domenica 14 ottobre 2018

«il coltello dalla parte del manico...» ma era del tutto prevedibile!

La Stampa 14.10.18
Addio al modello Riace. Salvini: via gli stranieri
Duecento immigrati trasferiti dal centro calabrese esempio di accoglienza Imbarazzo nel M5S. Il sindaco: vogliono distruggerci. Il Pd: deportazione
«Troppe irregolarità, sarà di esempio per altri, stop a tutti i progetti di accoglienza». Duecento immigrati saranno trasferiti dal centro calabrese
di Amedeo La Mattina


I migranti accolti nei centri del Comune di Riace verranno trasferiti. La decisione choc arriva nel tardo pomeriggio e scuote il mondo politico. Tante e gravi le irregolarità che il Viminale mette alla base della sua decisione: 34 i punti di penalità accumulati, dal mancato aggiornamento della banca dati del Servizio centrale del ministero dell’Interno, alla mancata rendicontazione dei fondi, fino all’erogazione dei servizi a favore di soggetti diversi da quelli ammessi. E ancora: mancata rispondenza tra i servizi descritti nella domanda di contributo e quelli effettivamente erogati; assenza delle condizioni igieniche e permanenza dei migranti nei centri di Riace oltre i tempi consentiti.
Ventuno pagine in cui il ministero dell’Interno spiega perché il modello di Riace è arrivato al capolinea e chiede all’amministrazione comunale di rendicontare entro 60 giorni le spese sostenute.
Al Viminale ci tengono a spiegare che lo stop al progetto di accoglienza del comune calabrese non è un atto politico, ma l’applicazione rigorosa di criteri amministrativi che nulla hanno a che fare con i giudizi di Matteo Salvini come leader della Lega. Come la pensa il vicepremier su quell’esperienza è noto a tutti, con tutto quello che ne è conseguito in termini di polemiche scoppiate dopo gli arresti domiciliari del sindaco Domenico Lucano. La tempistica dei fatti e la coincidenza con il procedimento penale a carico del sindaco aprono però il caso politico che Salvini delimita nell’ambito dell’applicazione della legge. «Chi sbaglia, paga. Non si possono tollerare irregolarità nell’uso di fondi pubblici, nemmeno se c’è la scusa di spenderli per gli immigrati».
Rimane il fatto che quel modello di accoglienza e integrazione costruito da Lucano, che aveva fatto il giro del mondo (anche sulla base della disobbedienza civile come lui stesso ha ammesso), finirà con il trasferimento dei circa duecento migranti ospitati a Riace. Quell’esperienza però era stata messa sotto la lente di ingrandimento già nel 2016 con un’ispezione ministeriale. Riflettori puntati su spese «allegre» e prassi non conformi alle regole stabilite dal Viminale per istituire gli Sprar e i finanziamenti. Le ispezioni del 2016 e del 2017 condotte dal Servizio centrale e dalla Prefettura di Reggio Calabria sono avvenute nel periodo in cui al Viminale era ministro Marco Minniti. In questo periodo però non era stato concluso il procedimento amministrativo. C’erano state le osservazioni e le giustificazioni delle irregolarità da parte del Comune di Riace che alla fine non hanno convinto il ministero dell’Interno.
L’iter procedurale adesso è arrivato alla sua conclusione, con la revoca definitiva del finanziamento e il trasferimento dei migranti. Ma già nel 2018 il Comune calabrese non ha ricevuto fondi e il 30 luglio scorso il sindaco era stato avvisato della revoca dei finanziamenti, diventata ufficiale all’inizio di questa settimana.
Tanti gli aspetti tecnici della vicenda e tantissime le implicazioni politiche. Salvini non ha mai nascosto la sua avversione politica al sindaco di Riace e ha ingaggiato una ruvida polemica con tutti coloro che hanno difeso quello che lui ha sempre definito «un modello fuorilegge». «Accidenti, chissà cosa diranno adesso Saviano e tutti i buonisti che vorrebbero riempire l’Italia di immigrati», aveva detto in maniera provocatoria il giorno del provvedimento di arresto di Lucano per favoreggiamento di immigrazione clandestina da parte della Procura di Reggio Calabria. Il primo a difendere il sindaco fu l’attore Beppe Fiorello, poi arrivò il commento di Roberto Saviano: «Questo governo, attraverso questa inchiesta giudiziaria, compie il primo atto verso la trasformazione definitiva dell’Italia da democrazia a stato autoritario. Con il placet di tutte le forze politiche».
Rimane la conclusione di una esperienza, controversa, osannata e demonizzata, sulla quale il leader della Lega pensa di avere avuto la meglio. «E che servirà per esperienza per il futuro ad altri», sibila tra i denti Salvini.

Il Fatto 14.10.18
“Irregolarità”, così il ministro Salvini sgombera Riace
Accoglienza - Approfittando dell’inchiesta sul sindaco, il Viminale dispone il trasferimento entro 60 giorni degli ospiti dello Sprar
“Irregolarità”, così il ministro Salvini sgombera Riace
di Lucio Musolino


Matteo Salvini mette la sua firma sulla distruzione del “modello Riace”. A due giorni dal Riesame chiamato a decidere sui domiciliari disposti dal gip su richiesta della Procura di Locri che ha indagato il sindaco Mimmo Lucano per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno ha disposto il trasferimento dei migranti ancora ospiti nello Sprar di Riace.
Con la circolare del 9 ottobre, quindi, il Viminale azzera un modello di accoglienza dei migranti riconosciuto tale in tutto il mondo. Attraverso la Direzione centrale dello Sprar, infatti, il ministero di Salvini conferma quanto già contestato a fine luglio senza considerare le controdeduzioni con le quali il Comune calabrese si era opposto ai 34 punti di penalità per il “mancato aggiornamento della banca dati” gestita dal Servizio centrale, la “mancata rispondenza tra i servizi descritti nella domanda di contributo e quelli effettivamente erogati”. Ma anche la “mancata applicazione di quanto previsto dalle linee guida”, una riscontrata “erogazione dei servizi finanziati dal Fondo a favore di soggetti diversi da quelli ammessi all’accoglienza” e, infine, “la mancata presentazione della rendicontazione”.
“Il provvedimento è abnorme”. Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Asgi, non ha dubbi. È lui che, assieme al presidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (l’avvocato Lorenzo Trucco), ha scritto le controdeduzioni oggi cassate dal ministero dell’Interno.
“Leggendo il provvedimento di revoca – spiega Schiavone – pare che il progetto non abbia erogato il servizio di assistenza ai migranti. Questo non è vero perché i servizi li ha erogati. Ci sono state solo delle mancanze amministrative formali che non giustificano un’applicazione di penalità sproporzionata. Non c’è proporzionalità tra la sanzione che viene data, la revoca del progetto e le irregolarità riscontrate. Qui si scopre con l’evidenza politica di dover a tutti i costi dipingere Riace come il luogo peggiore dell’accoglienza in Italia. Personalmente credo che ci sia uno sfondo politico a questo provvedimento. Credo ci sia anche tanta piccolezza della burocrazia che guarda con grande dedizione alle procedure e molto poco alla sostanza. È una storia che indica pure come parte del sistema di protezione italiano, nel corso del tempo, sta perdendo le qualità per le quali è nato, cioè dare un futuro alle persone”.
Ventuno pagine con cui, di fatto, il responsabile della Direzione centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’Asilo, Daniela Parisi, revoca “i benefici accordati” al Comune di Riace con il decreto ministeriale del 21 dicembre 2016.
Questo comporta “la definizione dei rapporti contabili e per l’eventuale recupero di contributi già erogati”. Il Comune di Riace potrà ricorrere al Tar chiedendo una sospensiva del provvedimento di revoca. Questo fermerebbe tutto in attesa della sentenza dei giudici amministrativi. Ma il ministero di Salvini sembra voglia giocare d’anticipo. Ieri sera, infatti, fonti del Viminale hanno fatto sapere che i migranti verranno trasferiti già dalla settimana prossima e nel giro di un mese dovrebbero essere ricollocati in altri centri. Cosa faranno in questo mese non è dato saperlo. Non una data e nessuna spiegazione sulla procedura di trasferimento. A questo punto, in qualsiasi momento la prefettura di Reggio potrà inviare i camioncini della polizia di stato a Riace per “prelevare” i migranti e portarli chissà dove.
“Vogliono soltanto distruggerci”. Dalla sua abitazione, dove sta scontando i domiciliari, Mimmo Lucano si sfoga: “Nei nostri confronti è in atto ormai un vero e proprio tiro incrociato. I nostri legali, comunque, stanno già predisponendo un ricorso al Tar contro la decisione del Viminale”.
“Chi sbaglia, paga”. Salvini gira il coltello nella piaga e replica al sindaco di Riace: “Non si possono tollerare irregolarità nell’uso di fondi pubblici, nemmeno se c’è la scusa di spenderli per gli immigrati”.

La Stampa 14.0.18
Senza tregua l’offensiva dei populisti
di Massimiliano Panarari


«Guai ai vinti». Ai neopopulisti, si sa, piace molto indossare virtualmente le vesti (o le pelli) dei neobarbari antisistema (anche se sono diventati il nuovo sistema), e quindi la frase che Tito Livio attribuisce al capotribù dei galli senoni Brenno pare calzare a pennello all’affaire Riace. Dopo l’arresto del sindaco Domenico Lucano (il «vinto» di questa guerra), la decisione del ministero dell’Interno di trasferire i migranti ospitati nello Sprar del Comune rappresenta un’ulteriore picconata inferta al paradigma di accoglienza e integrazione per antonomasia nell’Italia spazzata dal tornado populista.
La demolizione del «modello Riace» che, da fiore all’occhiello per i precedenti esecutivi di centrosinistra si è tramutato non solo nella pagliuzza, ma nell’autentica trave nell’occhio del «governo del cambiamento» del condominio Lega-Movimento 5 Stelle. Ancor più, vien da dire, al cospetto della metamorfosi della prima dalla fase bossiana del «celtico» e «gallico» partito macroregionale settentrionale a quella odierna in cui si sta strutturando come formazione politica nazionalpopulista e nazionale. E che ha identificato proprio nella Calabria (dove Matteo Salvini è stato eletto senatore per via della ripartizione dei voti stabilita dalla legge elettorale) un fulcro dell’espansionismo a Sud. Un aspetto che rovescia la metafora, rendendo il piccolo paese della provincia di Reggio Calabria (vetrinizzato a livello globale) l’equivalente del villaggio gallico di Asterix che resiste all’irresistibile avanzata di consenso del cesare-zar leghista. Soltanto che in questo caso non si tratta di fantasia come nei fumetti di Goscinny e Uderzo, ma di (durissima) realtà.
Infatti l’anfibio Salvini, metà leader di partito e metà politico-celebrità con delicati ruoli istituzionali - e, soprattutto, comunicatore al 100% -, non sceglie i target in maniera accidentale. La sua campagna elettorale permanente si basa su una strategia di escalation incessante che, come da copione populista, innalza il livello dello scontro propagandistico mirando a un bersaglio (sempre più) grosso. Come appunto quello rappresentato dall’esperienza di Riace che, nella problematica e impopolare gestione delle politiche migratorie da parte del Pd e del centrosinistra, era divenuto oggetto di un riconoscimento unanime all’interno del rissosissimo mondo progressista nostrano come su scala internazionale. E, al di là dell’esito specifico (da attendere) della vicenda giudiziaria di Lucano, è evidente come il vicepremier e titolare del Viminale abbia deciso per andare allo scontro frontale con tutti i suoi nemici politici e oppositori. Salvini non fa prigionieri, e sull’onda del clima d’opinione a lui molto favorevole, persegue con incrollabile determinazione l’obiettivo di una nuova egemonia culturale. Che si sta configurando come il vero «pensiero unico», e prevede la conquista e l’espugnazione dei «territori» non allineati. Nell’accezione anche più direttamente geografica (e geopolitica): quella di occupare materialmente, oltre che simbolicamente, gli spazi delle collettività, rimuovendo gli elementi di disturbo. E pure in senso «psicogeografico», come avrebbero detto i situazionisti francesi degli Anni Cinquanta e Sessanta, perché il suolo, il territorio, la comunità sono altrettanti principi cardine del sovranismo.
Ed ecco, pertanto, che la ruspa salviniana è stata lanciata a tutta velocità contro lo Sprar di Riace. Non per nulla, l’idealtipo che Salvini vuole incarnare è quello dei siloviki, come vengono chiamati nella democratura illiberale di Putin, a cui il ministro dell’Interno indirizza costantemente parole di elogio e ammirazione. Un «uomo della forza» dal pugno di ferro (e senza guanto di velluto).

Repubblica 14.10.18
Intervista
La Garante per l’infanzia
"A Lodi calpestati i diritti dei bambini stranieri fateli tornare in mensa"
di Maria Novella De Luca


«Riammettere subito tutti i bambini alla mensa. Nessuno escluso. Non esiste che ci siano piccoli costretti a mangiare da soli, lontani dai loro compagni, perché i genitori non possono pagare la retta». Filomena Albano, magistrata, Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, è esplicita: i problemi amministrativi delle mense del comune di Lodi non possono ricadere sulla pelle dei bambini.
«La Convenzione Onu sui diritti del fanciullo, ratificata dall’Italia nel 1991, afferma che tutti i minori residenti nel nostro paese hanno pari diritti nell’accesso alla salute e al benessere psicofisico. E benessere, in questo caso, è anche poter mangiare alla mensa scolastica». Sì, perché la brutta storia di quei bimbi "non ammessi" alla tavola dei loro coetanei, così ha deciso la sindaca leghista Sara Casanova, continua a seminare sdegno e proteste. Cambiando il regolamento comunale la sindaca ha chiesto alle famiglie immigrate di produrre la documentazione sulle loro eventuali proprietà nei paesi d’origine, per verificare il diritto alle tariffe agevolate.
Escludendo, nell’attesa, dall’accesso ai pasti, ma anche allo scuolabus, circa 300 figli di famiglie immigrate.
Garante Albano, ai bimbi che non possono accedere alla mensa è stato poi imposto di mangiare il loro panino separati dai compagni. Una sorta di "apartheid" di fatto, così lo hanno definito con sdegno le opposizioni.
«Tutto deve essere bilanciato nel superiore interesse del minore. Se da una parte è giusto che il reddito di una famiglia venga accertato, per garantire un equo accesso ai servizi ed evitare abusi, è anche vero, come dicevo, che il prezzo non possono pagarlo i bambini.
Non è facile per molti immigrati ottenere i documenti dai loro paesi di origine. Ma una strada c’è».
Lei ha una proposta?
« Dovrebbe essere il Comune, tramite i consolati, a fare gli accertamenti patrimoniali sui cittadini immigrati. Con la regola però del silenzio assenso. Se entro sessanta giorni lo stato straniero non fornisce la documentazione, vale l’autodichiarazione Isee della famiglia ».
Pensi che invece oggi a queste famiglie, in gran parte indigenti, viene richiesto il massimo della retta. Un paradosso...
«Certo, è un paradosso. Per questo da Garante per l’Infanzia e da magistrata sono convinta che l’amministrazione comunale debba fare uno sforzo per riammettere subito i bambini a mensa. Evitando, ci tengo, ogni tipo di discriminazione tra scolari di una stessa classe e alunni della stessa scuola».
Ma lei crede davvero che l’amministrazione comunale di Lodi si farà carico degli accertamenti dei redditi nei paesi d’origine degli immigrati?
Paesi poveri spesso, in guerra, a volte senza nemmeno le anagrafi.
«È sicuramente più facile per un consolato dialogare con un altro consolato, che per un immigrato lasciare il lavoro e dover tornare in patria per reperire dei documenti.
Tutto questo dovrebbe essere fatto in sede di iscrizione, in modo che quando poi i bambini iniziano la scuola, le cose siano già chiare».
Non le sembra un tentativo di rendere la vita ancora più difficile ai bimbi immigrati?
«Infatti una soluzione va trovata.
Credo che sessanta giorni di tempo a dispozione del Comune siano sufficienti. Poi farà fede l’autodichiarazine patrimoniale dei genitori. Ci sono alcune famiglie che devono essere assolutamente escluse da queste richieste».
Quali, dottoressa Albano?
«Quelle titolari di protezione internazionale ad esempio».
Sono garantiti i diritti di un bambino se lo si esclude dalla mensa?
«No, non sono garantiti. Basta leggere la Convezione sui diritti del fanciullo che l’Italia ha ratificato».

