ordine che arriva direttamente da Dio. La ragazza si trasforma in una scintilla. Intorno a lei si coagula consenso. Che va di pari passo con la stanchezza di un mondo francese spossato dai saccheggi, dalle invasioni, dalle violenze e vuole reagire. Giovanna catalizza impulsi repressi. Il Paese si riorganizza. Si riunifica. Riaffiora l’orgoglio e, con esso, il nazionalismo. Il nuovo re Carlo VII non è come il padre, pazzo, debilitato. Centralizza lo Stato. Riorganizza l’esercito, non più basandosi sulla forza della cavalleria, temporanea, fondata su rapporti feudali; ma su un’armata professionale, che cambia fisionomia, gerarchie, struttura. È un’ondata. Gli inglesi avevano vinto tutte le battaglie ma la guerra piano piano la stanno vincendo i francesi. Che, una volta per tutte, strappano agli inglesi i territori sottratti. Ci vogliono altri trent’anni. I Borgognoni, alleati degli inglesi, lasciano Parigi occupata. Cade la città di Rouen. La Normandia torna alla Francia nel 1450. Poi, è la volta del ducato d’Aquitania. A Castillon, l’ultima battaglia, che spinge gli inglesi fuori dalla Francia. Cui resta solo Calais.
È il 1453. La guerra è risolta? Forse. Non c’è nessun trattato di pace che ne ratifichi la conclusione. Da una parte e dall’altra si teme — o si spera — che sia solo un intervallo, come è già accaduto in passato. Invece no. In Inghilterra, si capisce che è finita. Reduci e volontari tornano a casa, delusi, amareggiati. Serpeggia lo scontento. Il sogno di una grande monarchia appare spezzato, dopo cent’anni di una guerra assurda, finita nel fango della sconfitta. Chi si incolpa? L’incapacità del re, Enrico VI. E di chi gli sta intorno, inadatto a governare e, soprattutto, a guidare il contrattacco sul suolo francese. Sono questi i primi imputati nel tribunale pubblico del Paese: il re e chi lo circonda.
L’Inghilterra appare instabile. Legge e ordine sono allo sbando. L’economia in crisi. Non c’è niente da fare: gli effetti della guerra persa pesano, e pesano parecchio. Essi si percepiscono e si trasformano da mormorio in rivolta. Già era successo nel 1450. Con ribellioni violente, guidate spesso dai reduci. Ma è ancora niente. Il peggio è dietro la porta. Quando nel ’53 arrivano le notizie della sconfitta finale, re Enrico VI ha un definitivo crollo psicologico. È catatonico. Sembra diventato d’un tratto demente. Interviene come reggente Riccardo di York, il Lord protettore. Ma il re, dopo un po’, si riprende. Tuttavia, non basta. Lo scontento aumenta: e se ne fa portavoce proprio Riccardo, contro la legittima casata dei Lancaster.
È il 1455 e si scatena il contrasto tra i lignaggi dei Lancaster e degli York. Entrambi si sentono legittimati al potere, per stirpe, dinastie, sangue. Gli uni rinfacciano agli altri errori, impreparazioni, prevaricazioni, arbitrii. Le parole si trasformano in dissidio e poi in guerra aperta, delle due rose: quella rossa, simbolo degli York, e quella bianca dei Lancaster. Guerra terribile e fratricida, forse la peggiore che si sia combattuta su suolo inglese, tra due casate potentissime che aggregano dietro di sé un mondo eteroclito che coinvolge tutti i settori sociali. Dura trent’anni, con scontri cruenti. Ad esempio, a Towton, il 29 marzo 1461, sotto la neve di un’incipiente primavera, cadono circa 28 mila combattenti.
Gli York vincono, ma la partita non si chiude. Ci vorrà ancora tempo; cui si aggiungeranno gli orrori di Riccardo III, sanguinario assassino di parenti, per smuovere una reazione. Che si focalizza intorno al carisma del conte di Richmond, Enrico Tudor che, con l’aiuto di due tra i più importanti nobili inglesi, il conte di Derby e il conte di Northumberland, riesce a sconfiggere Riccardo a Bosworth, nel 1485. Il dissidio tra le due rose è composto — rosa bianca e rosa rossa possono fondersi nel nuovo simbolo della casa regnante dei Tudor. Quando termina il conflitto, si conclude anche la storia dell’Inghilterra medievale, della sua lunga guerra continentale e delle sue aspre rivalità tra membri della nobiltà. E si apre la stagione di un Regno che troverà con Elisabetta I (e con Shakespeare) la sua età dell’oro.

