lunedì 15 ottobre 2018

Corriere 15.10.18
New York
Moda e religione la mostra più vista del Met


Moda e religione, accoppiata vincente. Il Metropolitan Museum of Arts (il Met) di New York ha annunciato che sono stati ben 1.659.647 (in cinque mesi) i visitatori della mostra (conclusa lo scorso 8 ottobre) Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imagination che aveva occupato la sede sulla Fifth Avenue (1.430.000 visitatori circa) e i Cloisters nell’Upper Manhattan (oltre 228 mila). La mostra curata da Andrew Bolton e dedicata ai legami tra moda e religioni (nella foto: il mantello creato da Riccardo Tisci per la Madonna delle Grazie di Palagianello) è così diventata la più vista nella storia del Met davanti a quelle sul Faraone Tutankhamon del 1978 (1.360.957 ingressi) e sullo stilista Alexander Mc Queen del 2011 (666.509). (f. vi)

La Stampa 15.10.18
La Baviera è senza padroni
Stop agli alleati di Merkel
Frena l’AfD, boom dei Verdi
La Csu perde il 10% dal 2013, ma resta ampiamente il primo partito Flop Spd. Rebus coalizione: il ruolo chiave di liberali e Freie Wähler
di Walter Rauhe


Le elezioni amministrative in Baviera hanno provocato un terremoto politico in Germania. L’Unione cristiano-sociale (Csu), partito fratello della Cdu di Angela Merkel nella seconda regione tedesca per numero di abitanti, ha incassato una pesantissima sconfitta perdendo ieri ben 10 punti percentuali rispetto a cinque anni fa e raggiungendo solo il 37,3% delle preferenze, il peggior risultato dal 1950. Il partito del governatore Markus Söder e del ministro degli Interni Horst Seehofer perde così la sua roccaforte storica e sarà costretto a cercarsi in futuro un alleato per formare una nuova maggioranza di governo.
Per comprendere il significato di questo tracollo politico bisogna tenere conto con negli ultimi 60 anni la Csu ha governato il Land quasi sempre con maggioranza assoluta dei seggi nel parlamento regionale di Monaco e solo dal 2008 al 2013 in coalizione con i Liberali (Fdp). L’amara sconfitta rappresenta un duro colpo anche per i cristiano-democratici e fa tremare la cancelliera che a livello nazionale deve temere per la tenuta del governo. Il tracollo dei cristiano-sociali verrà addebitato alla sua discussa politica migratoria che ha aperto un profondo solco fra i due partiti fratelli e ha favorito l’ascesa della nuova destra populista dell’AfD, rimasta al di sotto delle aspettative (10,3%), ma a livello federale attestata al 17-18%.
A perdere è stato l’alleato di governo di Merkel, un partito socialdemocratico bloccato a quota 9,6%, che non è riuscito a profittare del malcontento nei confronti della Csu e che in cinque anni ha perso metà degli elettori. Ora, metterà una volta di più in discussione la sua permanenza all’interno della Grande coalizione a Berlino.
Gli unici grandi vincitori di questo importante test elettorale sono stati i Verdi che con la giovane capolista Katharina Schulze (33 anni) sono riusciti a raddoppiare i voti dal 2013, affermandosi come seconda forza nella regione prealpina. Sono i Verdi - e non i post comunisti della Die Linke e tantomeno i socialdemocratici - la nuova alternativa antagonista al centro-destra di Merkel e ai suoi governi di ampie intese. Significativo anche l’11% e oltre dei Freie Wähler, un partito locale conservatore e tradizionalista, molto radicato nelle campagne. Cosa succederà? I vertici della Csu escludono una coalizione con i Verdi (e nessuna apertura all’AfD), mentre ben vista, secondo i sondaggi, dagli elettori sarebbe l’alleanza con i centristi di Freie Wähler(11,5%), magari insieme alla Fdp. E infatti sul tavolo c’è – dicono fonti della Csu – proprio un patto con l’Fdp, per tenere a destra la barra della Baviera, sfidando a viso aperto Merkel. I seggi (119 su 200 per un’ipotetica alleanza a tre) dicono che si può fare.