Non esiste che ci siano piccoli costretti a mangiare da soli, lontani dai loro compagni, perché i genitori non possono pagare la retta Se servono accertamenti patrimoniali sui cittadini immigrati li faccia il Comune Altrimenti accetti le loro autocertificazioni
Filomena Albano
Magistrata, 49 anni, esperta di famiglia e minori, Filomena Albano è Garante nazionale per l’infanzia dal 2016

Reubblica 14.10.18
I bambini umiliati a scuola
di Chiara Saraceno


A Lodi oltre duecento bambini che frequentano la scuola di base sono esclusi dal servizio mensa, dallo scuolabus, persino dallo yogurt che viene offerto come merenda a tutti i bambini indipendentemente dal reddito, perché i loro genitori, stranieri non comunitari, non possono dimostrare la loro condizione di ristrettezze economiche non solo in Italia, ma anche nel paese di provenienza. Non basta l’Isee che certifica la loro condizione economica in Italia. Per decisione della sindaca, della Lega, devono produrre una certificazione analoga anche per il paese d’origine, anche se lo hanno lasciato da tempo o ne sono fuggiti o se le amministrazioni locali non sono in grado di fornirle. Ed anche se riescono a procurarsi una qualche documentazione, spesso a caro prezzo, per lo più non viene accolta, non perché dimostra il loro status di abbienti, ma perché non corrisponde alla certificazione italiana. Quasi che l’Isee fosse uno standard internazionale, analogo a un certificato di nascita. Per altro, questa richiesta viene fatta solo ai non comunitari. Ai genitori italiani, francesi, rumeni o polacchi basta l’autocertificazione. Nella impossibilità di produrre la documentazione richiesta, i genitori non comunitari, invece, dovrebbero pagare il prezzo intero del servizio, come se fossero abbienti, anche se il loro Isee italiano certifica il contrario. D’altra parte, è un dato ben noto che la condizione di povertà, specie al Nord, è particolarmente concentrata tra le famiglie migranti e che si trova in povertà oltre il 30% dei bambini stranieri. Sono dati basati sui comportamenti di consumo, non sul reddito dichiarato, quindi non facilmente confutabili come frutto di menzogna. Se queste famiglie potessero contare su ricchezze nascoste nel loro paese, avrebbero un livello di consumo più elevato. Al contrario, spesso devono mandare denaro nei paesi di origine, per aiutare i familiari rimasti là o ripagare per l’aiuto ricevuto quando sono partiti. In alcune scuole questi bambini vengono mandati a casa a mangiare, con buona pace del principio del tempo mensa come tempo educativo, sostenuto sia da chi difende il servizio mensa, sia da chi ne rifiuta il cibo ma non, appunto, il tempo/spazio. In altre scuole si consente di portare il pranzo da casa, che deve tuttavia essere consumato in luoghi separati, in nome di "insormontabili problemi igienici", anche in questo caso in contrasto con il principio che anche il tempo del pasto è un tempo educativo e di socialità condivisa. Quel principio che i genitori italiani no- mensa hanno fatto valere vittoriosamente in diversi tribunali. Ma non erano stranieri e non erano poveri. Questi bambini invece vengono stigmatizzati e ghettizzati con il doppio marchio di stranieri e poveri. Quanto di più diseducativo ci sia per loro e per i loro compagni, oltre che in contrasto con i principi ispiratori dei diritti internazionali dei bambini che anche l’Italia ha sottoscritto. Che cosa ne pensa il ministro della Pubblica istruzione? Tanto più che fa parte di un governo che si appresta ad un maxi condono a favore di accertati evasori su suolo italiano, talvolta molto abbienti e con tenore di vita alto, che hanno fruito e fruiscono a sbafo dei servizi pagati dalla collettività. La decisione avrà procurato sicuramente alla sindaca molti consensi tra chi pensa che l’assistenza debba andare solo agli italiani. Sospetto che tra questi ci siano anche piccoli o grandi evasori che si ritengono furbi, non indebitamente assistiti.
Chiara Saraceno, sociologa, si occupa di famiglia, disuguaglianze, povertà e welfare Tra i suoi ultimi libri "Mamme e papà" (il Mulino, 2016) e "L’equivoco della famiglia" (Laterza, 2017)

La Stampa 14.10.18
“Non narro solo il dolore dei neri ma quello di tutti”
Nata nel 1931 a Lorain, nell’Ohio, Toni Morrison è premio Nobel per la letteratura e nel 1988 con
Amatissima ha vinto il Premio Pulitzer. I suoi romanzi sono noti per i temi epici, il linguaggio raffinato e i complessi personaggi afro-americani. La scrittrice vive in una casa piena di sole vicino al fiume Hudson. «La mia scrivania non si affaccia sul fiume, altrimenti non farei nulla tutto il giorno, starei solo a guardarlo».
di Alain Elkann


Per quanto tempo ha lavorato a New York come redattrice per la Random House?
«Voglio svelare un grande segreto. Ho 87 anni, quindi non ricordo nulla! Ma mi piaceva lavorare lì con Jason Epstein, il mio “capo”. Certo, non ho mai fatto nulla di ciò che mi diceva. Non mi occupavo del lavoro di altre persone con due figli da crescere, quindi mi sono tenuta il lavoro, ma allo stesso tempo ero una scrittrice. Il mio primo libro L’occhio più blu, fu scritto nel 1970, ma avevo sempre bisogno di un reddito. I mieli libri vendevano, ma non si fanno i soldi con un bel romanzo elegante. Ci vogliono i polizieschi o le storie di sesso».
Quando scriveva?
«Mi sveglio prima del sorgere del sole. Sono brillante al mattino, ma con il passare delle ore mi spengo. Quelle sei ore prima di pranzo sono sempre state fruttuose, anche se a volte occorreva rivedere le pagine già scritte, correggerle o cancellarle».
Quando rivede le sue pagine è imparziale, come se fosse qualcun altro a scriverle?
«Sì, un’altra persona molto simile a me. Non è che sia mai stata completamente soddisfatta di quel che scrivevo. Scrivevo con una matita su carta a righe gialle. Così ci è stato insegnato, con una matita, perché l’inchiostro è un po’ arrogante, la matita indica che sai cosa stai facendo, ma sei disposto a cancellare!»
Scrive ancora la mattina presto?
«No! Mi sveglio sempre alla stessa ora, ma la mia condizione fisica è molto diversa. Scrivo di sera, alle 6 o alle 7».
E scrive ogni giorno?
«No. Penso ogni giorno. A volte riesco a buttare giù tre pagine, altre solo mezza. Non riesco a scrivere tutto quello che ho in mente».
Nei suoi libri lei descrive le difficoltà degli afro-americani?
«Sì. La difficoltà erano i bianchi. La difficoltà di essere neri era che non eravamo “persone”, eravamo “persone di colore”. Non ricordo mi rendesse infelice, ma c’era questa separazione, avevamo creato i nostri quartieri. Vivevamo sulla riva del lago Erie. C’era un parco sul lago, ma i neri non ci potevano entrare. Così abbiamo creato il nostro parco».
Tutte le minoranze vivevano momenti difficili?
«Il gruppo socialmente accettabile era quello dei bianchi di classe medio-alta che vivevano lungo il lago, e pensavano di essere re e regine, consideravano gli altri inferiori. Era un atteggiamento più degli adulti che dei bambini, perché noi andavamo a scuola tutti insieme. In quarta elementare la mia insegnante mi mise vicino a due bimbi italiani appena sbarcati perché imparassero l’inglese. Uno da grande è diventato il sindaco».
Le piace insegnare?
«Sì perché s’impara molto. Non è solo quello che dici, è quello che ti ritorna, è la conversazione. Ho appena lasciato Princeton, dove ho insegnato per sette anni».
Il suo libro più famoso èAmatissima, con cui ha vinto il Pulitzer. È il suo migliore?
« Il migliore è Jazz, non uso mai la parola jazz, ma ’l’ho costruito nel modo in cui viene creata la musica jazz. È inventivo ed è mutevole. Parla del periodo del jazz, gli Anni 20 a New York. Harlem era il posto più eccitante dell’epoca, oltre a New Orleans. Allora New York era molto alla moda. Grazie alla musica non c’era molta segregazione».
Le sarebbe piaciuto saper suonare uno strumento?
«Scrivo perché non posso suonare. Mia madre cantava sempre, aveva una bella voce, un talento naturale, senza aver mai preso lezioni. Né mia sorella né io eravamo molto dotate per il piano, quindi ci mandò a lezione».
Perché è diventata scrittrice?
«So come fare. Alle elementari mia madre disse all’insegnante di avere cura di me perché ero molto dotata per la scrittura».
Voleva essere uguale ai bianchi?
«Volevo essere la migliore, come mia madre quando cantava in chiesa. Avevo una percezione diversa di cosa significa essere ai margini della società. Ma eravamo in Ohio. In Georgia non sarebbe stata la stessa cosa. In Amatissima c’è molta sofferenza, non solo fra la gente di colore. Accade anche agli scrittori bianchi. Rievocano i luoghi più dolorosi per loro e trasferiscono quel dolore nella scrittura. Pochi scrivono storie allegre. Pensano tutti di essere Edgar Allan Poe!»
Quali scrittori ammira?
«William Faulkner è uno dei miei preferiti. Lo incontrai un paio di volte, andai persino a casa sua. Mi piaceva la sua intelligenza e e i suoi personaggi sono straordinari».
Si considera una scrittrice e basta o una scrittrice afro-americana?
«Sono una scrittrice afro-americana. Inutile nascondersi, è diverso. La qualità, la musicalità, il suono, la trama e il soggetto. James Baldwin, un altro famoso autore afro-americano ha scritto sulla vita dei neri, ma in modo diverso, mantenendo una distanza. Viveva a New York, e per uno scrittore di colore questo significava non essere recensito sul New York Times e non ricevere incarichi universitari. La persona che ha scritto la recensione del mio primo libro sul New York Times pensava non fosse al suo livello. Da allora le cose sono cambiate. Ma, quando ho vinto il Pulitzer c’è stata qualche nota negativa nella stampa».
Ha vissuto un’epoca di grandi cambiamenti. Cosa ha provato quando Obama è diventato presidente?
«Adoro Obama. C’è stato Martin Luther King e poi c’è stato lui».
Con Trump l’America è in pericolo?
«Che umiliazione. Non credevo vincesse. Mente sempre, qualunque cosa dica. E’ così ignorante, vigliacco, egocentrico, menefreghista. E poi ha 72 anni, dovrebbe lasciare».
Pensa che sia un razzista?
«Non credo gli interessi qualcos’altro al di fuori del denaro».
Oggi c’è più libertà?
«Sì. La mia vita è cambiata perché sono conosciuta, ma la prova sono i miei nipoti che non sono come me alla loro età. Sono persone, e basta. Anch’io lo ero, ma la questione dell’orgoglio nero è come l’orgoglio gay, ti categorizza».
Ha avuto una vita soddisfacente?
«Ho avuto una vita lunga, è una buona cosa».
Continuerà a scrivere?
«Certo!»
Traduzione di Carla Reschia

il manifesto 14.10.18
Per mare e per terra migrare è un diritto non un reato
Enrica Rigo* e Alberto di Martino**

*Enrica Rigo coordina la clinica del diritto dell’immigrazione presso l’Università di Roma Tre;
** Alberto di Martino insegna diritto penale presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa

Il diritto di migrare (anche fuggendo) – ovvero, «il diritto di lasciare qualunque paese, incluso il proprio», come recita la Dichiarazione del 1948 – è stato la formula di garanzia che il diritto internazionale post-bellico aveva trovato come antidoto agli orrori che avevano portato alla seconda guerra mondiale e ai suoi lasciti. Anche attorno a quel diritto, (…) l’Occidente ha costruito la differenza tra i regimi liberticidi e le democrazie baciate dai lumi del diritto e della libertà.
Quell’assetto è evidentemente saltato. Non solo perché l’immigrazione irregolare è criminalizzata (fatto che si considera ormai dato per scontato e casomai soltanto da ‘governare’ con gli strumenti dello stato di diritto); ma – proprio in questi giorni – perché sul mare sono state messe in atto condotte che potremmo dire di ‘polizia bellica’. È di ieri la notizia che la marina militare del Marocco ha aperto il fuoco su una barca di migranti, ferendo un ragazzo di 16 anni, mentre solo pochi giorni fa, in un episodio analogo, era morta una ragazza e altri tre migranti erano rimasti feriti. Meno eco ha avuto, nei giorni della Diciotti, la notizia di un violento scontro, il 17 agosto, tra la guardia costiera tunisina e un gruppo di migranti che tentava di prendere il mare verso l’Italia. Nei giorni successivi, solo qualche sito specializzato ha chiarito la dinamica dei fatti, riferendo che il numero delle vittime tra i migranti era salito a 8. La nave Mare Jonio, dell’operazione Mediterranea, ha riacceso i riflettori in questi giorni sulle intercettazioni dei migranti da parte delle motovedette fornite dall’Italia alla guardia costiera libica; dotazioni che ci rendono complici, se non di fatti violenti in sé, certamente del fatto di impedire, anche in questo caso, la fuga verso l’Europa. Gli esiti hanno comunque una frontale evidenza: questo stesso giornale ha pubblicato un impressionante ‘supplemento’ riempito solo dalla lista dei 34.361 morti documentati in relazione all’attraversamento di frontiera a causa delle politiche di chiusura dei confini.
(…) Che cosa accomuna queste vicende? L’assetto del diritto si è evidentemente trasformato senza che si sentisse il bisogno di modificare le grandi dichiarazioni di principio: un processo di svuotamento strisciante e insidioso del diritto di fuggire. Esso consiste nell’etichettare come illeciti gli attraversamenti dei confini, in ingresso, e conseguentemente aver la libertà di combatterli in uscita dagli Stati: polizia bellica in supporto preventivo della polizia criminale. Una prospettiva inedita, questa, che è stata di recente riaffermata dall’Assemblea dell’Onu con la New York Declaration for Refugees and Migrants, del settembre 2016, dove l’agenda di una governance globale dei “movimenti di massa” riconcettualizza le migrazioni come prevalentemente involontarie, sancendo la complementarietà delle politiche di asilo, migrazione e controllo dei confini.
Da un lato si riconosce un livello senza precedenti di movimenti degli esseri umani, costretti da ragioni di povertà, instabilità, marginalizzazione, esclusione, spoliazione, dall’altro si riconosce agli Stati il diritto di prevenire ingressi irregolari. Atteggiamento contraddittorio perché questi “large movements” non possono che essere ‘irregolari’, se si adotta la logica del controllo del confine.
Difficile dire se, in questo processo, l’enfasi sulla repressione del traffico di esseri umani e della tratta (in inglese rispettivamente smuggling e trafficking) sia un esito o sia servita (e serva) da apparato discorsivo di giustificazione. Difficile dire, in altri termini, se sia il traffico degli esseri umani a dover essere fermato, o se, dietro il tentativo di fermarlo, non vi sia una indebita compressione del diritto di fuga, giustificata dalla presunzione che ogni movimento transfrontaliero sia illecito e come tale non possa che avvenire grazie a una regia illecita.
La logica del diritto penale finisce con l’essere una calotta interpretativa della realtà; ma ci si dovrebbe chiedere più spesso e più a fondo se proprio questo atteggiamento, ad esempio, non sia paradossalmente esso stesso tra le cause del radicarsi di fenomeni illeciti che suppliscono la mancanza di servizi leciti (taluno parla di human rights externalities, di danni collaterali al rispetto dei diritti umani, derivanti da ipercriminalizzazione). Anzi, almeno quando il traffico si risolve nella corretta prestazione di un servizio di ‘passaggio’ (e serissime indagini empiriche lo dimostrano: si vedano i lavori del criminologo di Oxford Federico Varese), la criminalizzazione non punisce ma produce illegalità, e anzi proprio lo svolgersi nell’ombra finisce con il favorire il transito verso situazioni di rischio per il migrante, come il divenire vittima di tratta e, spesso, di sfruttamento lavorativo o per prostituzione. Qui l’uso del diritto penale rischia di diventare il velo ipocrita che nasconde i veri obblighi dello Stato: non di mero salvataggio di vittime, ma di attore primario della regolazione che deve stabilire politiche efficaci, soprattutto quanto ad allocazione di risorse, sull’ingresso, sull’inserimento, sulla formazione, sulle condizioni di lavoro, sulle pratiche di impresa.
Il meno che si possa fare è dire che ci vuole meno diritto penale e comunque, sin d’ora, maneggiare con circospezione e self-restraint gli arnesi della repressione. Ad esempio, quando la fattispecie di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina venne introdotta in Italia, non furono in pochi a denunciare il rischio di criminalizzazione delle reti di solidarietà e sostegno, in primo luogo di quelle tra i migranti stessi, dal momento che la condotta di favoreggiamento dell’ingresso sul territorio, per essere integrata, non necessita neppure dello scopo di lucro.
È vero che, nel nostro ordinamento, non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria; ma anche in questo caso il terreno di discussione rischia di farsi sdrucciolevole.
Di fronte a una repressione del diritto di migrare che arriva a mettere a rischio la vita, o addirittura a uccidere, dove si collocano, per mare e per terra, i confini del soccorso e dell’assistenza umanitaria? Resta l’applicazione del soccorso di necessità come causa generale di giustificazione per la commissione di reati: la si valorizzi il più possibile. Questo vuol dire che anche chi realizza formalmente una fattispecie di trasporto di migranti illegali, per sfuggire a condizioni di prigionia e di tortura in attesa di imbarcarsi, è quantomeno giustificato.
Su queste basi sono estremamente apprezzabili le decisioni dei giudici palermitani, riportate dalla stampa, che hanno pronunciato sentenze di assoluzione proprio applicando la logica dello stato di necessità. E si potrebbe essere ancora più radicali e dire che in casi come questi non si compie affatto un reato; ma, appunto, una condotta di salvataggio: perché chi trasporta persone che fuggono da prigionia e tortura compie un fatto lecito e non illecito (anche se ‘giustificato’).
E ancora: se le dimensioni del fenomeno sono quelle, sconcertanti e disperanti e vergognose, di decine di migliaia di morti, ci si può attrezzare almeno, e davvero in piccolo, per una restrittiva ma serissimamente argomentabile interpretazione delle condotte di favoreggiamento. Prendiamo il diritto italiano: vero che è punito anche soltanto il compiere atti «diretti a procurare illegalmente l’ingresso» nel territorio di stranieri; ma questo solo se quegli atti sono commessi «in violazione delle disposizioni» in materia di immigrazione. Violare ‘altre’ regole a quello stesso fine non può e non deve costituire favoreggiamento.
Interpretazioni capziose, pretestuose come spesso erano le sfide a duello, si dirà; le lanciamo tuttavia, e le riceviamo volentieri: ne va della causa di trentamila morti.