Repubblica 30.9.18
Quando Gauguin vide gli alberi diventare blu
Al Palazzo Zabarella di Padova i capolavori della collezione danese Ordrupgaard. Nata all’inizio del Novecento, è considerata tra le migliori selezioni mondiali della pittura impressionista, ma non solo. Con maestri come Monet e Cézanne
di Chiara Gatti


Il paradiso non poteva attendere. Quando Paul Gauguin (1848-1903) decise di fuggire lontano da Parigi, via dalla pazza folla, sentiva l’urgenza di abbandonare una società conformista per ritrovare i ritmi di una vita incontaminata. «Parto per starmene tranquillo, lontano dalla civiltà» confessava a un giornalista nel 1891, alla vigilia del suo viaggio a Tahiti. «Voglio fare dell’arte semplice; per questo ho bisogno di ritemprare le mie forze a contatto con la natura vergine». Il mito del selvaggio, in tempi moderni, lo ha incarnato proprio questo gigante inquieto della pittura francese di fine secolo che, per il suo cuore ramingo e il fascino esotico dei suoi feticci di pietra o delle veneri nere, è diventato leggenda. Non stupisce che Wilhelm Hansen, uomo d’affari di successo e collezionista oculato, abbia concentrato su Gauguin il suo sguardo più attento.
Vide forse in lui il talento dell’outsider, il genio imprevedibile in grado di scandalizzare i borghesi, salvo poi incassare consensi e picchi di mercato che, da finanziere inossidabile, fiutò a distanza. Questo spiega la presenza ampia di opere di Paul Gauguin all’interno del preziosissimo fondo di Hansen, finito, dopo la sua morte nel 1936, nelle sale dell’Ordrupgaard Museum, a nord di Copenaghen.
Considerata una delle più importanti raccolte di arte impressionista in Europa, la collezione approda ora al Palazzo Zabarella di Padova per la grande mostra “Gauguin e gli impressionisti” (fino al 27 gennaio, catalogo Marsilio), a cura di Anne-Birgitte Fonsmark, che allinea sessanta capolavori firmati da autori come Manet, Degas, Monet, Renoir, Sisley, Pissarro, Cézanne, Matisse. L’arco di tempo è ampio e parte da un antefatto che affonda nel neoclassicismo di Ingres e nel romanticismo di Delacroix per spiegare le origini della modernità francese. Risalendo il secolo si comprende il debito degli impressionisti verso la verità e la luci dei loro padri putativi. Corot aveva insegnato a tutti che il vento ha un colore e che può essere dipinto. «Il bello dell’arte – diceva – è la verità bagnata dell’impressione che abbiamo ricevuto di fronte alla natura». Inutile dire che Monet pensava a lui quando inseguiva le atmosfere cangianti delle Cattedrali di Rouen, mentre Renoir e Sisley passeggiavano per la foresta di Fontainebleau per respirare (e restituire sulla tela) gli stessi umori di Dupré e Daubigny. Passaggi di testimone da una generazione all’altra. La lezione eterna di Courbet, incantevole demiurgo di una fauna che palpita nel sottobosco, in un brano straziante come L’inganno, episodio di caccia al capriolo, torna vitale nel
Paesaggio a Pont- Aven che Gauguin dipinse nella primavere del 1888, mostrando i primi segni di insofferenza e necessità cocente di andarsene dalla città, acuiti da una prima e fugace trasferta a Martinica. «Amo la Bretagna. Vi posso trovare ciò che è selvaggio e primitivo» scriveva a un amico con eccitazione. «Quando i miei zoccoli risuonano sul granito, riesco a sentire quel tono soffocato, cupo e vigoroso che cerco nella mia pittura». Qui, però, l’erba era ancora verde, i tronchi bruni, il cielo celeste. E soffiava sempre il vento fresco di Corot.