Repubblica 15.10.18
I veri vincitori
Tra ambiente e accoglienza per i migranti
La sinistra tedesca è sempre più verde Il capolavoro di Katharina Schulze
di Tonia Mastrobuoni


MONACO DI BAVIERA (GERMANIA) Poco dopo le sei di pomeriggio, parte i boato. Alla festa dei Verdi, convocata in una sala concerti del centro di Monaco, la colonnina delle proiezioni sul maxischermo schizza a livelli inimmaginabili.
Diciotto per cento. Dieci punti in più in soli quattro anni. La crisi dei Verdi è finita. Il partito dato per morto fino a poco tempo fa perché i suoi temi sembravano riassorbiti dalle forze tradizionali e perché sembrava avere perso la sua spinta propulsiva rispetto alla stagione ribelle degli anni Settanta riparte dalla Baviera. Tra la folla c’è anche Markus Groeber, trentunenne militante della Csu che dice di essere venuto «ad annusare» l’atmosfera. Per lui sarebbe preferibile se il suo partito si alleasse con i Freiheitlichen - «sono un conservatore» - ma riconosce anche che una coalizione con gli ambientalisti sarebbe «interessante. È soprattutto tra i giovani che il tabù di un abbraccio tra l’ultraconservatorismo cristianosociale e l’ambientalismo pragmatico dei Verdi è caduto da tempo.
Il boom incredibile dei Gruenen bavaresi ha sicuramente un volto, quello sempre sorridente di Katharina Schulze, la trentatreenne nata a Friburgo, come Wolfgang Schaeuble, ma cresciuta in Baviera, sull’Ammersee. L’ex leader dei Giovani ha scelto in tempi bui di leader untori, ansiogeni e populisti un messaggio europeista e ottimista. Claudia Roth, storica esponente degli ambientalisti tedeschi, sale sul palco della sala tappezzata di verde nel tardo pomeriggio e offre un’interpretazione lucida della giornata elettorale che cambia il destino della Baviera e, forse, della Germania. «La Csu non è più la Baviera», sostiene, aggiungendo che «la madre di tutti i problemi non è l’immigrazione», come aveva sostenuto tempo fa Horst Seehofer, bensì «il ministro della Heimat», Seehofer stesso. E l’ex ministro cita anche un dato inconfutabile: «Noi abbiamo predicato l’amore cristiano per il prossimo e il rispetto dei diritti umani», e molti credenti, questo il sottotesto, hanno voltato le spalle alla Csu e hanno preferito i Verdi. Schulze ha sempre insistito sulla solidarietà con i profughi.
La pasionaria degli ambientalisti arriva alla festa alle otto e mezza di sera, accompagnata dall’altro Spitzenkandidat, Ludwig Hartman, e grida dal palco che «vogliamo migliorare il mondo, ogni giorno un po’». Schulze ricorda l’impegno «contro i cambiamenti climatici» e per «la parità tra uomini e donne», e la voce quasi si spezza quando urla che «siamo l’unico partito pro-europeo, e non per ‘Bavaria o Germania first’». Soprattutto, «la maggioranza assoluta della Csu è storia».
Il mantra dell’ex capa dei Verdi di Monaco che vinse anni fa la battaglia per il "No" alle Olimpiadi nel capoluogo bavarese è stato soprattutto quello del filoeuropeismo e della solidarietà. E Schulze si rallegra anche del boom di iscritti: «In Baviera siamo diventati più di diecimila!».
Anche se stavolta non dovessero riuscire a fare il salto nel parlamentino regionale, i Verdi si candidano seriamente a diventare una Volkspartei.
Intanto, sono diventati il principale partito d’opposizione.
Nella folla che acclama Schulze, Hartmann e il leader federale dei Verdi Robert Habeck, riconosciamo anche Benjamin Adjei, ventottenne candidato al parlamentino regionale. Madre tedesca e padre ghanese, Adjei non riesce a smettere di sorridere - l’atmosfera è contagiosa nella sala concerti, e colpisce l’età giovanissima dei militanti - e non ha dubbi che «l’odio non porta a nulla» e che «il messaggio liberale e di tolleranza che ci contraddistingue ci ha aiutato a vincere». Un messaggio in controtendenza con il sovranismo disumano e razzista. Che può ancora vincere.

Il Fatto 15.10.18
Il voto in Baviera terremota il governissimo della Merkel
Azzoppati - Gli elettori puniscono il leader regionale e ministro dell’Interno Seehofer. Probabile alleanza con la lista anti-europeista. Crollo della Spd e del partito gemello di quello della Cancelliera. Boom di Verdi e Afd
di Mattia Eccheli