Il Fatto 14.10.18
L’amara sorpresa di Papa Francesco
di Furio Colombo


Il Papa parla dell’aborto, dice il pensiero della Chiesa, ben noto. Ma la parola che ha colpito come una pugnalata chi lo ascoltava è “sicario”, ovvero assassino mercenario, senz’altro scopo che un compenso per uccidere.
Le vicende dello stesso giorno non sono state benevole per Francesco. In altre pagine degli stessi giornali la parola “sicario” compariva in molti titoli. Definiva il livello umano delle persone (forse cinque) che hanno avuto il compito di uccidere e fare a pezzi, nel Consolato saudita di Istanbul, il giornalista arabo Khashoggi, colpevole di avere scritto articoli ostili al potere del suo Paese. Nell’usare la parola “sicario”, che un comunicatore accorto come Francesco non può non aver calcolato, il Papa ha stabilito, in modo ufficiale che le donne che abortiscono, benché sia permesso dalla legge italiana e accettato da tutti i Paesi democratici, sono assassine.
La parola è ferma e brutale e non ammette sotto-valutazioni o interpretazioni più miti. Persino un assassino può essere trattato con cautela (il sicario stesso). Il mandante no, perché un perfido calcolo ben programmato gli attribuisce disegno e organizzazione del delitto. Ma una volta usata la parola “sicario” per la donna che ordisce l’uccisione del feto, oltre che per il medico che si presta, chi viene raggiunto dal messaggio (credente o non credente) è colpito da uno shock da cui non sarà facile liberarsi.
Infatti la parola scelta questa volta da Papa Francesco ha colpito e abbattuto due figure tra le più vulnerabili nella società degli umani: la donna incinta e il suo medico. Tutti sanno che non esistono allegre spedizioni di donne festose che vanno all’aborto come a un party. È solitudine, dolore, isolamento, contraddizione, tristezza. Infatti, in Italia gli aborti, da quando sono legali, sono pochi, e diminuiscono. Come è accaduto per l’immigrazione (e a causa della stessa gente) la lotta politica contro le donne e contro l’aborto (vedi lo sgradevole sottoministro Fontana) sono state dichiarate emergenza proprio quando i numeri stavano diventando minimi. La Chiesa è rimasta ferma (e sola) nel soccorso agli immigrati. Ma lo spintone improvviso e violento contro le donne e i loro medici è venuto proprio lungo la stessa linea (non solo avversa, ma anche crudele) che è tipica del momento politico italiano e della parte aggressiva e violenta di questo governo.
Perché gettare la parola “sicario” addosso a una donna tormentata dalla necessità di un aborto, quando proprio Francesco aveva usato tanto a lungo, fino a ora, la parola “misericordia”? Procurarsi un sicario è circostanza che, in ogni legislazione, aggrava la pena, perché definisce l’esistenza di traffico criminale tra criminali, chi cerca l’esecutore di un delitto e chi professionalmente si presta a uccidere, senza voler sapere altro che il compenso.
Mi sto ripetendo perché, mentre scrivo, mi rendo conto che l’evento che sto commentando è di una gravità inaudita. Non si tratta più di avere dissenso e opposizione sulla possibilità di interrompere in un punto remoto una vita che non è ancora vita. Una condanna perenne e irremovibile, una pietra tombale vaticana, è stata gettata sulle donne proprio dal Papa da cui avevamo sentito parole di aiuto, sostegno, comprensione, e istruzioni ai preti di capire e perdonare. Ma il sicario che di volta in volta viene assoldato per l’aborto, qualunque sia la ragione, inclusa la vita della madre e la peggiore diagnosi per la vita che ancora non c’è, cioè il medico, viene gravemente colpito nella sua integrità e dignità professionale.
Proprio perché il Papa è una autorità largamente riconosciuta anche dai non credenti e dai non correligionari, la sua accusa è grave e pericolosa. Francesco sa certamente che negli Stati Uniti alcune chiese fondamentaliste cristiane hanno reso possibile l’uccisione di medici ginecologi, dopo avere predicato la persuasione che quei medici erano assassini. Francesco certo sa che, negli Usa, decine di cliniche “per le donne” (ovvero i soli punti di assistenza ginecologica in certe aree americane in cui gli ospedali sono stati dissuasi dall’occuparsi di aborto) sono state fatte saltare con bombe o esplosivo, non sempre mentre erano senza pazienti. I medici abortisti italiani sono ormai pochissimi. Adesso, improvvisamente, è accaduto qualcosa che è difficile da spiegare. Il Papa ha cambiato, di colpo, personalità e pensiero. Oppure una Chiesa bigotta, conservatrice, superstiziosa, che sorveglia coi rosari le frontiere armate dei Paesi sovranisti, ha la forza di far deragliare il treno della misericordia di Francesco. E può indurre il Papa a parlare in modo disumano e crudele. Anche per sfatare la leggenda del Papa buono.

Il Fatto 14.10.18
Si cerca l’ufficiale che ordinò il falso verbale su Cucchi
Il nuovo filone - Il pm interrogherà il maresciallo della stazione in cui l’arrestato riferì di non riuscire a camminare. L’annotazione fu modificata in seguito
di Valeria Pacelli


Chi ha dato l’ordine di modificare l’annotazione del 26 ottobre 2009 redatta dopo la morte di Stefano Cucchi dai carabinieri della stazione di Tor Sapienza, dove il geometra romano passò la notte del 15 novembre 2009? Da quale livello della gerarchia dell’Arma partì? Rispondere a queste domande significa far cadere un altro pezzo di quel muro di omertà che per anni ha coperto il caso Cucchi.
E proprio per trovare queste risposte, i pm romani hanno perquisito la scorsa settimana il comandante della stazione di Tor Sapienza Massimiliano Colombo e l’appuntato Francesco Di Sano. Entrambi, con un terzo militare, sono indagati in un nuovo filone d’indagine per falso ideologico. La Procura, tra l’altro, ha chiesto copia del pc di Colombo e ha preso il cellulare di Di Sano, anche per capire se qualcosa è avvenuto dopo il 17 marzo scorso.
Non è una data qualsiasi. Quel giorno infatti Di Sano – che il 15 ottobre 2009, dopo il collega Gianluca Colicchio prende in consegna Cucchi a Tor Sapienza – viene sentito in aula nell’ambito del processo a carico di cinque carabinieri, tre accusati di omicidio preterintenzionale. Entra da testimone ed esce da indagato.
In aula il pm Musarò gli sottopone due annotazioni redatte a Tor Sapienza: hanno la stessa data (26 ottobre 2009), lo stesso numero di protocollo (16/212-1/2009). Ma non il contenuto, che cambia nella parte che riguarda lo stato di salute di Cucchi. Nella prima annotazione c’è scritto: “Cucchi riferiva di avere dei dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non poter camminare, veniva comunque aiutato dal personale della Pmz (Pattuglie mobili di zona, ndr) Casilina a salire le scale”.
In una seconda annotazione invece Cucchi riesce a camminare benissimo. È scritto: “Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto (priva di materasso e cuscino) ove aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza”.
Davanti alle due annotazioni, Di Sano risponde: “Non ricordo perché la modificai nella forma. (…) Le firme sono le mie. Il protocollo è lo stesso perché doveva essere la stessa annotazione di servizio”. Chi ha ordinato quelle modifiche, chiede il pm. E Di Sano: “Il comandante di stazione, a sua volta delegato penso o dal comandante del gruppo o dal comandante provinciale, dalla scala gerarchica”. L’appuntato non fa i nomi, ma il suo comandante di stazione all’epoca era Colombo, il comandante provinciale Vittorio Tommasone mentre il numero uno del Gruppo Roma Alessandro Casarsa (Tommaso e Casarsa non sono mai stati sfiorati dall’indagine). Il generale Tomasone smentisce: “Non ho mai dato disposizioni simili nella mia vita”. Quando l’avvocato Corrado Oliviero, in aula, gli fa notare il peso delle sue parole, Di Sano corregge il tiro: “Non lo sapevo per certo”.
Proprio per chiarire questo aspetto, giovedì il comandante di Tor Sapienza, Colombo, sarà interrogato, alla presenza del suo legale Antonio Buttazzo. Il suo interrogatorio – insieme all’analisi su pc e cellulari – sarà fondamentale per i pm per capire se e da chi partì l’ordine di modificare l’annotazione.
Nell’udienza del 17 marzo è emerso che anche un altro atto redatto, sempre il 26 ottobre, a Tor Sapienza potrebbe esser stato modificato. Anche in questo caso ci sono due annotazioni che si differenziano solo nel contenuto. Una riporta: Cucchi “dichiarava di aver forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire di epilessia”. Sintomi che spariscono nella seconda annotazione, dove è scritto: Cucchi “dichiarava di soffrire di epilessia, manifestando uno stato di malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio”. “Una delle due è chiaramente falsa”, dice Musarò in aula. E l’appuntato scelto Colicchio (non indagato), sentito come testimone, riconosce solo la prima.
Ma a parlare del comando di Tor Sapienza era stato anche Francesco Tedesco, il carabiniere che a giugno ha rivelato ai pm di aver assistito al pestaggio di Cucchi da parte dei colleghi Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo. Il 9 luglio ai pm parla di “una telefonata del maresciallo Mandolini (ora a processo per calunnia, ndr) al comando della stazione di Tor sapienza, credo che parlò con il comandante. Mandolini chiese di modificare le annotazione”.
Tedesco sembra riferirsi a Colombo, ma tornato il 26 settembre ai pm precisa: “Così percepii, Mandolini non me lo disse esplicitamente nè fece il nome dell’interlocutore”.

Il Fatto 14.10.18
La denuncia del pestaggio in caserma non è mai entrata nel database dell’Arma
La carta n° 79 - Il sottufficiale ha spiegato che c’è un buco: “Mancano gli atti dal 74 all’84”
di A. Mass.


La mano che ha fatto sparire la relazione di servizio, quella firmata dal maresciallo Giuseppe Tedesco, che il 22 ottobre 2009 denunciava il pestaggio di Stefano Cucchi ad opera di due colleghi, non è stata l’unica a manipolare i documenti nella stazione Appia. La parola chiave di questa storia è docspa. Il docspa è il protocollo informatico dell’Arma dei carabinieri.
Inizia a essere operativo nel 2007 ma saranno necessari anni prima che venga utilizzato pienamente a regime. La relazione di Tedesco fu protocollata a mano con il numero 79. E al numero 79 doveva comparire anche nell’archivio informatico. Invece è sparita anche da lì.
“Nel docspa – dice al pm Emilio Buccieri, comandante della stazione Appia, alla quale appartengono i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale – al numero 79 corrisponde un progressivo vuoto. Mancano i progressivi dal 74 all’84”.
L’ennesima coincidenza di questa storia è l’ennesimo indizio che qualcuno ha voluto far sparire il documento. Buccieri, che non è indagato, dice di non essersi mai accorto prima della relazione sparita. Né dell’incongruenza tra l’indice cartaceo, che al 79 riporta l’inserimento della relazione sull’arresto di Cucchi, e quello informatico.
“All’epoca poteva accadere – continua Buccieri – perché non tutti sapevano utilizzare bene il sistema”. Buccieri è quindi convinto che un errore del genere sia probabile. E non è una sfumatura. Poi chiama in caserma, s’informa, quindi spiega al pm che il sistema è “manipolabile” ed “è possibile sostituire l’atto inserito”.
Torniamo indietro di tre anni. E rileggiamo la storia alla luce delle dichiarazioni di Buccieri. Nel 2015 la Procura di Roma chiede al comando provinciale dei Carabinieri di acquisire una lunga serie di atti. Incluse le eventuali relazioni di servizio depositate da Tedesco. Il comando provinciale delega ai suoi uomini l’acquisizione degli atti. Un militare si presenta quindi nella caserma Appia per acquisire i documenti. Non sappiamo se in quei giorni Buccieri fosse presente. Non possiamo affermare che la richiesta sia stata fatta a lui. Il dato certo è che un carabiniere chiede a un collega, che è nella caserma Appia, di acquisire le relazioni di servizio.
E sappiamo che il comandante non si fida pienamente del docspa: “All’epoca non tutti sapevano utilizzare il sistema”. Dobbiamo dedurne, quindi, che nel cercare le relazioni di servizio, in caserma non si affidino soltanto al docspa ma controllino pure nell’archivio cartaceo. Anche perché i documenti riguardano l’omicidio di Cucchi. Non una multa per eccesso di velocità. Negli atti acquisiti è peraltro evidente che, in molti casi, le relazioni e le annotazioni, vengono estrapolate dagli archivi cartacei e non dal docspa: sono spesso protocollati a penna, quindi a mano, non in modo informatico. Eppure, nel cercare le relazioni di servizio, nessuno si accorse che il sistema informatico era manipolato e la relazione era sparita.
Per non accorgersene, i carabinieri della stazione Appia, dovevano incappare in un doppio errore.
Il primo: consultare il docspa e non accorgersi di dieci caselle mancanti. Relative, peraltro, proprio ai giorni in cui avevano arrestato Cucchi. Il secondo: pur sapendo che il docspa non è affidabile, non consultare l’archivio cartaceo.
La doppia, decisiva combinazione di errori, si aggiunge a un’altra catena di eventi. In una caserma di circa 25 carabinieri c’è prima una mano che sottrae dal fascicolo la relazione di Tedesco. Poi una che fa sparire i dati dal docspa. C’è chi riesce a non vedere le anomalie nel sistema informatico.
E c’è chi non pensa di controllare sul registro cartaceo. Chi gli avesse dato un’occhiata, avrebbe reagito come Buccieri dinanzi al pm: “L’annotazione è scomparsa… è evidente che qualcuno l’ha prelevata… ma non so dare spiegazioni… la circostanza mi è nuova”. Chi cerca trova, dice il proverbio. E alla stazione Appia non si cercò abbastanza.

Repubblica 14.10.18
Che tristezza il capitale
di Marco Ruffolo


CAPITALISMO INFELICE AUTORE: LUIGINO BRUNI
EDITORE: GIUNTI PREZZO: 16 EURO PAGINE: 160

La religione del lavoro sostituita da quella del consumo. Il dono che è diventato un tabù. L’infelicità come passione dilagante.
L’economista Luigino Bruni traccia un’analisi spietata di questo primo scorcio di Terzo Millennio. Ma con l’aria che tira ovunque, cosa mai potrà salvarci? Una nuova forma di cooperazione. Forse
Viviamo in un mondo in cui la gratuità del dono è un tabù impronunciabile e allo stesso tempo il più profondo dei desideri umani. La sua estromissione dalla nostra vita, o la sua sostituzione con finti surrogati, ci rende prima o poi infelici.
Infelici come questa forma esasperata di capitalismo del Terzo Millennio che ha sostituito il lavoro con il consumo; che ha chiuso tutti gli spazi di libertà a quell’essere "malato di infinito" che è l’uomo; che infine ha costruito intorno a sé, per perpetuarsi, una nuova religione idolatrica. Smascherare questa idolatria, che fa appello alle nostre passioni più profonde solo per aumentare vendite e profitti, è il compito che si è dato Luigino Bruni nel suo ultimo libro Capitalismo infelice. Professore di Economia alla Lumsa di Roma, Bruni è il coordinatore del progetto "Economia di Comunione", ideato ventisette anni fa da Chiara Lubich, fondatrice del movimento dei Focolari. Progetto nato nelle favelas di San Paolo e che ha visto un migliaio di imprese condividere i profitti con i poveri e con i giovani. Una goccia di gratuità in un oceano di business fine a sé stesso che ha esiliato il dono dalla nostra vita.
"Ma come in tutti i tabù, anche il divieto del dono — scrive Bruni — nasce dal suo desiderio più profondo. Nulla desideriamo più del dono. Nulla è più libero e trasgressivo".
Cosicché, uscito dalla porta principale, l’istinto della gratuità rientra da quella di servizio. Lo rintracciamo tutti i giorni nella passione che investiamo nel nostro lavoro. In altre parole, lavorando diamo qualcosa di più di quanto ci viene chiesto dal contratto di lavoro. Doniamo. Questo le imprese lo sanno molto bene: sanno che per motivare i propri lavoratori a dare il meglio di sé non possono basarsi solo sulla meritocrazia e sull’incentivo, devono anche fare appello ai loro investimenti affettivi, a valori come stima, riconoscimento, lealtà, senso della comunità. Ed ecco che il nuovo capitalismo sente il bisogno di verniciarsi di sociale, e non solo nei confronti dei lavoratori ma degli stessi consumatori, che non vengono più spinti al culto individualistico del prodotto da acquistare ma coinvolti in quello che Bruni chiama "marketing narrativo", un serbatoio di racconti che emozionano.
Il limite, tuttavia, è che questi valori da condividere non diventano mai obiettivi ma restano mezzi per fare profitti, e quindi il gioco degli investimenti affettivi, della grande famiglia aziendale, non può durare a lungo. Inevitabilmente le aspettative dei lavoratori e degli stessi manager rimangono insoddisfatte, generando soprattutto nei secondi insicurezza, disistima, "burn out", ossia esaurimento emotivo da lavoro.
Il gioco non è valso la candela, le passioni sono state manipolate.
Dopo una visione così negativa del nostro sistema economico, Bruni ci spiazza nell’ultimo capitolo, una autentica dichiarazione d’amore per il lavoro: "quando lavoriamo la nostra intelligenza-creatività-amore si esalta, si sublima".
Starà a noi renderlo più umano, meno controllabile, meno agganciato alla pura ricerca del profitto. Ma sbaglierebbe chi pensasse che siccome il lavoro è soltanto un mezzo per avere reddito, è su quest’ultimo che bisogna fondare la nostra cittadinanza. Il lavoro è molto di più che uno strumento per fare quattrini: è il cemento della cooperazione umana, è l’occasione per far fiorire i nostri talenti, è la dignità del do ut des, della reciprocità, che Bruni distingue nettamente dalla meritocrazia e dall’incentivo. Le imprese che capiranno questo, "organizzazioni più bio-diversificate, meno livellate nelle motivazioni", saranno anche quelle che dureranno di più.

il manifesto 14.10.18
Baviera, Verdi pronti a detronizzare il governo monocolore
Germania. Oggi al voto per eleggere il parlamento regionale, con l’incognita delle future alleanze. Un test chiave per il governatore anti-immigrati. Nei sondaggi Csu in picchiata e Afd sotto le aspettative, ma di poco