Tempo pochi mesi, complice l’influenza di Vincent van Gogh, che Paul raggiunse in Provenza nella famosa Casa gialla di Arles per coinquilini litigiosi, la sua tavolozza cambiò magicamente colore. Alberi blu. Verrà il tuo turno, bellezza! dice tutto sullo shock emotivo che lo colpì come uno schiaffo. La natura si tinse di sfumature allucinate nei suoi paesaggi visionari. «Dal fatto che un paesaggio presenti dei tronchi d’albero blu e un cielo giallo, si conclude che Monsieur Gauguin non possieda il più elementare senso cromatico» ironizzava un critico del Salon des Vingts. Era l’inizio del viaggio. Prima di ripartire per le isole, il suo spirito già fluttuava libero su territori della mente che portano gli occhi a guardare in profondità. Paragonando il suo lavoro in mostra a quello dei colleghi che lo accostano, si capisce perché la figura di Gauguin suturi il confine sottile fra impressionisti e avanguardie, fra i giardini profumati di Pissarro e i fiori irreali di Matisse che diceva «la verità intima è l’unica che conta». E non c’è nulla di più intimo, per Gauguin, di quel suo viaggio à rebours nel paradiso degli idoli, dove riaffiorano pulsioni rimosse, immaginari infantili, rapporti materni, sensualità e nostalgia. Il mondo visto da dentro. La Donna Tahitiana del 1898, stilla passione e angoscia nel rosso ematico del selciato. Non a caso, è la stessa donna che compare di spalle ai margini del suo celebre testamento spirituale (custodito al museo di Boston), manifesto assoluto dei suoi rovelli sul destino dell’uomo; e che ha un titolo universale Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?

Il Sole Domenica 30.9.18
Muhammad Yunus. La ricetta del Premio Nobel è preziosa in un momento di fragilità economica e politica
Combattere gli squilibri. Con successo
Un mondo a tre zeri. Come eliminare definitivamente povertà, disoccupazione e inquinamento
Muhammad Yunus con Karl Weber Feltrinelli, Milano, pagg. 254, € 17
di Mauro Campus


Una sensazione più di altre rimane alla fine della lettura di questo lavoro dell’economista bengalese Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace nel 2006. Si tratta della necessità – direi dell’indispensabilità – di cambiare angolo visuale quando si ragiona delle soluzioni per affrontare l’attuale (pessimo) stato di salute del capitalismo. Un cambio più che mai urgente, considerati i guasti e le torsioni nella produzione e distribuzione della ricchezza che il mercato abbandonato a sé stesso ha prodotto. Danni le cui conseguenze hanno scardinato la fiducia nei confronti dei tradizionali sistemi politici occidentali, che sono parsi protesi alla difesa del “sistema” piuttosto che a coglierne e rettificarne le debolezze strutturali e le abnormi anomalie.
La conservazione di uno stato di per sé comodo poiché noto e percepito come dogma ha definito parti crescenti del discorso dell’establishment occidentale, aprendo spazi enormi a chi anche nella maniera più grossolana ed elementare – emblematici i casi del nazionalismo di destra o la vittoria di Trump – si è presentato all’elettorato come forza antisistema.
Yunus non dà un giudizio di merito sulla deriva populista che ha travolto certezze che parevano incrollabili e come un’epidemia ha raggiunto un numero inimmaginabile di adepti. Si limita a inscrivere la bancarotta della “politica moderata” nel novero delle vittime del capitalismo contemporaneo. La ragione di quello che può apparire un espediente retorico – poiché le forze antisistema sono assai diverse e operano in contesti multiformi – è presto detta: quella politica non è stata in grado di confrontarsi dialetticamente con il sistema nonostante i danni prodotti dallo stesso lievitassero senza tregua. I numeri dell’anomalia nella quale vive l’economia di mercato contemporanea sono conosciuti. Ma ogni volta che si ricorda quanto la forbice della diseguaglianza continui a divaricarsi e che oggi otto individui possiedono una ricchezza pari a quella di circa 3,6 miliardi di persone, non si può fare a meno di pensare che le non-regole che hanno consentito tale situazione non siano al servizio del bene comune. In realtà è il capitalismo, nella forma anarchica definitasi negli ultimi trent’anni, che si è dimostrato inefficiente a limitare il dramma dell’impoverimento e della marginalizzazione delle classi medie occidentali, i quale sono solo una delle facce di una disuguaglianza che erode la tenuta delle conquiste democratiche degli ultimi secoli. Così come lo è l’angosciosa distanza maturata da oltre i 2/3 della Generazione Y, i millennials, nei confronti della versione attuale del liberal-capitalismo. Ma il dissenso nei confronti del sistema nel quale viviamo sembra destinato solo a crescere, se è vero che la tenuta del welfare divenuto universale nel secondo dopoguerra in Europa occidentale appare sempre meno sostenibile davanti a una realtà che vede in costante restringimento la platea degli attori economici con capacità di incidere in un sistema dominato da pochissimi pachidermi che camminano su una moltitudine di formiche. Mai come oggi l’esplosività di questa realtà è apparsa pericolosa e a tratti irreversibile, specie se confrontata con la desolante miseria delle ricette che la politica è riuscita ad attuare anche davanti alla crisi detonata nel 2008.
Le soluzioni – suggerisce Yunus – risiedono nella ridiscussione di alcuni assunti basilari della teoria dell’equilibrio generale che ha qualificato l’essere umano capace di compiere solo scelte ottimizzanti, governato dal desiderio di essere dipendente e non imprenditore e come incapace di altruismo. Uno spostamento di prospettiva che metterebbe in discussione l’architettura del sistema di idee neoclassico pervicacemente difeso da alcuni sacerdoti dell’infallibilità della mano invisibile, a proposito della quale l’economista bengalese si limita a notare quanto poco abbia servito gli interessi della comunità.
Gli argomenti portati a sostegno di quelle che solo una caparbia dabbenaggine potrebbe liquidare come bonarie utopie di un visionario sono legati a esperienze concrete prima ancora che a una generica fiducia nel genere umano e nella sua capacità di sovvertire un ordine inceppato. In primo luogo la diffusione e il funzionamento del sistema di microcredito attraverso la Grameen Bank – un istituto indipendente che presta senza garanzie – fondata 41 anni fa proprio dal Nobel bengalese per favorire l’avvio di attività imprenditoriali femminili. Una realtà solida e diffusa in migliaia di villaggi, che vanta un tasso di restituzione dei crediti di oltre il 99 per cento. Dal 1977 il sistema inventato da Yunus ha fatto il giro del globo, finanziando anche imprese gestite da donne negli Stati Uniti e servizi sociali nelle zone più povere della Francia. È questa l’esperienza attraverso la quale Yunus fonda il suo argomento che l’essere umano non può essere ridotto all’idealtipo attribuitogli dal modello neoclassico.
Il “mondo a tre zeri” dell’economista è una “Città del Sole” nella quale non esistono né disoccupazione, né povertà, né inquinamento. Tre cose apparentemente non legate fra loro, ma in realtà problemi che egli connette all’inefficienza del mercato e che in alcuni casi sono stati affrontati con serietà in contesti che apparivano resistenti al cambiamento. È il caso della Conferenza sul clima di Parigi del 2015, che ha rappresentato un passaggio epocale nell’ammissione di quanto l’inquinamento minacci l’esistenza umana. Ed è forse proprio qui il punto maggiormente innovativo dell’analisi di Yunus: nel riconoscimento che l’esperienza umana non può essere rinchiusa a una elementare e frustrante vita di consumi e di sopravvivenza all’interno di uno schema indiscutibile.
Non è possibile adeguare politiche e sviluppare strategie legate solo al mantenimento dello status quo registrando le contrazioni o le espansioni del Pil, e a esse adeguando il futuro del genere umano. Sono queste le pagine nelle quali Yunus riconcilia la scienza economica con la sua origine e con la sua ragion d’essere: una scienza sociale che si deve occupare del benessere dell’uomo e che può essere matematizzata o archetipizzata solo se riesce a rispondere al bisogno di inclusione e partecipazione dell’essere umano. Si tratta di una lezione che difficilmente potrà essere seguita se non sarà percepita come desiderabile, e potrà attuarsi solo se le generazioni che oggi si stanno formando avranno la possibilità di realizzare un sistema alternativo (o complementare) rispetto a quello che oggi trovano insopportabile.