BERLINO Fine della campagna elettorale che da marzo condiziona la politica di Berlino, e inizio della conta dei voti che stabilirà chi guiderà lo Stato-chiave della Germania per i prossimi cinque anni. Oggi, nel segreto dell’urna, 9,5 milioni di bavaresi decideranno se rinnovare la fiducia all’eterno governo monocolore Csu o accendere la svolta social-ecologista immaginata dai “Nuovi Verdi”. Scegliendo, in buona sostanza, tra la tradizione & sicurezza del programma cristiano-sociale e la «Baviera aperta e colorata» proposta dal primo partito dell’opposizione.
UN TEST NEVRALGICO per l’attuale governatore, Markus Söder, candidato al secondo mandato con la Csu che nel sondaggio Zdf di venerdì è crollata al 34% del consenso perdendo la maggioranza assoluta. Ma anche la prova del nove per il ministro dell’interno Horst Seehofer accusato di aver disboscato la foresta di voti del partito ex “padre-padrone” del Land; nonostante da Berlino abbia costruito il Masterplan anti-profughi proprio su misura delle elezioni di oggi.
Sarà anche l’ennesimo referendum sulla cancelliera “immigrazionista” Angela Merkel, cui gli avversari interni hanno appena scippato il posto di capogruppo al Bundestag: fra un mese e mezzo è attesa anche all’esame di conferma della sua presidenza della Cdu.
In parallelo, il risultato del voto già stasera profilerà la forza dell’opposizione “istituzionale” alla Csu, mentre un bavarese su dieci orientato a barrare la croce su Alternative für Deutschland si appresta a regalare all’ultra-destra la spunta del Parlamento regionale più importante della Repubblica federale. Tutto con la Linke al 4%, sotto la soglia di sbarramento, e la Spd incarnata dalla candidata Natascha Kohnen che vale appena due punti in più di Afd e uno dei “Freie Wähler”.
«Dieci punti per la Baviera» è il programma dei Verdi contro il governo Söder. Primo: «biodiversità» secondo: «equal rights» terzo: «100% di energia pulita entro il 2030» quarto: «50 mila nuove case popolari ad affitto accessibile». All’ombra delle fabbriche di Ingolstadt, nelle vallate alpine, come fra i centri culturali del “Freistaat Bayern” l’idea piace al 19% dei cittadini.
I Verdi promettono la fine dei controlli con l’Austria («creano un confine interno all’Unione europea») al pari della garanzia del rispetto dei «diritti civili» nei tribunali come nelle stazioni di polizia. Oltre all’istituzione del terzo parco nazionale nel Land, di «un mezzo pubblico all’ora dalle 5 alle 24 in ogni comune» e la tutela delle api in via di estinzione.
I MIGRANTI? «Facciamo in modo che i rifugiati possano frequentare i corsi di lingua e lavorare fin dall’inizio. I profughi impegnati nell’apprendistato riceveranno lo status di asilo sicuro. Questo significa anche pianificare con certezza il lavoro delle imprese in Baviera. Prima, però, devono finire le deportazioni in Afghanistan o nei campi profughi».
Una rivoluzione copernicana rispetto agli agenti di frontiera autonomi istituiti a fine estate dal premier Söder o agli accordi di rimpatrio fuori e dentro il cassetto del ministro Seehofer. La sicurezza per i Grünen si traduce soprattutto in «più fondi alle professioni del settore sociale».
Sulla stampa nazionale la giovane candidata-governatrice Katharina Schulze, classe 1985, entrata nei Verdi dieci anni fa, riflette il volto del cambiamento insieme all’aspirante co-premier Ludwig Hartmann, 40 anni, che oggi si misurerà nella circoscrizione di Monaco-centro.
SU WEB E SOCIAL, invece, il video-spot dei Verdi bavaresi pone di fronte alla scelta tra la mucca sul prato, le feste con danze popolari, la tradizione culinaria locale, e un mondo in bianco e nero circondato da filo spinato sovrastato dal volto di Seehofer. Immagini fin troppo naïf, eppure capaci di illustrare come si è convinto un quinto dell’elettorato che secondo l’istituto Forsa fino a ieri ruotava per il 25% nel bacino della Csu, nel 7% dei casi votava Fdp e in gran massa militava a sinistra: il 42% nella Spd e l’8% nella Linke. Si aggiunge al 16% di bavaresi che fino a ieri non si presentava alle urne.
UN’ALTERNATIVA credibile allo strapotere cristiano-sociale, che in ogni caso non risolve l’incognita del nuovo governo. Scartate a priori le coalizioni Csu-Verdi e Csu-Afd per l’incompatibilità dichiarata dallo stesso Söder, l’alleanza con i “Freie Wähler” o Fdp (che vale solo 5-6% nei sondaggi) appare oggettivamente difficile. L’alternativa determinata dalla somma di Verdi, Spd e Linke, a meno di sorprese, si ferma a quota 35%. Il rimanente dei 18 partiti che rappresentano i 1.923 candidati totali, invece, è destinato, a rimanere una comparsa sulla scheda elettorale fino a stasera. Dai Piraten al Partito Bavarese, dal Partito della Franconia a quello degli Umanisti o dei Vegetariani e Vegani.

Il Fatto 14.10.18
Csu in agonia, i verdi e la destra già ballano sulle spoglie
Oggi il voto in Baviera - Ambientalisti mai così popolari, l’AfD vuole sfruttare i temi anti immigrati per mettere Ko la Grande Coalizione
Csu in agonia, i verdi e la destra già ballano sulle spoglie
di Mattia Eccheli


Markus Söder, attuale governatore della Baviera ed aspirante prossimo primo ministro del Land più ricco della Germania, sognava di diventare astronauta. È entrato nel firmamento della politica locale con un partito, la Csu, che malgrado si presenti solo a livello regionale vale il 6% sul piano federale. Conta di lanciare “Bavaria One”, il suo grande progetto per trasformare la regione nell’area tedesca di riferimento su fronte aerospaziale. Ha promesso di sostenere l’operazione con 700 milioni di euro, che però potrebbero mandare in orbita soprattutto i suoi avversari.
I verdi (Grüne) da una parte, molto probabili futuri alleati di governo se i sondaggi della vigilia verranno confermati, e la Alternative für Deutschland (AfD) dall’altra. Gli ambientalisti non sono mai stati così popolari: sia in Baviera sia in Germania sono dati vicini al 18%, una percentuale da secondo partito, anche davanti alla Spd, che diventerebbe il terzo movimento nazionale.
La formazione è sempre più moderata e sta diventando non soltanto il naturale “rifugio” dei socialdemocratici delusi, ma anche quello dei cristiano sociali meno radicali. In Baviera i due candidati di punta, la “rivelazione” Katharina Schulze, 33 anni (già capogruppo nel parlamento regionale) e Ludwig Hartmann, 40 anni, grafico della comunicazione, sono già disposti ad appoggiare la Csu se troveranno intese soddisfacenti su edilizia abitativa (a Monaco il costo delle case è proibitivo), espansione del servizio di trasporto pubblico locale, energia, politica (più rispettosa) dell’ambiente e digitalizzazione. “La maggioranza assoluta della Csu sarà una cosa da libri di storia”, ha assicurato qualche giorno fa la giovane Schulze, che in nessun caso potrebbe assumere la presidenza della Baviera: l’età minima richiesta è di 40 anni. “Sono preparato per ogni scenario”, ha commentato Hartmann, riferendosi all’ipotesi che la Csu si costretta ad “abbassarsi” ad un esecutivo di coalizione. Prima del 2008 (con i liberali) era accaduto alla fine degli anni Cinquanta.
In Baviera la AfD è durissima, anche se conta appena 5.000 iscritti. È una lista che non molti dichiarano apertamente di votare e che per questo viene puntualmente sottostimata nei sondaggi. Entrerà certamente per la prima volta nel parlamento regionale: le ultimi indagini la danno attorno al 10%, poco sotto la Spd che rischia invece di superare. Alle ultime consultazioni federali aveva ottenuto il 12,4%, il miglior risultato della Germania occidentale. A Deggendorf, il collegio elettorale di Katrin Ebner-Steiner, la donne forte della Baviera che sfoggia una convincente (per i suoi elettori) retorica anti islamica, ha superato il 19%.
La compagine nazionalista, populista e xenofoba beneficia più di altri movimenti della litigiosità della Grande Coalizione, che discute all’infinito (grazie a Horst Seehofer, ministro federale degli interni e capo della Csu) dei temi sui quali ha costruito il proprio consenso. A cominciare dall’immigrazione. Tanto che in un recente comizio Andreas Winhart, uno dei candidati locali, ha potuto dichiarare a due passi da Alice Weidel, capo dell’opposizione al Bundestag e co-capogruppo del partito assieme ad Alexander Gauland: “Ci sono incredibilmente tanti casi di Hiv, in Africa Nera, lo sappiamo, di scabbia e di Tbc: ci sono nuovi casi da noi… Io voglio sapere se quando nel vicinato un negro mi saluta con un bacio o mi tossisce addosso sia malato o no”.
“Il 14 ottobre – ha aggiunto – abbiamo la possibilità di spedire la AfD nel Parlamento regionale, di mandare la signora Merkel in pensione e di affondare nel Mediterraneo l’intera flotta di Soros (in Germania sinonimo della presunta cospirazione ebraica planetaria, ndr) con le sue navi da salvataggio”. Quello che la AfD ha già ottenuto è l’inasprimento dell’agenda: anche i Verdi sono molto più sensibili ai temi della sicurezza. La Baviera, insomma, virerà a destra. Ancora più a destra. Il rischio che l’onda d’urto arrivi fino a Berlino, dove la cancelliera sta perdendo il controllo sul proprio partito.

il manifesto 14.10.18
Tra i giovani Usa la politica ora è cool. E il loro voto vale
Stati Uniti. Elezioni di midterm, boom di registrazioni contro Trump e la lobby delle armi
di Marina Catucci


NEW YORK Negli Stati Uniti, in vista delle elezioni di midterm che si terranno il 6 novembre, continua l’incremento di registrazioni al voto da parte dei giovani americani. Secondo analisi come quella pubblicata dal New York Times, o della società di sondaggi degli elettori democratici TargetSmart Communications, i giovani adulti costituiscono la percentuale maggiore di nuovi registrati al voto, tendenza cominciata a metà febbraio dopo il mass shooting avvenuto nella scuola superiore Stoneman Douglas High School, a Parkland, in Florida, che ha dato vita al movimento contro le armi Never Again.
IN QUELL’OCCASIONE i ragazzi sopravvissuti al massacro non si sono limitati a organizzare veglie ma hanno dato vita a una serie di proteste basate su un concetto semplice: il problema dei mass shooting sono le armi, che vanno limitate, e noi non voteremo nessun politico che non si impegni in questo senso e nessun politico che abbia un legame con la National rifle association (Nra), la lobby delle armi Usa.
Never Again è stato un notevole motore propulsore, ma la svolta verso l’impegno politico dei giovani americani si era già vista ai comizi di Bernie Sanders durante le primarie democratiche del 2016, e ora continua con i giovani candidati socialisti, come la 28enne e già iconica Alexandria Ocasio-Cortez, che a New York ha battuto un candidato di ferro dell’establishment.
Le analisi più recenti rilevano che i giovani tra i 18 e i 29 anni non solo si registrano a un ritmo più elevato, ma stanno anche votando a un tasso più alto; l’affluenza al voto per queste primarie tra i giovani elettori è aumentata in media del 4% rispetto alle primarie di midterm del 2014, ed è più che raddoppiata in alcuni Stati chiave, come la Pennsylvania, dove Trump aveva vinto agevolmente e che a novembre sceglierà senatore, governatore e deputati. In Pennsylvania la registrazione dei giovani è aumentata di 10 punti, e l’elettorato giovane costituisce quasi il 60% di tutti i nuovi iscritti.
Uno scenario simile anche per altri Stati come l’Arizona (+7,6 punti), la Florida (+7,9), l’Indiana (+6,8), il Michigan (+7,5), Wisconsin (+5.7) e New York (+10.7). In Stati come il Minnesota (+6.5) e Colorado (+2.8), l’esito del midterm dipende da una manciata di voti, poche migliaia o meno, e l’aumento della partecipazione giovanile potrebbe rivelarsi decisivo.
«MI SONO ISCRITTA AL VOTO mesi fa – racconta Katleen, 20 anni, studentessa all’università di Fort Lauderdale, in Florida – Non mi ero mai occupata attivamente di politica, ma vivo a pochi chilometri da Parkland, e il mass shooting mi ha sconvolta, perché stupidamente non credevo potesse capitare a noi, forse per la vicinanza ma mi sono sentita chiamata in causa. Sono andata ai cortei e ho visto questi ragazzi più giovani di me tremare di paura e di rabbia e dire le uniche cose sensate che abbia mai sentito dire politicamente e loro mi hanno convinta ad occuparmi di politica. Ora credo di avere le idee molto chiare: voterò per chi protegge i cittadini invece che i venditori di armi, parto da qui».
«Scusami se divento prolissa, ma quando parlo di politica mi appassiono – comincia a dire Taylor, 21enne di Portland, Oregon, che studia a Los Angeles ed è un fiume di parole -. Prima dell’era Trump, cose come l’evoluzionismo, il sesso sicuro, i diritti Lgbtq, delle donne, umani, l’istruzione, non erano questioni di parte; non so se ridere o piangere ma sono così profondamente e incredibilmente arrabbiata che devo fare qualcosa».
«IL PROBLEMA PIÙ GRANDE ora è la conferma di Brett Kavanaugh come giudice della Corte suprema – prosegue – o piuttosto ciò che la sua conferma rappresenta. Dobbiamo fare il possibile per riparare il danno che noi, come elettorato, abbiamo subito, e andare a votare. Conosco molti coetanei che voteranno. Le persone della mia età spesso si sottovalutano, dicono di non sapere molto di politica, ma ora bisogna solo saperne abbastanza per votare per il minore dei due mali. Questa non è una cosa stupida da fare, semmai è efficiente, meglio che non votare affatto».
Owen frequenta l’ultimo anno di liceo, ha compiuto 18 anni a inizio settembre e si è subito registrato per votare in New Jersey, dove vive. «Sono sempre stato interessato alla politica, non vedevo l’ora di potermi registrare – dice -. La politica ha sempre un effetto sul futuro e crea il passo successivo. La cosa diversa in queste elezioni di medio termine è che la posta in gioco è considerevolmente alta. Il Paese è diviso, soprattutto dopo la nomina di Kavanaugh. La presidenza è già controversa, e queste elezioni sono cruciali sia per i democratici che devono conquistare la maggioranza (come spero che accada) in modo da opporsi all’amministrazione Trump, che per i repubblicani per portare avanti il loro programma. Con i miei amici – continua – abbiamo sempre parlato di politica, ma lo facciamo molto più da quando Trump è stato eletto, anche se molti non sono ancora maggiorenni e non potranno votare».
«A scuola, nello sport, parliamo sempre di politica – dice Joanna 19enne di una zona proletaria di Denver, Colorado – Ora se non sai di politica sei tagliato fuori dalla conversazione. Mi sono registrata e andrò a votare perché è dovere della mia generazione aggiustare le cose. Sono in gioco i diritti di tutti: donne, minoranze, Lgbtq, ambiente. Non capisco come si possa lasciare carta bianca a questa amministrazione. È vero, tra i miei coetanei ora occuparsi di politica è cool, va di moda, ma questo non vuol dire che il nostro voto avrà meno valore a novembre, i politici farebbero bene a prenderci sul serio».
«IO SONO FORTUNATO, entrambi i miei genitori sono attivisti – afferma Brian, 22enne di Madison, Wisconsin, città universitaria e centro dell’attivismo pacifista durante la guerra del Vietnam – e mi hanno sempre parlato di politica, ho foto mie in passeggino alle manifestazioni dell’era Bush; i miei genitori non avranno fermato la guerra in Iraq, ma hanno eletto Obama. Ora è il mio turno di fare la differenza. Con i miei amici questa estate siamo andati a Chicago per un comizio dei ragazzi di Parkland. Hanno girato tutti gli Usa per sensibilizzare i giovani al voto, parlavano principalmente di controllo delle armi, e mi sembra un buon punto di partenza per scegliere un candidato: assicuriamoci che non sia legato alla Nra, poi che non sia un negazionista dei cambiamenti climatici, un razzista, un misogino, un omofobo…».
«CIÒ CHE MI INTERESSA in politica sono le opportunità di fare del bene e aiutare i meno fortunati attraverso la politica – afferma Matteo, 18enne newyorchese che vive e studia a Washington -. Sfortunatamente il governo degli Stati uniti in questo momento è troppo concentrato su drammi insensati, invece di servire il Paese, e l’unico modo per risolvere ciò è votare nuovi senatori. La politica entra continuamente nei discorsi con i miei amici, purtroppo in questo momento le discussioni politiche tendono ad essere polarizzate, c’è molto risentimento verso i repubblicani, e questo è un problema perché porta le persone ad evitare discussioni profonde, per paura. I miei amici voteranno – conclude -, molti di loro sono impegnati nelle campagne per portare i giovani a votare; non conosco le opinioni politiche di tutti, ma posso dire con certezza che la maggior parte di noi voterà democratico».