Confidare nel contributo di chi il mondo lo può cambiare davvero non è da inguaribili sognatori e ingenui pacifisti: si tratta di un compito non più rimandabile che spetta soprattutto ai sistemi d’istruzione, i quali appaiono invece troppo spesso narcotizzati dalla ripetitività manichea dei modelli in cui si sono autoimprigionati.

Il Sole Domenica 30.9.18
Divina Commedia. La ricerca delle fonti teologiche di alcuni passi del Poema
A caccia di diavoli nell’Inferno dantesco
I Diavoli nell’inferno di Dante. Con altri studi danteschi Marco Chiariglione, Spoleto Fondazione Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, pagg. 265, € 34
di Tullio Gregory


Come è noto – o meglio era noto fin quando i programmi scolastici prevedevano un’ampia lettura della Commedia – Dante, superata la porta dell’Inferno ma non varcato ancora d’Acheronte, la «triste riviera» che segna l'ingresso nel «profondo Inferno», incontra una folla di angeli decaduti e di anime: gli angeli («cattivo coro») collocati in questo luogo perché «non furon ribelli né fur fedeli a Dio, ma per se fuoro», le anime invece sono quelle di quanti «visser sanza ’nfamia e sanza lodo». Dunque angeli e anime che non ebbero mai il coraggio di scegliere: non degne neppure del profondo Inferno, ma in quello che fu poi detto vestibolo o antinferno, in una «aura sanza tempo tinta», nell’oscurità di un «aere sanza stelle».
I versi sul «cattivo coro de li angeli» sono stati oggetto di studio da parte di tutti i maggiori dantisti, anche per la difficoltà di trovare fonti dirette della dottrina dantesca, soprattutto per la collocazione di quegli angeli caduti, non con i seguaci di Lucifero in aere caliginoso attorno alla Terra, bensì nel vestibolo dell’Inferno; non più degni dei cieli («per non esser men belli»), ma neppure del profondo Inferno «ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli». Per la loro mediocrità e indecisione, per la loro viltà sono uniti alle anime di uomini «a Dio spiacenti e ’a nemici sui», «sciaurati» che «mai non fur vivi», fra i quali Dante intravede anche «l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto», papa Celestino V che nel 1294 aveva rinunciato al papato. Sono versi che manifestano tutto il disprezzo di Dante per uomini dalla vita cieca e bassa che hanno vissuto senza lasciare alcun segno compiendo scelte precise: «fama di loro il mondo esser non lassa». Di qui il monito di Virgilio: «non ragioniam di lor, ma guarda e passa».
Sulle varie ipotesi avanzate relativamente alle possibili fonti di Dante – nella letteratura teologica e nelle tradizioni popolari – si sofferma ampiamente, proponendo anche nuove letture e accostamenti, Marco Chiariglione nel volume I diavoli nell’Inferno di Dante pubblicato dal prestigioso Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, dedicato prevalentemente ai versi ricordati del III canto dell’Inferno, ma anche a molti altri problemi di demonologia e critica dantesca.
Non è qui possibile seguire tutti i suggestivi percorsi di Chiariglione: ci limitiamo a due “curiosità” teologiche e storiografiche di grande rilievo sulle quali l’autore richiama la nostra attenzione. Non solo il tema – presente nella cultura medievale – di angeli rimasti ‘sospesi' fra Dio e Lucifero, ma il tema (assente in Dante) del riposo concesso ad alcuni diavoli, non sappiamo a quanti e perché. Si potrebbe porre il problema ai pochi teologi che si occupano ancora di diavoli o forse anche ai più autorevoli sindacalisti: sta di fatto che più volte uomini pii incontrano diavoli in vacanza nei giorni festivi. Persino un peccatore come Giuda ha acquisito questo diritto al riposo settimanale. Lo incontra infatti San Brendano nella sua Navigatio di cui è uscita recentemente un’ottima edizione critica con traduzione a fronte a cura di Giovanni Orlandi e Rossana Guglielmetti presso la Fondazione Franceschini di Firenze. «Seduto sopra uno scoglio», alle domande di San Brendano risponde: «io sono lo sventuratissimo Giuda, il peggiore dei mercanti […]. Giorno e notte sono bruciato da una massa di piombo […]. Qui trovo il mio momento di sollievo ogni domenica, dal vespro al vespro, nelle feste natalizie fino all’Epifania, dal periodo pasquale a Pentecoste, e nei giorni della Candelora e dell'Assunta».
Miglior trattamento hanno invece quegli angeli – da alcuni critici indicati fra i parenti prossimi del cattivo coro dantesco – alle domande di San Brendano rispondono: «siamo parte della grande rovina dell’antico nemico, ma non peccammo o concordammo con lui: ma quando fummo creati, con la caduta sua e dei suoi complici avvenne anche la nostra rovina […]. Andiamo errando in diverse zone dell’aria, del firmamento e della Terra, come altri spiriti messaggeri; ma i giorni festivi e le domeniche assumiamo le forme corporee che tu vedi [hanno sembianze di uccelli bianchissimi], dimoriamo qui e cantiamo le lodi del Creatore».

Il Sole Domenica 30.9.18
In questi tempi di sparizioni, oltre a videocassette, ghiacciai, capelli cotonati e pomodori che sanno di pomodoro, è sparita anche la scuola. Nessuno ne parla più
C’è la mela al gusto di mela?
di Paola Mastrocola


Sono tempi di sparizioni. Sono spariti da un po’ i pomodori col gusto di pomodoro, come aveva scritto Pietro Citati (anche le mele col gusto di mela, per quel che ne penso io). Sono sparite le videocassette, le sarte, il teatro radiofonico, i capelli cotonati, la lacca. Spariscono sempre più i generi letterari, le spiagge (mangiate dal mare), i ghiacciai (mangiati dal caldo). Spariranno forse a breve anche i libri con tutti gli annessi: scrittori, editori, librerie e biblioteche.
E la scuola, è sparita?
No di certo: essendo settembre, è ricominciata.
Sembrerebbe sparita, però. Non se ne parla più. Non se n’ è mai parlato così poco, direi. Silenzio assordante. Da mesi e mesi, nel perenne stato di propaganda politica pre e post elettorale in cui viviamo, nessun candidato o leader dei vari movimenti o partiti ha mai fatto nemmeno un accenno, fuggevole, magari per errore, al tema scuola. A parte l’ ex ministro Calenda, che ha più volte nominato in pubblico, mostrando grande coraggio, le parole istruzione, libri, lettura e, qua e là, persino la parola cultura. Eroico. Ha tutta la mia ammirazione. È l’ unico, mi pare. Per il resto, tema completamente sparito. Non era nelle priorità per il paese, non era nell’ agenda dei politici.
E, visto che i politici oggi fanno politica seguendo i like dei loro follower, dovremmo a malincuore dedurne che il tema scuola non interessa agli italiani, cioè a nessuno di noi. Può darsi. O a ben pochi, una componente elettorale tanto irrisoria che si può benissimo ignorare. Sì, è possibile che la maggioranza mandi i figli a scuola per una sorta di inerzia sociale e la consideri di fatto un’ incombenza (nel senso che incombe) inutile e uggiosa nella vita dei figli, qualcosa di cui non vale più la pena nemmeno di parlare. Altri i temi scottanti del dibattito, televisivo e non, tutti economici, o al più moraleggianti: le tasse, le pensioni, la disoccupazione, lo spread; gli immigrati, gli sbarchi, l’ accoglienza, le ONG.
Ma è settembre, e la scuola, come sempre, è ricominciata. Che dire?
Non sono più un’ insegnante in servizio, e guardo ormai la scuola da una lontananza siderale. Per esempio, conosco poco le ultime novità, solo per sentito dire, non avendole esperite: il registro elettronico, l’ alternanza scuola-lavoro, i cambiamenti dell’ esame di maturità. Ma il tema mi sta sempre molto a cuore. Parlarne può essere di una sconcertante inutilità, lo so. Soltanto parole. Ma il non parlarne è il segno di una battaglia persa per sempre. Le parole non sono irrilevanti, se usate non a vuoto. Le parole sono idee. E senza idee si muore. Dunque, che il mio Paese non abbia più parole, e idee, sulla scuola mi fa un’ enorme tristezza. Difficile fondare o rifondare qualcosa se non si parte dall’ istruzione, dai libri, dallo studio, dall’ esercizio del pensiero. Difficile far andare avanti il mondo se non si pensa a coltivare le menti degli esseri umani fin dalla loro tenera età. Età scolastica, appunto.