Corriere La Lettura 14.10.18
Usa-Cina La guerra (in)evitabile
Relegata in un ruolo minore e spesso umiliata dal Giapponee dai colonialisti europei, la Cina si è risvegliata con la vittoria di Mao nel 1949 e le riforme di Deng alla fine degli anni Settanta
Adesso aspira ad affermarsi su scala globale
di Sergio Romano


Ci sarà nel nostro futuro una guerra fra la Cina e gli Stati Uniti per il dominio del mondo? Non saremmo sorpresi se i loro stati maggiori e i leader militari di altri Paesi fossero già al lavoro per immaginare le circostanze in cui il conflitto potrebbe scoppiare e quali sarebbero le mosse strategiche iniziali di quello fra i due che sparerà il primo colpo. Esiste comunque almeno uno studioso americano che sta affrontando il problema con una sorta di storico fatalismo. Si chiama Graham Allison, ha insegnato per molti anni alla Università di Harvard e le sue riflessioni sono in buona parte dettate dallo studio di un’altra guerra, che ha avuto una grande influenza sulla nostra cultura politica e militare.
Dopo una lunga familiarità con La guerra del Peloponneso di Tucidide, Allison è giunto alla conclusione che lo storico greco raccontò eventi destinati a ripetersi, con qualche inevitabile variante, da un secolo all’altro. Insieme a un gruppo di lavoro formato nella sua università, è andato alla ricerca di guerre che presentano le stesse caratteristiche. In ciascuno dei casi studiati vi è una potenza che governa o controlla una grande regione e i mari da cui è bagnata. L’autorità di cui gode le consente di imporre le proprie regole, reclutare milizie, incassare tributi, favorire i propri sudditi o concittadini a danno di altri meno protetti e fortunati. Nella Grecia del V secolo questa città è Sparta, modello di compattezza civile e di virtù militari. Ma dopo le guerre persiane, in cui si è particolarmente distinta, è un’altra città, Atene, che comincia a imporre la sua presenza e a conquistare terreno. La guerra scoppia quando Sparta giunge alla conclusione che soltanto con le armi potrà conservare la sua posizione dominante. Durerà 27 anni, dal 431 al 404 avanti Cristo, e si concluderà con la sconfitta degli Ateniesi.
Una larga parte del libro di Allison è dedicata a una descrizione delle numerose guerre in cui uno Stato (spesso la potenza dominante) cerca di fermare con le armi l’ascesa di un concorrente e cade così in quella che l’autore definisce la «trappola di Tucidide»: sinonimo di uno scontro che potrà essere vinto o perduto, ma lascerà spesso un forte segno sui contendenti e sull’intero continente europeo. Accadde alla fine del XV secolo quando la Spagna sfidò il Portogallo; nel XVI secolo, quando la Francia tentò di prevalere sugli Asburgo, ma non vi riuscì; nel XVII secolo, quando gli Asburgo fermarono l’espansione dell’Impero ottomano nei Balcani; sempre nel XVII secolo, quando l’Inghilterra conquistò contro gli olandesi il controllo dei mari; nel XVIII e nella prima metà del XIX, quando Francia e Inghilterra si contesero il potere sugli oceani e sul continente europeo; verso la metà del XIX, quando Francia, Inghilterra e persino l’Impero ottomano si coalizzarono per frenare l’espansione della Russia verso il Mediterraneo. La fine del XIX secolo e la prima metà del XX non saranno meno bellicosi: Francia e Regno Unito contro la Germania nel 1914 e nel 1939; Germania contro Russia nel 1914 e nel 1941; Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica contro la Germania nel 1941.
Vicende non troppo diverse, nel frattempo, accadevano in Asia, dove ci furono nella seconda metà del XIX secolo almeno tre gare: quella fra Gran Bretagna e Russia per il controllo delle regioni sud-occidentali; quella fra Cina e Giappone per il dominio sulla parte orientale del continente asiatico; quella fra Stati Uniti e Giappone per lo stesso obiettivo. In queste vicende, sino alla fine della Seconda guerra mondiale, la Cina è presente, ma quasi sempre con un ruolo minore e risultati spesso umilianti. È erede di un grande impero, ma gli Stati europei, durante il XIX secolo, l’hanno privata del diritto di gestire i suoi porti e i suoi mercati, mentre il Giappone non nasconde la sua intenzione di prenderne il posto sulla carta geopolitica del mondo.
Allison cita due volte un memorabile motto di Napoleone: «Quando la Cina si sveglierà, il mondo tremerà». Il risveglio c’è stato ed è dovuto ad almeno tre fattori: la sconfitta del Giappone nella Seconda guerra mondiale, la conquista comunista del potere a Pechino nel 1949 e la grande riforma di Deng Xiaoping alla fine degli anni Settanta. Più recentemente, con l’arrivo al potere di un nuovo leader (Xi Jinping), il Paese sembra essersi risvegliato una seconda volta con maggiore energia e maggiori ambizioni. Xi ha dichiarato guerra alla corruzione (molto diffusa anche nelle alte sfere del partito). Ha conservato le strutture dello Stato comunista, ma l’ideologia del Paese è il patriottismo, un sentimento che garantisce la coesione nazionale e protegge la Repubblica popolare, almeno per ora, dalle tentazioni democratiche. Se gli attuali ritmi di crescita e sviluppo saranno mantenuti, la Cina avrà raddoppiato il suo Pil nei prossimi tre anni e la sua economia nazionale, quando celebrerà il centenario della Repubblica popolare (2049), sarà il triplo di quella degli Stati Uniti. In questa ricorrenza il Paese occuperà posizioni di prima fila nel campo delle scienze, avrà fatto passi da gigante nelle nuove tecnologie, potrà contare su una nuova Via della Seta (l’operazione One belt, one road) che attraverserà l’Asia per collegare la sua economia a quella dell’Occidente.
Quali saranno i desideri e le ambizioni di questa grande potenza? Allison crede che la Cina voglia soprattutto riconquistare interamente il prestigio e l’autorità dell’epoca imperiale. Questa tesi sollecita una seconda domanda. È possibile che gli Stati Uniti accettino senza reagire un tale stravolgimento dei vecchi equilibri internazionali? Assisteremo a una nuova guerra del Peloponneso? Tutto ciò che Allison ha scritto sin qui rende la domanda inevitabile e inquietante. E una buona parte del suo libro, infatti, è dedicata alla elencazione delle molte circostanze in cui questi due Paesi (entrambi afflitti da un colossale senso di superiorità) potrebbero cadere nella trappola di Tucidide. Ci sono già stati incidenti, fra cui uno particolarmente grave il 1° aprile 2001, quando un aereo spia americano si scontrò in volo con un velivolo cinese e fu costretto ad atterrare in un’isola della Repubblica popolare. I possibili focolai sono numerosi: Hong Kong; la Corea; le isole contestate dei mari della Cina; i mercati finanziari, se Pechino cominciasse a vendere le cartelle del debito pubblico americano depositate nei suoi forzieri; il commercio, se il surplus cinese continuasse ad aumentare vertiginosamente.
Ma l’autore ci ricorda che la storia registra anche numerose circostanze in cui due potenze, dopo essersi avversate e detestate, si fermano sull’orlo dell’abisso e riescono a evitare la trappola di Tucidide. La Spagna e il Portogallo scelsero il negoziato e si divisero l’America del Sud nel 1494 con il Trattato di Tordesillas, grazie a un lodo papale. Le maggiori potenze dell’Europa continentale, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, hanno perseguito per molto tempo la politica della convivenza e dell’integrazione. Durante la crisi cubana dell’ottobre 1962 due uomini di Stato (John F. Kennedy, presidente degli Stati Uniti, e Nikita Krusciov, segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica) seppero evitare, con reciproche concessioni, lo scoppio di una guerra nucleare.
C’è persino un esempio che concerne i due maggiori Paesi di lingua inglese. Alla fine del XIX secolo la Gran Bretagna, grazie alla sua presenza in Canada e alla sua influenza in molti Paesi dell’America Latina, si considerava ancora uno Stato americano e credette di potere sfidare la «dottrina di Monroe» con cui un presidente degli Stati Uniti, nel 1823, aveva acceso un’ipoteca sull’intero continente. Ma il governo di Washington reagì con fermezza, rivendicò i propri diritti (veri o presunti) su tutta la regione e dimostrò che avrebbe potuto costruire in breve tempo una flotta più numerosa e potente di quella della Gran Bretagna. Dopo qualche esitazione, i britannici decisero di lasciare le Americhe ai loro cugini d’oltreoceano. La storia avrebbe preso un’altra strada se mezzo secolo prima il Regno Unito fosse intervenuto nella guerra di Secessione americana a favore della Confederazione. Ma era ormai troppo tardi.
Resta da capire naturalmente se gli Stati Uniti, di fronte a una irresistibile ascesa della Cina, sarebbero capaci di dare prova di una stessa saggezza. Ma Allison sa che le previsioni in questa materia corrono sempre il rischio di essere smentite dalla realtà. Il suo obiettivo non è quello di svelarci il futuro, ma di ricordare agli Stati che ci sono ricorsi storici di cui è meglio non perdere la memoria. C’è una branca degli studi storici (la storia applicata), in cui si parte «da una scelta o da un dilemma attuali, e da lì si passa ad analizzare le fonti storiche per fornire prospettive, stimolare l’immaginazione, trovare indizi su ciò che potrebbe accadere, suggerire possibili interventi e valutare probabili conseguenze».
Insieme a uno storico britannico, Niall Ferguson, l’autore di questo libro ha proposto alla Casa Bianca l’istituzione di un Consiglio dei consulenti storici simile al Consiglio dei consulenti economici. La prima domanda a cui dovrà rispondere sarà: «Che cosa fare della Cina e con la Cina?». Non sappiamo se Trump sarà disposto ad ascoltare la risposta.

Il Sole 14.10.18
Le strategiedel Dragone
«Corporate China» in Italia: 641 aziende e 32.600 dipendenti
Dopo le ultime operazioni (le acquisizioni di Moto Morini e Candy) presenti oltre 300 gruppi cinesi con un giro d’affari di 22 miliardi - Marchi e manifattura ad alto contenuto tecnologico valorizzati con investimenti mirati
di Lello Naso


Un solo bilancio, luglio 2017-giugno 2018, e 126 milioni di perdite, 53 in più dell’anno precedente, il record della storia del Milan. È questa la polpetta avvelenata che la gestione del misteriosissimo cinese Yonghong Li lascia al Fondo Elliot che ha rilevato il club rossonero l’estate scorsa. Un disastro cinese. Un caso isolato o una consuetudine dei gruppi di Pechino che in Italia controllano 641 società?
L’ultima bandierina cinese in Italia è stata piantata nel Pavese: la Zhongneng Vehicle Group ha acquisito Moto Morini, storico marchio delle due ruote specializzato nei veicoli di piccola cilindrata. Quasi in contemporanea, a Monza, Haier, la multinazionale dell’elettrodomestico ha conquistato la gloriosa Candy, pioniera italiana del settore. Oggi sono 641 le imprese italiane controllate da trecento gruppi cinesi o di Hong Kong (quasi tutti a capitali cinesi). Dal Duemila i gruppi dei due Paesi hanno investito in Italia 16,2 miliardi di euro, terza meta in Europa dopo Gran Bretagna e Germania. Società statali che hanno acquisito grandi gruppi italiani, da ChemChina-Pirelli a Shanghai Electric-Ansaldo Energia, da Weichai-Ferretti a State Grid Corporation-Cdp Reti. Imprese private che hanno preso il controllo di aziende manifatturiere e di servizi. Da Suning-Inter a Grandland-Permaesteelisa a Zoomlion-Cifa. Operazioni finanziarie di Safe (l’agenzia statale che regola le partecipazioni), generalmente sotto il 2% del capitale. Una campagna che potrebbe continuare con Alitalia il cui dossier è stato sottoposto alle autorità cinesi dal sottosegretario Michele Geraci in un recente viaggio in Cina. L’ipotesi allo studio sarebbe quella di una partecipazione da parte di una compagnia cinese per fare dei Alitalia il vettore-ponte per l’Africa.
A ogni acquisizione suona il campanello d’allarme sui rischi di colonizzazione o di cattiva gestione e trasferimento di tecnologie in Cina. Sul rischio di colonizzazione, gli allarmi sembrano esagerati: il giro d’affari delle società italiane controllate da soci cinesi e di Hong Kong è di 22 miliardi, i dipendenti sono 32.600 e le partecipazioni rappresentano il 3,1% del totale delle imprese a partecipazione estera (con l’1,9% dei dipendenti). Il trasferimento tecnologico, invece, è un tema sul tappeto. Il Piano strategico del Governo “China 2025” prevede che nel 2049, in occasione del centenario della Rivoluzione, Pechino diventi la prima manifattura globale. Per questo è rallentata l’acquisizione di società di servizi (il calcio in primis) ed è aumentata la caccia alla manifattura hi-tec. Italia e Germania sono i terreni di caccia migliore e danno la possibilità di creare mini-poli territoriali specializzati.
Solo l’anno scorso, per esempio, in Piemonte, Baosteel ha acquisito il controllo di Emarc, azienda della subfornitura automobilistica partner di Fca e di Renault; Power China Northwest ha acquisito Geodata, impresa attiva in tutto il mondo nel mercato dell’ingegneria ambientale; Crc, il più grande costruttore mondiale di materiale rotabile, con Cmc, colosso delle infrastrutture, ha preso l’80% della Blue Engineering di Rivoli, società specializzata nella progettazione di veicoli ferroviari. L’obiettivo è di mettere in rete le competenze per creare in Piemonte un polo cinese della mobilità. Analogamente in Emilia Romagna è stato creato un mini-distretto della meccanica agricola intorno ad Arbos, controllata dalla cinese Lovol con in pancia la storica Goldoni e la friulana MaterMecc. Mentre l’acquisizione della forlivese Ferretti da parte di Weichai, datata 2012, ha rivitalizzato undici marchi della cantieristica specializzata in yacht e motoscafi (da Azimut a Riva) in profondissima crisi.
Un caso di scuola per la governance alla cinese. «Sono stato cooptato nel cda a ottobre 2013 e nel maggio 2014 sono diventato amministratore delegato», racconta Alberto Galassi. «Il mandato è stato chiaro fin dal principio: l’azionista detta le linee strategiche e il management si occupa dello sviluppo e della gestione. Così è stato, senza alcuna sbavatura, con la massima correttezza».
Una governance, sottolinea Galassi, tipica di un grande gruppo industriale con 50 miliardi di dollari di attività nel mondo. «Il focus dell’azionista è su strategie, investimenti e controllo. Ogni mese inviamo un report dettagliatissimo sulle attività e i risultati. Ma decidiamo in perfetta autonomia, la gamma, le linee, lo stile i materiali. Il nostro compito è chiaro: si deve valorizzare il made in Italy in maniera totale. La produzione è completamente in Italia dove costruiremo un nuovo cantiere. Nel 2018 abbiamo investito 54 milioni». Nel 2013, Ferretti era in profondissima crisi. Dopo due anni di assestamento, grazie a 154 milioni di investimenti, il fatturato è passato dai 415 milioni del 2015 ai 704 milioni del 2018. L’ebitda da 7 milioni del 2015 (primo esercizio con marginalità positiva) a 59 milioni del 2017. I dipendenti, tutti in Italia, si avviano a diventare 1.600.
Pochi chilometri a Ovest di Forlì, a Migliarina di Carpi, in provincia di Modena, c’è la sede del gruppo Arbos, controllato dalla cinese Lovol. Un piccolo polo della meccanica agricola nato con l’acquisizione di Arbos e MaterMacc nel 2014 e di Goldoni nel 2015. «L’obiettvo fin dal principio – dice il vicepresidente Andrea Bedosti – è stato di connettere il know-how italiano e la capacità di investimento e la lungimiranza cinese». Management italiano che lavora in autonomia gestionale, indirizzo strategico e controllo cinese. L’ambizione è quella di creare un gruppo capace di integrare conoscenze agronomiche, meccaniche ed elettroniche. Due stabilimenti, ma soprattutto un centro ricerche e uno stabilimento, sempre a Carpi, in cui verranno progettati, sviluppate e testate le nuove macchine che verranno prodotte in tutto il mondo. Gli obiettivi di mercato sono ambiziosi, soprattutto se si considera che nel 2014 i marchi erano in declino: nel 2020 il fatturato dovrebbe attestarsi a 210 milioni contro i 25 del 2015. La chiave? La ricerca, con investimenti intorno all’8% del fatturato.
Ecco perché i passaggi a vuoto si contano sulle dita di una mano: il Pavia calcio, l’azienda metalmeccanica Colgar di Cornaredo. La selezione dell’investimento è la chiave. Candy e Morini sono nella linea di continuità: manifattura, marchi, potenziale. La fase quantitativa che negli ultimi cinque anni ha quasi raddoppiato gli investitori e le imprese acquisite e triplicato dipendenti e fatturato è archiviata. La parola d’ordine adesso è tecnologia e qualità.

il manifesto 14.10.18
Tra potere e dolore, fenomenologia di possibili infelicità
Corpo e psiche. Istruito dalla lezione psicoanalitica e da quel sismografo dei terremoti morbosi che è la letteratura, Vittorio Lingiardi affronta il percorso tra «Diagnosi e destino»: da Einaudi
di Carmelo Colangelo