Ci sarebbe molto da dire, soprattutto se la scuola così com’ è oggi non ci piacesse, se fossimo animati da qualche dubbio sull’ ondata tecnologica, per esempio, o sulla dittatura dei test a crocette, e se volessimo che la scuola tornasse a essere un ascensore sociale, che muove i giovani dai piani bassi dove per nascita la sorte li ha collocati, ai piani alti dove un più alto livello di studi potrebbe farli arrivare. Sì, ci sarebbe molto da dire e molto lavoro da fare. Forse si potrebbe pensare, una buona volta, di cambiare drasticamente rotta...
Ma adesso, quest’ anno per la prima volta, mi coglie una preoccupazione nuova. Ho letto sui giornali che alcuni insegnanti vogliono fare politica a scuola: insegnare l’ antirazzismo, per esempio. L’ antifascismo, l’ antibullismo… La solidarietà, la convivenza civile, la democrazia...
Grandi valori, non c’ è dubbio. Lodevoli propositi. Ma… Avrei qualche non piccola obiezione. Per dire, non credo che l’ antirazzismo si possa «insegnare», ecco. L’ amore, la generosità, il rispetto, l’ altruismo non s’ insegnano. Non funziona in modo così scoperto, letterale, diretto. Non riesco a immaginare corsi per far innamorare qualcuno, o per convincerlo a convivere amorevolmente con una persona di altro colore e di altra cultura. Cioè, non è dicendo che non bisogna essere razzisti, e dicendolo con apposite conferenze di esperti, convegni psico-sociologici o prediche più o meno laiche, che otterremo che la gente non sia razzista. Credo anzi che la lezione morale, inevitabilmente retorica e pedante, possa addirittura in certi casi suscitare l’ effetto contrario. Pinocchio, ricordiamolo, prende a martellate il Grillo Parlante.
Capisco la solitudine degli insegnanti, sempre più abbandonati a se stessi, ricattati dalla maleducazione di genitori e allievi, impigliati nella rete frustrante della burocrazia e nella rete tout court, dilacerati tra programmi vetusti e meravigliosi nuovi metodi, nonché ripetutamente gettati nei pentoloni bollenti dei corsi di aggiornamento. Capisco ancor di più che oggi gli insegnanti, di fronte alla decadenza culturale, morale e politica dell’ intero nostro Paese, si sentano animati da nobili propositi educativi e vogliano in qualche modo dirigere al meglio gli animi. Migliorare l’ umanità, cambiare il mondo, eccetera…
Ma far politica nelle scuole siamo sicuri che sia la via giusta?
Ho fatto il liceo negli anni ’ 70, e li ho visti da vicino gli insegnanti cosiddetti «politicizzati». Arrivavano in classe come sul piede di guerra, e accantonando libri e registri cominciavano, infervorati, le loro concioni quasi fossero in piazza con le bandiere. Ne ho avuti alcuni che per tutto il triennio del liceo classico non hanno quasi mai (direi mai, affidandomi ai miei ricordi, ma non vorrei esagerare) fatto lezione. Voglio dire che per tre anni non hanno insegnato la loro materia!
Credo che ritenessero d’ aver ben altri compiti, che quello di spiegarci le guerre puniche, le teorie kantiane o le formule di prostaferesi. Troppo banale, semplice, irrilevante. Avevano materie più scottanti di cui parlarci: la Cina di Mao, i Khmer rossi in Cambogia, gli scioperi, i picchetti, le assemblee, la lotta operaia, gli scontri con i picchiatori fascisti. Probabilmente ritenevano, in buona fede e in ottemperanza alle loro più profonde convinzioni, che fosse molto più importante discutere di attualità e agitare le coscienze, che non insegnare nozioni ai loro occhi vetuste, astratte e atemporali, di matematica, filosofia o storia dell’ arte. Hanno preferito fare politica, piuttosto che fare scuola. Usando inevitabilmente parole faziose, non neutre, non imparziali, per influenzare, per plasmare. Per indottrinare!