In una straordinaria sequenza del Posto delle fragole di Ingmar Bergman, il protagonista Isak Borg, medico illustre in procinto di ricevere un’onorificenza per il suo giubileo professionale, sogna di dover affrontare nuovamente l’esame di Stato: lui, così celebre e stimato, si dimostra incerto e decisamente impreparato. «Almeno lo sa, lei, qual è il primo dovere di un medico?», chiede infine il docente incaricato di accertare le sue capacità cliniche. «Mi lasci riflettere un momento… Che strano, non lo ricordo più», risponde Isak, la fronte imperlata di sudore. A quel punto, sorridendo, il commissario esaminatore si sporge lievemente verso di lui e gli dice in tono pacato: «Il primo dovere di un medico è “chiedere perdono”».
La scena è evocata da Vittorio Lingiardi nel suo Diagnosi e destino (Einaudi, pp. 129, € 10,20), sintetica e opportuna riflessione sul concetto di diagnosi medica e psicologica, sui suoi modi e i suoi miti, e insieme indagine sull’esperienza di coloro che la formulano e sul grado di maturità delle risposte difensive, esplicite o implicite, di chi ne è oggetto – tutti noi, prima o poi. La ragione del riferimento alla sequenza onirica del capolavoro bergmaniano è chiara: nella sua relazione al paziente, ogni medico, ogni terapeuta esercita un potere, e lo fa appunto già attraverso la congettura diagnostica che identifica la malattia o il disturbo patiti.
Quello della diagnosi è il momento di una definizione che può salvare e riorientare una vita, ma anche costingerla nel perimetro di false evidenze e pregiudizi deteriori; è l’atto che può assegnare la persona a una terapia adeguata, condurla al riconoscimento dell’enigma della «psiche del suo corpo», aprirle una nuova possibilità di cura di sé, oppure imprigionarla nella gabbia di un tipo morboso classificato, riducendo perentoriamente l’individualità del paziente alle misure di un codice prestabilito che, socialmente e storicamente condizionato, può anche essere stigmatizzante (Lingiardi ricorda il caso prototipico dell’«omosessualità», che, come si sa, a lungo è stato il nome di una malattia).
L’argomento è assai delicato, restituito dall’autore sul filo di una domanda che – già oggetto di una ricca letteratura – potrebbe essere così condensata: in medicina e in psicologia la diagnosi è portatrice anzitutto di una spersonalizzazione del paziente, di uno slittamento nella tecnicità che riduce la persona a cosa tra le cose, oppure rappresenta un atto clinico dotato, nel bene e nel male, di un valore di conoscenza irrinunciabile, foriero del tentativo di rispondere ai limiti del corpo, all’inafferrabile mobilità della vita nel suo strutturale rapporto con il sintomo, l’infermità, la morte?
Forte della lezione psichiatrico-fenomenologica come dell’apporto psicoanalitico, e ottimamente istruito da quel sensibilissimo sismografo dei terremoti morbosi che è la letteratura, Lingiardi sa che, per rispondere, è bene evitare ogni posizione unilaterale, sottrarsi alle polarizzazioni in cui le interpretazioni pro o contro la diagnosi (e i manuali diagnostici, a cominciare dal controverso DSM, Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders) manifestano la loro rivalità anche e forse soprattutto nell’epoca della progressiva scomparsa della medicina generale in favore di quella specialistica, dell’informatizzazione, diffusione e fruizione on line del sapere medico, dell’adozione di procedure cliniche sempre più standardizzate.
Il ricorso a un sapiente intarsio citazionale che, accanto ai teorici e ai saggisti, convoca pagine splendide, spesso poco note, di Franz Kafka, John Donne, Philip Roth, Raymond Carver, Allen Ginsberg, Lev Tolstoj, Virginia Woolf, Marcel Proust e altri, consente all’autore di insistere su una convinzione decisiva che, puntando al cuore stesso della relazione tra medico e paziente, è finalizzata a valorizzare la possibilità reale di una vera e propria alleanza terapeutica.
L’atto diagnostico è davvero il luogo vitale di una simile possibile alleanza quando non indietreggia di fronte alla profonda problematicità della propria natura e con le parole di Karl Jaspers, non smette di «rappresentare un tormento» per il clinico. Quando cioè diviene il luogo di una tensione fondamentale tra osservazione della persona malata e partecipazione ai modi in cui essa vive e nomina la sua patologia, tra la riconduzione del paziente a una categoria piú generale e il riconoscimento della sua unicità, dei modi in cui malattia e disturbo psichico ne singolarizzano la vita.
Valido diagnosta è chi considera la traduzione di leggi generali in declinazioni particolari, da un lato, e la formulazione di ipotesi generali a partire dall’incontro con il caso particolare, dall’altro, non come modi opposti della conoscenza, bensì come due momenti di un ritmo più ampio di esperienza che li congiunge e che consente di rispettare la parte di ignoto e indeterminato che insiste nella vita di ogni soggetto.
Con questa posta in gioco essenziale: cogliere i punti di forza, comunicare le specifiche risorse di cui ogni paziente dispone nell’incontro con quello che Virginia Woolf chiama il «miracolo del dolore»: incontro certo disastroso e indesiderato, ma anche capace di aprire la strada a un ripensamento complessivo e a una conoscenza rinnovata di sé.

Repubblica 14.10.18
Che male fa
di Vittorio Lingiardi


O Signor, per cortesia, manname la malsania». Così il poeta duecentesco Jacopone da Todi. Non è questo lo stato d’animo di Nadia Toffa quando usa il termine " dono", parola difficile e dai personalissimi significati, per parlare della sua diagnosi di tumore, causando l’indignazione o la rabbia di molti che, nell’ardua prova della malattia, non hanno avuto la fortuna del dono, ma la sventura del furto. Qualcosa di rubato, strappato per sempre. Magari con parole non perfettamente calibrate e certo appiattite dalla condivisione sui social ("sono riuscita a trasformare quello che tutti considerano una sfiga in un dono"), mescolando il bisogno di infondere forza agli altri e a sé stessa, questa giovane donna (avete notato che, da Lea Pericoli a Pia Pera, è sempre il coraggio delle donne a dar voce alla malattia?) ci ha ricordato una cosa in apparenza scontata ma carica di implicazioni: quando una malattia suona alla porta di casa ciascuno ha il suo modo di rispondere. Perché non tutti affrontiamo lo spavento e il dolore con la stessa personalità e gli stessi meccanismi di difesa. Questa considerazione semplice ci consegna direttamente all’etimologia della parola diagnosi come processo di conoscenza (del medico che la pronuncia, certo, ma anche del paziente che la riceve). La prova della malattia, infatti, la traversata di dolore che comporta, è un processo di autoconoscenza: i nostri limiti e le risorse, le nostre speranze e le illusioni. Che ne facciamo, sul piano psichico, di quella notizia e di quel dolore? È alla luce di questa domanda che vanno lette le parole di Toffa e la lettera che, a seguire, Mariangela Tarì, madre di due bambini gravemente malati, scrive a questo giornale: "Devo dare a tutto questo un vestito che non sa di morte ma di vita".
I meccanismi di difesa — dalla negazione alla sublimazione, dall’altruismo alla rimozione — sono la funzione psicologica e comportamentale con cui rispondiamo, in modo più o meno maturo e adattivo, a ciò che ci minaccia. Quando si tratta di " gestire" il dolore, meccanismi di difesa e stile di personalità sono in prima linea. Lottano per proteggerci dall’angoscia, inventano possibilità di sopravvivenza mentale. C’è chi si rinchiude e chi si apre, chi parla e chi tace, chi nasconde e chi socializza, chi chiede aiuto e chi fa da solo. Chi si arrabbia, chi si deprime, chi si trasforma. C’è chi perde la fede e chi la trova. Chi aiuta gli altri e chi li detesta perché "loro" non sono malati. Ma se non si parla col proprio dolore, sarà difficile parlare con la propria malattia.
Sia chiaro: la vita psichica non ha alcun ruolo nella formazione e nello sviluppo di una malattia neoplastica. Ma l’atteggiamento psicologico del malato e di chi gli sta intorno può influire sulla risposta alla diagnosi e alla cura. Aiuta a dar forma alla paura. Forse questo voleva dire Toffa con quel " riuscire a trasformare". Questo intendeva Tarì con quel " lavoro messo in campo dal cervello per garantirsi una sopravvivenza". "Amare" la malattia è a sua volta una "malattia", ma cercare di darle, non direi un senso, ma almeno un posto, è salute. Accasare il dolore, non lasciare che se ne vada in giro a fare danni. Ecco allora che la frase che meglio ci aiuta nel difficile, spesso impossibile, cimento di comprendere (cioè prendere con sé, contenere) la malattia dentro la vita, non è quella di Jacopone da Todi ma questa di Marguerite Duras: "Il dolore è tra le cose più importanti della mia vita".
Alla fine degli anni Settanta, in un libro intitolato Malattia come metafora, Susan Sontag ha descritto con forza i rischi della malattia vissuta come colpa o, peggio, espiazione. La malattia non ha significato, dice, e non c’è niente di più primitivo che attribuirgliene uno, perché inevitabilmente sarebbe moralistico. Nel riconoscere l’impatto sociale delle rappresentazioni psicologiche della malattia, in particolare tubercolosi, cancro e Aids, Sontag combatte perché siano tenute ben separate e non contagino la realtà scientifica della medicina. Mettendoci giustamente in guardia dai pericoli della malattia come metafora, Sontag rischia tuttavia di sottovalutare i significati personali, le battaglie, i fantasmi, le mitologie. Difficile funzionare psichicamente senza creare metafore. Difficile pensare al "mal sottile" della Signora delle camelie, all’Aids di Foucault, all’epilessia di Dostoevskij, alla psicosi di Van Gogh e al tumore di Terzani ("ormai mi incuriosisce di più morire. Mi dispiace solo che non potrò scriverne"), senza la scia di contenuti personali che queste diagnosi portano con sé. Eppure Sontag è irremovibile: nessuna metafora, nessuna psicologia, nessuna interpretazione: " Si parla della malattia come di qualcosa che ti dona nuova profondità. Io non mi sento più profonda".
Di fronte al dolore della diagnosi il malato non ha mai un volto solo. Vuole sapere e non sapere; essere consolato come un bambino (era questo il grande desiderio di Ivan Il’i? nell’opera meravigliosa di Tolstoj), ma anche trattato come un adulto; avere un medico che decide per lui, ma che al contempo rispetta le sue decisioni. Spesso i malati fluttuano tra consapevolezza e illusione, conoscenza e negazione, razionalità e pensiero magico. Ho un approccio scientifico e materialista alla malattia e non intendo rinunciarvi. Ma la malattia, spesso più forte della ragione, resiste all’idea ragionevole di essere separata dalla nostra psiche (personale e collettiva). Essa apre e chiude le porte della vulnerabilità, della caducità, della mortalità. Esasperando l’evidenza, ogni giorno rimossa, per cui ogni ora di vita è un’ora in più per la morte.
Oltre alla malattia c’è il malato con la sua storia, la sua personalità e le sue difese. C’è Nikolaj Stepanovi? di Cechov, il cui incontro con la malattia diventa occasione di risveglio alla vita e metafora della condizione umana. Se non è dal malato che dipende l’esito della malattia (la tanto invocata a sproposito " volontà di guarire"), da lui possono dipendere il percorso, la narrazione e l’esperienza. È l’inevitabile incontro tra l’umano e il suo dolore.
Ammalarsi è un fatto che mette in azione il nostro sistema di difese psichiche, non solo immunitarie. Chiama in causa le nostre competenze cognitive e affettive. Non si tratta di sposare il paradosso che fa scrivere a Kafka: "Nella malattia rivelo tutto il mio essere […] trovo la mia vera vita". Né di metaforizzare la malattia idealizzandola fino ad affermare, con Thomas Mann, che l’uomo "è tanto più uomo quanto più è malato". Se nobilitare la malattia può essere un modo di difendersi, identificandosi con l’aggressore, anche minimizzare il lavoro psichico e l’elaborazione fantastica che la malattia sempre richiede mi sembra un modo di proteggersi puntando soltanto sul lume della nostra ragione.
La malattia, come il dolore, è una condizione della vita, un territorio della nostra cittadinanza. Quando non è un raffreddore, incontrarla implica sempre una ridefinizione radicale della propria soggettività, una domanda sul senso del passato e del futuro, dunque dell’identità. Può riservare sorprese. Ho sentito persone perdonare il dolore perché — al tempo stesso grazie e nonostante questo — avevano finalmente parlato con sé stesse. Non si tratta di un osceno elogio della malattia, semmai del vivere nel dialogo inevitabile col morire. La malattia e il suo dolore possono contenere un paradosso: costringerti a presentarti alla vita.

Corriere 14.10.18
Stephen Hawking
Ecco il libro testamento dello scienziato dei buchi neri: «Ho attraversato l’intero universo, la mia vita è stata straordinaria» «A scuola non ero un genio»
«Ho dato il mio contributo alla comprensione dell’universo, ma esso sarebbe vano se non fosse per le persone che mi amano: senza di loro, ai miei occhi tutta la meraviglia perderebbe di significato»
di Stephen Hawking


DA SEMPRE, le persone cercano delle risposte alle grandi domande. Da dove veniamo? Come è nato l’universo? Qual è il disegno, il significato profondo che sta dietro a ogni cosa? C’è qualcuno lassù? I racconti della creazione tramandati nel passato, che oggi sembrano meno attendibili, sono stati sostituiti da una varietà di credenze — che potremmo solo definire «superstizioni» — che spaziano dalla New Age a Star Trek. La scienza, però, può risultare anche più strana della fantascienza, e molto più soddisfacente. Io sono uno scienziato con un profondo interesse per la fisica, la cosmologia, l’universo e il futuro dell’umanità. I miei genitori mi hanno insegnato a coltivare un’insaziabile curiosità e a provare a rispondere, come mio padre, alle molte domande che la scienza ci pone. Ho trascorso la vita intera viaggiando nel cosmo, senza mai uscire dalla mia mente. Attraverso la fisica teorica, ho cercato le risposte ad alcune delle grandi domande. A un certo punto, ho pensato che avrei assistito alla fine della fisica come la conosciamo, oggi, invece, ritengo che anche dopo che me ne sarò andato gli uomini continueranno per molto tempo a godere della meraviglia delle scoperte scientifiche. Siamo vicini ad alcune di queste risposte, ma non ci siamo ancora arrivati.
Il problema è che molti credono che la scienza sia troppo complicata, e fuori dalla loro portata. Io non lo penso affatto. Per condurre una ricerca sulle leggi fondamentali che governano l’universo è di certo necessario un dispendio di tempo, che la maggior parte della gente non può permettersi: se tutti ci dedicassimo alla fisica teorica, nel giro di poco il mondo si fermerebbe. Tuttavia, quasi tutti sono in grado di comprendere e apprezzare le nozioni di base se vengono spiegate loro in modo chiaro e senza equazioni, cosa che ritengo possibile e che talvolta mi sono dilettato a fare.
Ho vissuto l’epoca più memorabile per la ricerca nella fisica teorica. Negli ultimi cinquant’anni, il nostro quadro dell’universo è cambiato moltissimo, e sarò felice se avrò dato anch’io un contributo a questa trasformazione. Una delle grandi rivelazioni portate dall’era spaziale è la nuova prospettiva sotto cui l’umanità ha imparato a guardare se stessa: quando osserviamo la Terra dallo spazio, ci vediamo come un tutt’uno. Percepiamo l’unità, non le divisioni. È un’immagine che, nella sua grande semplicità, trasmette un messaggio molto forte: un unico pianeta, una sola razza umana.
Voglio aggiungere la mia voce a quelle di coloro che chiedono un intervento immediato sulle sfide chiave della nostra comunità globale. Spero che in futuro, anche quando non sarò più qui, le persone che governano il mondo siano in grado di mostrare creatività, coraggio e leadership.
Mi auguro che si dimostrino all’altezza della sfida posta dagli obiettivi di uno sviluppo sostenibile, e che agiscano non per il loro interesse personale ma per il bene comune. Sono del tutto consapevole della preziosità del tempo. Cogliete l’attimo.
Agite ora.
(...)
Sono nato esattamente tre secoli dopo la morte di Galileo, e mi piacerebbe pensare che questa coincidenza abbia impresso una direzione allo sviluppo che la mia vita ha avuto nel campo scientifico. Tuttavia, secondo i miei calcoli, in quello stesso giorno dovrebbero essere nati circa duecentomila altri bambini, e non so quanti di loro abbiano poi mostrato un qualche interesse per l’astronomia.
(...)
Non fui mai uno degli studenti migliori — era una classe di ragazzi molto intelligenti e io ero più o meno nella media —, ma i compagni mi diedero comunque il soprannome di «Einstein»; può darsi, quindi, che intravedessero in me i segni di una qualche potenzialità. Quando avevo dodici anni, uno dei miei amici scommise con un altro un sacchetto di caramelle che non sarei mai diventato nessuno.
(...)
La prima edizione di Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo fu pubblicata il 1° aprile 1988. Non mi aspettavo che il libro riscuotesse un tale successo. Senza dubbio ha contribuito l’interesse della gente per la mia storia, per il fatto che io sia riuscito a diventare un fisico teorico e un autore di bestseller nonostante la mia disabilità. Magari non tutti i lettori saranno arrivati fino in fondo o avranno capito ogni passaggio, ma perlomeno hanno avuto modo di confrontarsi con una delle grandi domande della nostra esistenza e di maturare l’idea che viviamo in un universo governato da leggi razionali che possono essere scoperte e comprese attraverso la scienza. Per i miei colleghi sono soltanto un fisico tra i tanti, ma per il grande pubblico sono forse diventato lo scienziato più famoso del mondo. Ciò è in parte dovuto al fatto che (con l’eccezione di Einstein) gli uomini di scienza non sono certo popolari quanto le rockstar, e in parte perché rispecchio lo stereotipo del genio disabile. Non posso camuffarmi con una parrucca e un paio di occhiali scuri: la sedia a rotelle mi tradisce. Essere famosi e riconoscibili è una cosa che presenta vantaggi e svantaggi, ma questi ultimi sono più che compensati dai primi. Le persone sembrano davvero contente di vedermi. Nel 2012, quando ho aperto le Paralimpiadi a Londra, ho anche raggiunto il mio record di audience.
Ho avuto una vita straordinaria su questo pianeta, al contempo attraversando l’intero universo con la mia mente e le leggi della fisica. Sono arrivato agli estremi confini della galassia, ho viaggiato in un buco nero e sono tornato indietro fino all’inizio del tempo. Sulla Terra, ho visto alti e bassi, turbolenze e tranquillità, successo e sofferenza. Sono stato ricco e povero, fisicamente abile e disabile. Sono stato lodato e criticato, ma mai ignorato. Grazie al mio lavoro, ho avuto l’enorme privilegio di contribuire alla comprensione dell’universo. Ma l’universo sarebbe vuoto se non fosse per le persone che amo e che mi amano: senza di loro, ai miei occhi tutta la sua meraviglia perderebbe di significato.
(...)
Spero che un giorno troveremo le risposte a tutte le nostre domande. (...) Come riusciremo a nutrire una popolazione mondiale sempre più numerosa? A fornirle acqua potabile, a produrre energia rinnovabile, a prevenire e curare le malattie e a rallentare il cambiamento climatico globale? Mi auguro che la scienza e la tecnologia ci forniranno le risposte a queste ulteriori domande, ma per implementare le soluzioni non si potrà fare a meno degli esseri umani,con le loro conoscenze e la loro capacità di comprendere il reale.
Lottiamo perché ogni donna e ogni uomo possano vivere delle vite sane e sicure, piene di opportunità e di amore. Siamo tutti viaggiatori del tempo, incamminati verso il futuro, ma dobbiamo lavorare insieme per rendere quel futuro un posto piacevole da abitare.
Siate coraggiosi, curiosi e determinati, anche quando le condizioni giocano a vostro sfavore. Potete farcela!
Stephen Hawking
Le mie risposte alle grandi domande
Traduzione di Daniele Didero

Il Fatto 14.10.18
Vittorini fa l’“Americana” tra flirt e censura fascista
Le note di Cesare Pavese sulla Pivano e il regime
Vittorini fa l’“Americana” tra flirt e censura fascista
di Massimo Novelli


È stata una delle imprese editoriali italiane più travagliate e straordinarie del Novecento: l’avventura di Americana, la leggendaria antologia di scrittori statunitensi che Elio Vittorini e l’editore Valentino Bompiani riuscirono a pubblicare nell’ottobre del 1942, in piena guerra mondiale e con gli Stati Uniti nemici, tra censure fasciste, tagli redazionali e svariate peripezie.
Fu davvero romanzesca la gestazione della raccolta che proponeva agli italiani, oltre ai grandi classici (da Washington Irving a Poe, Melville, Hawthorne, Twain, Jack London, Henry James, Dreiser), le pagine di narratori come Francis Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway, John Steinbeck, Sherwood Anderson, Erskine Caldwell, John Fante. Romanzesca al punto che, nelle vicende che vi si sono intrecciate, spunta anche una traccia dell’amore senza speranza che Cesare Pavese nutrì per la giovane allieva Fernanda Pivano.
Lo testimoniano le bozze della prima edizione dell’antologia di Vittorini, mai uscita per il divieto da parte del regime mussoliniano. L’autore de La luna e i falò la ebbe da Vittorini, la fece rilegare e la regalò alla Pivano. Vi scrisse una dedica un po’ ironica e amara: “A Fernanda con affetto quasi fraterno, Pavese 18 luglio ’42”.
A rintracciare e pubblicare la dedica di Pavese nelle bozze di Americana, custodita presso la Fondazione Benetton-Biblioteca Pivano, è stato Claudio Pavese, omonimo (senza parentele) dello scrittore di Santo Stefano Belbo. È una delle scoperte, come i frammenti poco noti di lettere di Cesare Pavese e di Elio Vittorini, che si possono fare grazie al suo saggio L’avventura di Americana. ElioVittorini e la storia travagliata di una mitica antologia. Il libro, che si avvale di preziose illustrazioni, è in uscita da Unicopli nella collana “Le quinte” diretta da Mauro Chiabrando.
Collezionista e studioso, Pavese ama definirsi un “archeologo dell’editoria”. E da archeologo appassionato ha ricercato, catalogato e comparato i vari momenti dell’avventura di Americana, che Cesare Pavese giudicò come “una storia letteraria vista da un poeta come storia della propria poetica”. Il lavoro di Vittorini legato all’antologia, racconta, “viene avviato nella primavera del ’40 e procede a forti ritmi anche perché l’obiettivo di Valentino Bompiani è quello di pubblicare il primo volume della nuova collana per le feste natalizie di quell’anno”.
Ma Alessandro Pavolini, ministro della Cultura popolare, lo fermò. Lo fece con una lettera del 7 gennaio 1941, in cui, tra le altre cose, affermava: “Rispondo con ritardo alla vostra del 30.11.’40… l’opera è assai pregevole per il criterio critico della scelta e dell’informazione e per tutta la presentazione. Resto però del mio parere, e cioè che l’uscita – in questo momento – dell’antologia americana non sia opportuna. Gli Stati Uniti sono potenzialmente nostri nemici; il loro Presidente ha tenuto contro il popolo italiano il noto atteggiamento. Non è il momento per usare cortesie all’America, nemmeno letterarie”.
Non occorre ricordare, scrive Claudio Pavese, “quanto l’America, a partire dagli anni ’30 e fino ai primi anni del dopoguerra, avesse rappresentato, per tutta una schiera di intellettuali e di liberi pensatori italiani, l’altrove, il luogo del mito e del sogno, la terra della grande speranza. O più in breve, usando le parole di Italo Calvino, ‘una terra d’utopia, un’allegoria sociale’”.
L’antologia dei narratori americani poté vedere la luce solo nell’ottobre del ’42. L’uscita fu resa possibile in quanto l’opera era stata “rammendata” con l’introduzione affidata allo scrittore Emilio Cecchi, accademico d’Italia e perciò gradito al regime fascista, e soprattutto con l’eliminazione delle note critiche di Vittorini. Pavese, a questo proposito, il 25 maggio del ’42 gli scrisse: “Penso ti faccia piacere sentire che siamo tutti solidali con te ‘contro Cecchi’. La sua introduzione è canagliesca – politicam e criticam”. La riga, chiosa Claudio Pavese, “fu omessa nelle lettere pubblicate” da Einaudi.

Corriere 14.10.18
Riletture Considerazioni in margine a «M. Il figlio del secolo», da settimane in vetta alle classifiche
Il romanzo che ritocca la storia
Incongruenze, sviste e anacronismi per il Mussolini di Antonio Scurati
di Ernesto Galli della Loggia


Voglio sperare che ancora oggi se a un esame di licenza liceale uno studente attribuisse a Carducci l’espressione «la grande proletaria» (invece che a Giovanni Pascoli, che la coniò per l’Italia che si accingeva a occupare la Libia ), e definisse Benedetto Croce un «professore» (lui che per tutta la vita gratificò di tutto il disprezzo immaginabile l’Università e i suoi professori, che fu l’antiaccademismo vivente), voglio sperare, dicevo, che lo sciagurato correrebbe seri rischi di essere bocciato.
Non si tratta di due errori qualunque, infatti. Sommati significano in pratica non essere in grado di orientarsi nella storia culturale italiana della prima metà del Novecento. Non possedere alcuni punti di riferimento essenziali. Se poi il medesimo studente avesse pure sbagliato la data di Caporetto, avesse detto che Antonio Salandra, presidente del Consiglio che decise l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, «porta sulla coscienza sei milioni di morti» (un antesignano pugliese di Hitler insomma), avesse poi definito Antonio Gramsci «un politologo», avesse scritto che alla Scala nel 1846 lavoravano degli «elettricisti» e che nel 1922 al Viminale ticchettavano «le telescriventi», e poi ancora, come se non bastasse, a commento della marcia su Roma avesse riportato alcune righe attribuendole a «Monsignor Borgongini Duca, ambasciatore inglese presso la Santa Sede» (!!) , e a commento della seduta della Camera sulla fiducia al governo Mussolini avesse citato una lettera di Francesco De Sanctis datandola 17 novembre 1922 (quando l’autore avrebbe avuto 105 anni!), beh: spero proprio che a questo punto il suddetto studente sarebbe sicuro di prendersi una solenne bocciatura.
O forse no, chissà. Infatti tutti gli svarioni citati (ce ne sarebbero altri minori, ma non mi sembra il caso di pignoleggiare) fanno bella mostra di sé nell’acclamatissimo libro di Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo, Bompiani editore, da settimane in testa alle classifiche delle vendite (rispettivamente alle pagine: 199, 537 e 784, 12, 837, 835, 498 e 571, 601, 610).
Che dire? Solo un paio di osservazioni. La prima è la constatazione, ancora una volta, della devastante mancanza di editing nella maggior parte dell’editoria italiana. In pratica, se tanto mi dà tanto, si deve credere che basti avere un minimo di nome per poter andare con un testo in mano da Bompiani (ma lo stesso accadrebbe, sono sicuro, con molte altre case editrici) e vedersi pubblicata qualsiasi castroneria, perché non c’è neppure uno che dia un’occhiata preliminare. Anche questo mi pare un sintomo, piccolo ma significativo, della decadenza italiana. Del modo raffazzonato con cui da noi si è ormai soliti fare troppe cose.
La seconda osservazione riguarda la critica, cioè i numerosi recensori del libro. Come è mai possibile, mi domando, che nessuno (sono pronto a ricredermi se sbaglio, ma non credo) abbia notato neppure di sfuggita degli svarioni così marchiani?
Le risposte possibili sono due. O bisogna pensare che alle recensioni plebiscitariamente favorevoli, spesso entusiastiche, in realtà non abbia corrisposto l’effettiva e completa lettura del testo, ovvero che chi ne ha parlato non abbia notato gli svarioni di cui sopra apparendogli questi insignificanti o perché condivideva con il suo autore il medesimo livello di conoscenza della storia patria. In entrambi i casi un esempio non proprio esaltante, anche qui, di quale Paese sia l’Italia attuale.
Infine c’è il problema Scurati. Laureato in filosofia e docente universitario, dal quale uno non si aspetterebbe certo la disinvoltura, chiamiamola così, mostrata in queste pagine. Tanto più che lo stesso ci ha tenuto a dichiarare in un’ intervista: «Mi sono assegnato un criterio rigidissimo, nessun personaggio, accadimento, discorso o frasi narrati nel libro sono liberamente inventati». Per poi aggiungere: «L’antifascismo non regge più ai tempi nuovi (…) va ripensato su nuove basi. Raccontare il fascismo, per la prima volta in un romanzo attraverso i fascisti e senza pregiudiziali ideologiche, è il mio contributo alla rifondazione dell’antifascismo».
Già, caro Scurati: ma c’è modo e modo di «ripensare» e di «rifondare».
Se il nuovo antifascismo è questo qui, allora davvero si è tentati di dire — e se lo dice uno come me può crederci — «Ridateci quello di prima!». Che almeno sul piano delle date e delle citazioni aveva le carte in regole.

Corriere La Lettura 14.10.18
Stati Uniti Psicologia
L’ossessione di proteggere i ragazzi li rende fragili
di Chiara Lalli


«Fidatevi sempre del vostro istinto» è uno dei consigli più comuni e più rovinosi. Insieme all’ossessiva percezione della nostra fragilità e alla semplicistica divisione del mondo in buoni e cattivi, è un perfetto ingrediente del disastro. Sono queste le tre pessime idee che Jonathan Haidt e Greg Lukianoff analizzano in The Coddling of the American Mind («Viziare la mentalità americana», Penguin, pp. 352, $ 28). Il problema, riassunto nel sottotitolo, è «perché le buone intenzioni non bastano e stanno condannando un’intera generazione al fallimento». Riferendosi agli Usa, Haidt e Lukianoff non possono non partire dal mondo dei college. Un universo in cui ormai tutti si offendono e non si sentono al sicuro, finendo così per criminalizzare qualsiasi idea più complessa rispetto a una visione manichea, ogni discorso non anestetizzato da un processo preventivo che mira a eliminare qualsiasi forma di provocazione culturale. È giusto tutelare gli studenti, ma se i confini della protezione ingoiano tutto, essa diventa dannosa e insensata. Una ipotesi o un discorso possono essere scorretti e disturbanti, ma oggi in molti pensano che possano davvero danneggiare chi ascolta. Gli studenti sono così condannati all’incapacità di difendersi e di affrontare situazioni complesse e frustranti. Il guaio è che è possibile anestetizzare il mondo universitario, ma prima o poi il college finirà e quella generazione sarà la più fragile di sempre. A ciò contribuisce la paranoia genitoriale che vede pericoli ovunque. Non è solo irrazionale, esagerare i rischi è disastroso. Oggi e in futuro, quando gli eterni fanciulli se la dovranno vedere con il mondo quasi del tutto impreparati.
In realtà abbiamo un problema cognitivo. L’incapacità di ragionare criticamente è nociva. E le conseguenze sono ben visibili in tutte le discussioni: dal cambiamento climatico fino alla delirante polemica sulla bottiglietta di acqua Evian firmata Chiara Ferragni. Non solo. Se osservassimo un panorama meno ristretto del caso aneddotico, ci accorgeremmo che viviamo meglio rispetto al passato. Lasciarsi sedurre dalla nostalgia è un altro effetto del fidarsi (erroneamente) del proprio istinto. Steven Pinker è tornato su questo errore cognitivo nel libro Enlightenment Now («Illuminismo ora », Viking, pp. 576, e 35). La fobia per il progresso affligge anche molti progressisti. Basta pensare a quanti sono convinti che il mondo vada sempre peggio, benché i dati ci dimostrino il contrario. Ma siamo istintivi e sensibili, e abbiamo più paura degli aerei che delle auto (sbagliando). Come siamo certi che i tornado e l’Isis facciano molte più vittime dell’asma. Ma non è vero, anche se i tornado e i terroristi islamici vengono meglio in tv.

Il Sole Domenica 14.10.18
Chiavi di lettura
Dante debitore di Tommaso d’Aquino
di Armando Torno


Una filastrocca di Umberto Eco, contenuta ne Il secondo diario minimo, ritrae alcuni grandi filosofi. Ecco dei versi sul pensatore oggetto della sua tesi di laurea: «San Tommaso l’Aquinate/ le due Summae ha elaborate/ con il fare suo giocondo/ per ridurre tutto il mondo/ a un sistema di risposte/ calibrate e ben disposte/ che, con formule sagaci,/ senza fallo sian capaci/ di spiegar nel loro intrico/ da buon Dio fino al lombrico». Di là dei sorrisi suscitati da tali rime, Tommaso resta un pensatore di riferimento per il mondo cattolico (anche se numerosi teologi hanno smesso di leggerlo) e per molte questioni di filosofia moderna. Si prenda, per esempio, l’esame che offre nella Summa Theologiae della proprietà privata, subordinandone il diritto alla “destinazione universale” dei beni della Terra. O quel che ricorda, nella medesima opera, sull’ipocrisia: in tal caso ne evidenzia le forme gravi e veniali, sbugiardando chi la adotta per scopi politici. Sono soltanto cenni. Ai quali si potrebbe aggiungere: senza Tommaso non è comprensibile Dante, né è possibile intendere scelte che per secoli hanno avuto peso nella storia della Chiesa.
Rammenta uno dei celebri studiosi del pensiero medievale, Étienne Gilson, nel saggio Dante e la filosofia (tradotto da Jaca Book), che il poeta studiò Aristotele con l’aiuto dei commentari di Tommaso. In particolare, i debiti di Dante verso l’autore della Summa Theologiae si riscontrano soprattutto nel Convivio, dove si conta almeno un’ottantina di riferimenti ad Aristotele, il filosofo che nel IV canto dell’Inferno è definito ’l maestro di color che sanno.
Dante non dipende esclusivamente da Tommaso, ma senza la sua opera non sarebbero spiegabili taluni argomenti trattati dal poeta, già approfonditi dal pensatore. Per esempio, quando nel XXIX canto del Paradiso e nel Convivio l’Alighieri intende la natura degli angeli come “sustanze separate da materia”, concorda con il filosofo; tuttavia non lo segue quando Tommaso nella Summa Theologiae tratta della diversità “in specie” di ciascun angelo.
Questo discorso si è cominciato per segnalare l’uscita di una prima traduzione mondiale di un’opera di Tommaso: il Commento al Vangelo secondo Matteo, due volumi curati da Roberto Coggi, con testo a fronte. Si aggiunge alle numerose che i Domenicani mettono a disposizione dei lettori contemporanei; inoltre sta uscendo una nuova traduzione commentata della Summa Theologiae presso Città Nuova, della quale è ora disponibile il secondo tomo.
Il Commento a Matteo è di notevole importanza, anche perché tale Vangelo contiene notizie uniche tra quelle presenti nei canonici. Per esempio, alcuni particolari riguardanti l’infanzia di Gesù (la visita dei Magi o la strage degli innocenti) o il passo più celebre su cui si fonda il primato di Pietro, il potere del papa: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Matteo 16, 18-19).
Lutero osserverà che in Matteo 18, 18 la facoltà di legare o sciogliere è data ai discepoli, cioè a tutta la Chiesa, e così va intesa. Tommaso nel Commento ricorda che Gesù rivolgendosi a Pietro parla di “cieli” e poi di “cielo”. Ne deduce che lui ha un “potere universale”, gli altri “in qualche luogo”. Aveva seguito Origene, ma il suo cavillo sarà prezioso per i gesuiti della Seconda Scolastica.
Commento al Vangelo secondo Matteo
Tommaso d’Aquino
2 voll. Edizioni San Clemente, Edizioni Studio Domenicano, Bologna,
pagg. 1192 e 1192, € 49 al volume

Il Sole Domenica 14.10.18
Leggi razziali. A 80 anni dalle infami misure contro gli ebrei, la lettera del medico Naftoli Emdin, espulso dall’università di Pisa, ai figli
Guardiamo al futuro con dignità
di Naftoli Emdin