Non li ho mai perdonati. Perché non è vero che poi, negli anni, uno se le studia comunque, se vuole, le materie che non ha fatto a scuola. Non è vero. Quelle materie per me sono state perse per sempre, un buco irreparabile, una ignoranza che mi ha accompagnato tutta vita, sicuramente impoverendola.
Forse gli insegnanti dovrebbero limitarsi a far lezione. Ma dovrebbero farlo pensando che non sia una limitazione, anzi, dovrebbero pensare che il loro più vero impegno «politico» sia proprio questo: non privare i giovani della cultura, dar loro il massimo delle conoscenze, e al livello più alto possibile, perché questo li renderà «umani».
Le parole di Inge Feltrinelli mi giungono da un’ intervista televisiva, in questi giorni tristi dedicati al suo ricordo: «I libri non sono per imparare, per studiare. Sono per la vita». Non saprei dirlo meglio. La vita di una persona, in tutta la sua pienezza e complessità, nutrita dai libri, dal sapere che diventa possesso personale, unico. Allora sì, in questo senso, la cultura rende davvero umano un essere umano. La cultura scolastica prima di tutto, che è quella che si acquisisce lentamente, negli anni dell’ infanzia e giovinezza. Studiando, sì, le «materie». Storia, geografia, fisica, arte, matematica, letteratura, chimica, filosofia. Dante, Keplero, Mozart, Van Gogh, Freud, Einstein… È leggendo i libri, è attraverso le opere dei grandi, scrittori, scienziati, artisti, che da studenti impariamo i valori più nobili. Ed è facendo lezione che, da insegnanti, incidiamo nella mente dei ragazzi, insegniamo loro – ma in modo indiretto! - a essere rispettosi, generosi, altruisti, misericordiosi… E non razzisti! Senza bisogno di parole dirette, faziose, predicanti. Parole troppo «piccole», anguste, limitate: ancorate soltanto alla contingenza del presente.
La cultura apre a orizzonti temporali ben più vasti. È spazio senza confini. È parola non faziosa e non attuale. È libertà assoluta di pensiero.
E la poesia, esiste ancora?
Sì, esiste. Non è vero che è morta. Si pubblicano ancora libri, ci sono collane, editori, autori. E ci sono premi, convegni, persino festival di poesia.
Dunque la poesia esiste.
Sì. Ma mi viene da pensare ai fuochi che si facevano in campagna per bruciare i legni, gli sterpi, i vari rimasugli di una vita contadina, che così come produceva, sapeva anche distruggere il superfluo, il pattume. Ora non c’ è più la vita contadina, e comunque i fuochi in campagna sono proibiti. Ciò nonostante ogni tanto qualcuno che abita in campagna, o un po’ ai lati delle periferie, non sapendo cosa farne delle foglie secche, dei rami potati, accende un grosso fuoco. Magari verso sera, o all’ alba di certi giorni particolarmente nebbiosi, perché siano poco visibili, perché nessuno se ne accorga.
Così è per la poesia. Non ci sono più le condizioni per cui si possa produrre poesia; non ci sono più lettori, per esempio. E forse non ci sono nemmeno più poeti; poeti grandi, dico, riconosciuti come tali. Ma qualcuno resiste, ai margini; qualche poeta sparuto, grande o piccolo lo sapremo poi o non lo sapremo mai, che se ne vive appartato e che quasi di nascosto scrive i suoi versi che chissà mai chi leggerà. Una o due poesie, o anche un librino vero, se ha fortuna di pubblicarlo, se trova un editore: allora fa un giretto sul palco di qualche festival e magari vince anche qualche piccolo premio.
Ne parlo con una mia grande amica, con cui ho condiviso studi e passioni letterarie per tutta la vita. Prendiamo un caffè, qualche giorno fa, e le chiedo che ne è della poesia, secondo lei, cosa fanno oggi i poeti.
Ci pensa un po’ . Mi guarda con i suoi occhi piccoli e scuri, un po’ triangolari, poi risponde:
- Vanno a capo.
Folgorante. Già. La poesia è andare a capo a ogni verso. Ma se diventa soltanto andare a capo?
Non diciamo più niente. Lei mi sorride, io le sorrido. E ci finiamo il caffè.
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