Ragazzi miei, scrivo per voi perché comprendo come nei vostri cervelli ancor giovani e freschi e non abituati a una visione più vasta e più calma delle cose umane, gli avvenimenti di questi ultimi giorni abbiano potuto produrre un certo smarrimento del pensiero con un’amara ed angosciosa sensazione di un’ingiustizia immeritata e non vorrei che questo smarrimento e questa angoscia lasciasse in voi quel senso d’inferiorità ch’è così molesto, doloroso e dannoso e che potrebbe pregiudicare la regolarità e la dirittura del vostro cammino su quella via della vita che per noi è sempre stata difficile e che ora minaccia ad essere ancora più difficile in Italia per la vostra generazione. La difficoltà della vita, ragazzi miei, si combattono e si vincono, ma per combattere e per vincere bisogna essere forti bisogna sentirsi forti, bisogna portare nel più profondo, nel più intimo dell’animo nostro, quella fierezza del nostro essere, quella incrollabile certezza della nostra ragione, quella luminosa fiamma affidataci dai nostri padri e, ricordatelo bene, mai spentasi da quando Israele è comparso sull’agone della Storia.
Solo levando alta nei nostri cuori la fiamma della nostra dignità, solo guardando dritto negli occhi di chi cerca di vilipenderci potremo infondere negli altri il rispetto verso di noi stessi, anche se la bocca avversaria cercherà di ricoprirci di contumelie e chi ci odia accumulerà sulla nostra via ostacoli uno più difficile dell’altro. La meta che dovrà stare sempre davanti a noi, non è quella che gli altri parrebbero indicarci ma è quella che noi portiamo nei nostri cuori: non è il farsi perdonare la nostra origine, è quella invece che ci comanda si essere orgogliosi e fieri di quelli che siamo pur rispettando ed apprezzando la dignità e la fierezza di altri perché il Mondo è una creazione divina e tutti hanno diritto alla vita, quando questa vita si svolge secondo i grandi e immutabili precetti divini che si specchiano nelle leggi morali i quali rappresentano l’unica vera differenziazione fra l’Uomo e la Bestia.
Inutile sarà quindi discutere sulle cosiddette teorie che abbiamo letto e che dovremo vedere ancora più spesso esposte su tanta carta stampata, inutile sarà cercare la dimostrazione che noi siamo della stessa “razza” degli altri nostri vicini, o che questi non sono della medesima “razza” di altri ancora; inutile lambiccarsi il cervello per vedere se noi siamo “europei” come gli altri, o se gli alti sono più asiatici” di noi – tutto ciò che si scrive e si scriverà in proposito non è una scienza, ma è un indirizzo politico e gli indirizzi politici non sono delle “verità scientifiche” ma soltanto delle affermazioni aventi uno scopo immediato utilitario ben definito. Bisogna invece ricordarsi e ricordare agli altri sempre e a testa alta, che se ci vogliono considerare come una “razza differente” non potranno mai dimostrare che siamo una “razza inferiore” a meno che non arrivino alla conclusione che tutta la morale sulla quale si poggia il mondo cosiddetto “ariano” contemporaneo ha una morale “inferiore” perché derivata da questa “razza” la quale ha dato al mondo l’idea sublime dell’Unità di Dio e che attraverso la Bibbia meraviglioso prodotto del suo pensiero, attraverso il Vangelo ispirato e plasmato da uomini di pura “razza” giudaica ha portato nel groviglio dell’eterna lotta per l’esistenza, la bontà e la dolcezza di una Fede che dà conforto al credente e spinge l’animo umano verso un continuo perfezionamento.
Bisogna ricordarsi e ricordare agli altri che questa “razza differente” ha dato a piene mani a tutti un tesoro inestimabile del suo pensiero e anche del proprio sangue pagando così generosamente quell’ “ospitalità” che ora ci viene quasi rinfacciata. Centinaia di scienziati, di filosofi, di artisti a tutti i popoli, ha dato l’Israele; diecine di migliaia di morti a tutte le Patrie di adozione ha consacrato in guerra questa “razza differente”, cosicché essa non è in debito con nessuno, come pure non chiede nulla ad alcuno all’infuori della giustizia, lieta quando la trova, non abbattuta però quando non la trova, giacchè fra chi l’ingiustizia compie e chi la subisce non è certo il primo moralmente superiore. Ma, soprattutto, ragazzi miei, non ragionate con rancore nei vostri cuori e compite il vostro dovere, tutto il vostro dovere fino all’ultimo ricordando che la legge morale è in voi e per voi e, come vi fa respingere sdegnosamente ciò che è ingiusto da parte degli altri, così impone a voi stessi il dovere di essere giusti e fedeli. Uomini passano, la verità rimane e viene prima o dopo a galla; del resto chi ha errato in buona fede potrà ricredersi chi l’ha fatto in mala fede troverà castigo entro se stesso nelle ore in cui un raggio luminoso penetrerà nelle tenebre della sua anima triste.
Dignità ci vuole e non il rancore, forza e non l’odio (sono i deboli quelli che si fanno comandare dal solo odio), costanza nel lavoro e fedeltà a se stessi. Camminate sulla vostra strada ricordando che “vivere pericolosamente” è da forti, conquistando con il lavoro anche quando esso sarà duro, la vostra giornata, amando chi vi ama, commiserando chi sputa su di voi la sua bava velenosa, ripagando con riconoscenza ed affetto la Terra che vi ha dato i natali e gli uomini che vivono accanto a voi, anche se oggi li dicono di “razza” differente e ricordate che la nobiltà impone i doveri più duri e che se l’antica purezza del sangue è un titolo di nobiltà (come dice il famoso manifesto razzista italiano) non esiste alcuna altra stirpe che possa vantarsi più della nostra dell’“antica” purezza del proprio sangue.
Vostro babbo

Nell’ambito delle manifestazioni per ricordare l’80° anniversario delle leggi razziali, si svolge domani 15 ottobre a Pisa (aula magna della Scuola Sant’Anna), l’incontro «Vite sospese. Storie di docenti e studenti espulsi dall’Università di Pisa», organizzato da Ilaria Pavan (Scuola Normale), Barbara Henry e Michele Emdin (Scuola Sant’Anna). Allievi delle due Scuole ripercorreranno la vicenda di Naftoli Emdin e di altri espulsi dall’Università di Pisa: i medici Cesare Sacerdotti e Bruno Paggi, il fisico Giulio Racah, il chimico Ciro Ravenna, la studentessa Miriam Plotkin (per partecipare scrivere a : m.emdin@santannapisa.it).
Il Sole Domenica 14.10.18
Michel Vovelle (1933-2018). Addio allo studioso che ha ricostruito e raccontato la Rivoluzione francese attraverso la storia delle mentalità
La fiamma del 1789
di Sergio Luzzatto


Chi, trovandosi a Parigi negli anni Ottanta del Novecento, saliva la scala C della Sorbona fino su al terzo piano – fino alle stanze dell’Institut d’Histoire de la Révolution française – veniva accolto da un omino di mezza età, rotondetto e sorridente, che pareva un ottocentesco curato di campagna. Ma proprio come il balzachiano curé de village, quell’omino nascondeva, dietro l’aspetto bonario, una forza di volontà a tutta prova. Anche lui aveva il «pallore della costanza». E anche lui ti guardava con due occhi che «bruciavano di speranza». Perché Michel Vovelle andava allora combattendo la sua battaglia del Bicentenario. Mentre definitivamente si esauriva, all’Ovest come all’Est, il mito della Rivoluzione russa, Vovelle si industriava per tenere accesa la fiamma della Rivoluzione francese. Giorno dopo giorno si dava da fare affinché il 1989, il secondo centenario della presa della Bastiglia, non venisse infiorato unicamente con mazzi di crisantemi.
Missione difficile, forse impossibile. La crisi mondiale del comunismo proiettava infatti le sue ombre all’indietro nel tempo, molto all’indietro, sino alla Francia delle ghigliottine e del Terrore. Più che di Michel Vovelle, nei salotti parigini si discuteva allora di François Furet: si ragionava di come e di quanto il giacobinismo del Settecento già avesse contenuto, nel suo grembo ideologico, il bolscevismo del Novecento. Ma Vovelle non se ne dava per inteso, lui che si era iscritto al Partito comunista francese nel 1956, «quando tutti gli altri ne uscivano». E che avrebbe continuato a dirsi comunista, «ostinatamente fedele», per decenni ancora, ben oltre il Duemila.
In realtà, più che fedele al comunismo, si sentiva fedele al socialismo. Tenacemente si aggrappava al mito politico di Jean Jaurès, e di una tradizione rivoluzionaria da Terza Repubblica. Come numerosi altri storici della sua generazione, Vovelle era figlio di due maestri elementari. Bambino all’epoca del Fronte popolare, aveva bevuto col latte l’idea che tutto quanto di buono la Francia potesse vantarsi di avere regalato al mondo – il suffragio universale, i valori della laicità, la lotta alle diseguaglianze, la «guerra giusta» – fosse disceso dritto dritto dalle tragiche battaglie dei rivoluzionari di fine Settecento. E anche perciò, se chiamato a scegliere uno di quei rivoluzionari, Vovelle non esitava (come già Jaurès) a scegliere Robespierre: «è accanto a lui che mi vado a sedere, al club dei giacobini».
Soltanto pochi mesi fa, nell’ultimo libro pubblicato prima di morire, Vovelle si è lasciato andare a una qualche forma di revisionismo personale. A ottantacinque anni, ha confessato certi dubbi che lo hanno abitato nella vecchiaia. Perché un uomo come suo padre, il maestro socialista di provincia, non si era presentato all’appello della Resistenza? E perché lui stesso, il professorino comunista dell’École Normale, aveva accettato di servire nel 1960 – durante la guerra d’Algeria – da sergente dattilografo presso lo Stato Maggiore, anziché gettarsi anima e corpo nella lotta contro l’oppressione coloniale? Insomma quanto c’era di conformista, di convenzionale o addirittura di capzioso, nell’adesione di tanta sinistra francese a una tradizione rivoluzionaria più facile da insegnare che da reinterpretare?
Di sicuro, Vovelle non è stato conformista nei suoi studi di storia. Per decenni, ha ricostruito e ha raccontato la Rivoluzione con un’invidiabile originalità d’approccio, oltreché con una rara qualità di scrittura. Sottraendosi ad alternative striminzite – storia marxista o storia liberale, storia dall’alto o storia dal basso, storia della società o storia delle idee – Vovelle si è fatto carico di trasportare, fin lassù al terzo piano della Sorbona, i fertilizzanti della storia delle mentalità. Al centro delle sue ricerche di argomento rivoluzionario, ha ostinatamente posto lo studio dei rapporti fra tempo lungo e tempo corto, fra struttura ed evento, fra spazio locale e spazio globale, fra protagonismo individuale e mobilitazione collettiva. E ha insistito nello studiare la politica democratica come emozione, come comunicazione, come immagine (assai modernamente, no?).
Eppure non sta qui il suo contributo più innovativo e più profondo. Paradossalmente, non è da storico della Rivoluzione francese che Michel Vovelle passerà alla storia della storiografia del Novecento. Piuttosto, è da storico della sensibilità religiosa. E anzitutto da studioso del passaggio lento ma inesorabile – nel corso del Settecento – dalla «pietà barocca» alla «scristianizzazione». Già prima della Rivoluzione (dimostrò Vovelle nel 1973, sulla base di qualcosa come 20.000 testamenti conservati negli archivi di Provenza!), i buoni cristiani francesi includevano, fra le loro ultime volontà, molte meno clausole pie che all’inizio del secolo. Disponevano meno per essere sepolti all’interno delle chiese anziché in cimiteri di città o di campagna. Lasciavano meno soldi in eredità agli ordini religiosi. Richiedevano meno messe in suffragio dei defunti. Già prima della Rivoluzione, i provenzali del Settecento credevano meno nel Purgatorio, nelle indulgenze e in tutto il resto. Si affidavano meno alla Chiesa come a un’agenzia spirituale di protezione e di rassicurazione. Si preparavano dunque, in cuor loro, al disincanto del mondo.
I due libri più belli di Vovelle sono dedicati alla storia degli atteggiamenti collettivi verso la morte. L’uno, La morte e l’Occidente dal 1300 ai giorni nostri, è ben noto ai lettori italiani, grazie al catalogo Laterza. L’altro, Le anime del Purgatorio , o il lavorio del lutto, ancora attende una traduzione dal francese. Entrambi sono capolavori di una storiografia interdisciplinare, che sapientemente si muove ai confini della demografia e dell’antropologia, della sociologia e dell’estetica. Ma entrambi questi libri derivano la loro forza – oltreché dalla sicurezza di passo dello storico – dall’intensità di sentimenti del marito e del padre: nella misura in cui Vovelle si è dedicato alla storia della morte e del lutto sulla scia degli studi pioneristici di sua moglie Gaby, prematuramente scomparsa nel 1969, quando le loro due figlie erano ancora piccole.
Dagli anni Ottanta in poi, a lungo lo storico della Sorbona ha tenuto presso l’ospedale oncologico di Villejuif, periferia sud di Parigi, un corso introduttivo alle cure palliative. Lo ha fatto senza enfasi, con generosa discrezione. Come un cappellano secolare. Un curato laico del fine vita.

Il Sole Domenica 14.10.18
La radice malata dell’estremismo
Lugano. La rassegna teatrale svizzera Fit, dedicata alle biografie, ospita un’interessante riflessione di Rifici sulla brigatista rossa Mara Cagol e un lavoro della coppia Deflorian-Tagliarin su «Deserto rosso» di Antonioni
di Renato Palazzi


Si è svolta tra la fine di settembre e la prima settimana di ottobre la ventisettesima edizione del FIT Festival di Lugano, una bella rassegna di teatro contemporaneo i cui programmi - improntati a una linea sempre precisa e coerente - sono rigorosamente sviluppati attorno a un filo conduttore ogni anno diverso, tale comunque da offrire preziosi temi di riflessione sulle tendenze più innovative della scena internazionale: quest’anno i due direttori artistici, Paola Tripoli e Carmelo Rifici, hanno scelto la biografia e l’auto-biografia, scivoloso campo di indagine sugli ambigui rapporti fra realtà e finzione.
Questa edizione 2018 presentava soprattutto due titoli di rilievo, Avevo un bel pallone rosso, un forte testo di Angela Dematté su Mara Cagol, moglie di Renato Curcio e co-fondatrice delle Brigate Rosse, diretto da Rifici, che già lo aveva affrontato anni fa, e Quasi niente, il nuovo spettacolo di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, che raccolgono alla loro maniera suggestioni e spunti del Deserto rosso di Michelangelo Antonioni. In Avevo un bel pallone rosso l’autrice ricostruisce con tagliente asciuttezza la storia di una bambina di provincia appassionata di chitarra, pia, piena di nobili principi che si trasforma via via in una belva ideologica la cui feroce intransigenza sembra mettere da parte ogni sentimento umano, relegandolo forse in un remoto passato guardato con una sorta di inconfessata nostalgia subito rimossa e soffocata. Le varie tappe del suo percorso sono illustrate da una serie di incontri col padre, un uomo d’altri tempi, magari un po’ conformista, che diventa il fragile eroe di un’immane battaglia per cercare di accettare una situazione per lui inaccettabile. La messinscena è fatta di nulla, una cucina e una stanza suggerite da pochi arredi, una di quelle creazioni scarne, serrate che riescono così bene a Rifici, tutte tese soltanto a far pensare. Con parole che ancora ci scuotono, la brava Francesca Porrini tratteggia un personaggio tanto gelidamente preda delle sue certezze da risultare persino un po’ mostruoso. Ma il vero protagonista è il padre, di cui Andrea Castelli rende con straordinaria adesione una variegata gamma di sentimenti, smarrimento, incredulità, penoso sforzo di ignorare ciò che già gli è chiaro, ansia di capire, senso di colpa per non riuscire a capire, affetto che sopravvive nonostante tutto.
Quasi niente di Deflorian-Tagliarini unisce l’ironica e dolorosa profondità introspettiva del loro precedente spettacolo, Il cielo non è un fondale, alla particolare metodologia di costruzione drammaturgica - basata su una personalissima tecnica di identificazione con personaggi che non diventano mai personaggi, che restano echi, ombre delle figure immaginate da un autore - già sperimentata in Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni. Anche qui le prime parole sono «Non ce la faccio», la rappresentazione che nasce dalla negazione della possibilità di rappresentare: ma non c’è, a mio avviso, traccia di ripetitività, anzi questo linguaggio viene portato qui a una intensità lacerante, quale finora i due non avevano, credo, mai raggiunto. Il testo intreccia argutamente la dichiarazione di un senso di impotenza artistica - «Forse sarebbe più facile se questo fosse quel teatro scritto, progettato, che inizia con quelle didascalie lunghe, meravigliose...» - al racconto a più voci di un male di vivere, un’ipocondria, un’incapacità di mettersi in relazione con gli altri. A parlare sono delle entità indicate come la Quarantenne, la Sessantenne, la Trentenne (ma sono le facce di una stessa esistenza), il Quarantenne, il Cinquantenne, che si descrivono ora in terza, ora in prima persona, e a tratti, ma senza pretese interpretative, si riconoscono nei protagonisti del film di Antonioni.
In uno spazio mentale in cui spiccano solo una consunta poltrona rossa, un cassettone, un armadio, gli attori evocano esperienze private e ricordi più o meno reali: ma i momenti migliori sono quelli in cui i loro vissuti si sovrappongono perfettamente agli stati d’animo di Giuliana, Ugo e Corrado, i personaggi di Antonioni che loro osservano come da fuori. I due registi-performer, coinvolgenti come al solito, lasciano stavolta ampio spazio alla strepitosa Monica Piseddu, in impressionante simbiosi con la Quarantenne. Li affiancano Benno Steinegger e, con un ruolo un po’ meno risolto, l’attrice-cantante Francesca Cuttica. Nel toccante finale, dietro un fondale trasparente, vengono tutti inghiottiti da una nebbia, scompaiono nel bianco, nell’assenza di colore, forse finalmente nel silenzio. Restano in vista solo i mobili, nella parte anteriore della scena. Fra le proposte straniere va segnalato C’est la vie del franco-marocchino Mohamed El Khatib, in cui - non senza qualche astuzia compositiva - i due attori, Daniel Kenigsberg e Fanny Catel, rivivono lo strazio per la perdita dei rispettivi figli, l’uno morto suicida a venticinque anni, l’altra stroncata bambina da una rara malattia. Clean City dei greci Anestis Axas e Prodromos Tsinikoris porta invece alla ribalta cinque vere badanti di varia provenienza, tutte pronte a raccontarsi e a cantare e ballare con festosa disinvoltura.
FIT Festivala Lugano dal 26 settembre al 7 ottobre