Gli elettori hanno “terremotato” la politica della Baviera, la regione più ricca della Germania. Il partito di maggioranza finora assoluta, la Csu, che dalla fine degli anni ’50 in poi è stata costretta solo due volte a un governo di coalizione, ha perso quasi il 10,5% precipitando al 37,3%, un punto in meno rispetto al già deludente voto federale dell’autunno di un anno fa. Alla Spd, i socialdemocratici alleati nella grande coalizione a Berlino, sono stati più che dimezzati i consensi: è rimasta sotto la doppia cifra cedendo oltre l’11% e fermandosi al 9,5%: il peggior risultato mai ottenuto in una consultazione regionale. L’emorragia di voti ha favorito i Verdi, diventati la seconda forza con il 17,8% (+9,2%) grazie alla miglior percentuale di sempre in Baviera. Con il 10,7%, meno trionfalmente di quanto si fossero aspettati, i populisti xenofobi della Alternative für Deutschland (AfD) sono entrati per la prima volta nel parlamento regionale rimanendo un punto percentuale e mezzo sotto il risultato delle elezioni federali. La AfD è la quarta forza, perché al terzo posto si sono inseriti i Freie Wähler, i liberi elettori euroscettici e contrari all’immigrazione di massa, arrivati all’11,6% (+2,6%). Il destino di liberali (Fdp) è legato ai decimali: per tornare al Maximilianeum devono superare il 5%, la quota raggiunta nelle ultime proiezioni.
Un sondaggio commissionato dalla prima rete pubblica, la Ard, rivela che il principale colpevole (56% contro il 34% della Angela Merkel) della crisi della Csu è Horst Seehofer, capo del partito, governatore della Baviera fino alla primavera e poi ministro degli interni a Berlino. Quasi 2 elettori su 3 (e 4 su 10 della sua lista) hanno disapprovato i suoi attacchi alla cancelliera sulla politica migratoria. La scossa bavarese rischia di avere ripercussioni sull’Assia, dove si vota tra due settimane e dove Cdu, il partito della Merkel, e Verdi hanno governato assieme nell’ultima legislatura. Ma soprattutto rischia di averle a Berlino dove il contributo di provocazioni garantito da Seehofer e dalla Csu (che pesa il 6% dei voti a livello federale) ha penalizzato le tre grandi formazioni. Fra i cristiano-democratici saliranno le tensioni anche in vista della successione alla cancelliera e con l’ala conservatrice più forte. La Spd dovrà virare a sinistra per guadagnare la credibilità perduta. Nemmeno in Baviera i socialdemocratici sono riusciti a far capire le loro posizioni.
La clamorosa avanzata dei Verdi (dati al 19% a livello nazionale) sembra dimostrare che la Germania non ha completamente voltato le spalle ai progressisti. La metamorfosi ambientalista, cui ha contribuito la scelta di due candidati giovani (33 e 40 anni), “bellocci” e convincenti, ha eroso la fiducia nella Spd, logorata dall’esecutivo di coalizione. I Verdi hanno difeso valori moderati senza sacrificare l’ecologia sfilando voti sia alla Spd sia alla Csu. Il paradosso, almeno secondo Edmund Stoiber, già governatore della Baviera, è che a condannare la Csu è stata l’immigrazione interna più di quella esterna e cioè il milione di tedeschi che si sono trasferiti nel Land negli ultimi 10 anni e che ne hanno trasformato il tessuto sociale.
Per Alice Weidel, già candidata di punta dell’AfD alle ultime elezioni, la Baviera ha mandato un messaggio chiaro a Berlino per chiedere elezioni anticipate: “Non esiste più una grande coalizione, ma solo una mini-coalizione”. Andrea Nahles, segretaria della Spd, ha definito il risultato “molto brutto per la Spd e per i partiti popolari in genere”. Sia Markus Söder, governatore da 6 mesi dopo il trasloco del suo predecessore a Berlino, sia Seehofer (del quale potrebbero venire chieste le dimissioni) hanno sottolineato il chiaro mandato affidato alla Csu di formare il prossimo governo. Söder ha già fornito una indicazione sul possibile alleato: “Parleremo con tutti i movimenti democratici, ma non con la AfD naturalmente – ha dichiarato – Ma la mia predilezione è per una lista civica”. Cioè la compagine dei Freie Wählern: la maggioranza sarebbe attorno alla decina di voti.

La Stampa 15.8.18
Katha, paladina delle donne
“Voglio ministre, non rose”
di Francesca Sforza


«Sapete perché ce l’abbiamo fatta?», ha gridato dal palco di Monaco «Katha» Schulze di fronte alla grande onda verde che ieri si è risollevata fino alla soglia del 18 per cento dei consensi.
«Perché tu ti sei alzato dal letto la mattina presto e sei andato a portare fuori i volantini, e perché tu - ha continuato indicando le persone tra la folla - hai preso il telefono e ti sei deciso a chiamare la tua ex per convincerla a votarci!». «Oggi la Baviera è vestita di verde - gli ha fatto eco Ludwig Hartmann, l’altro capolista, che insieme a lei ha traghettato la più piccola frazione del Landstag bavarese a diventare la più forte - e non è stato sempre così, abbiamo avuto tante discussioni, ma adesso ne sono certo: questo è solo l’inizio».
Anche Katharina Schulze è vestita di verde, e dopo il primo momento di entusiasmo ha come un’esitazione: «In genere non mi mancano le parole, ma adesso un po’ sì... Capite cosa abbiamo fatto? Eravamo i più piccoli e siamo diventati grandi, c’era la maggioranza assoluta della Csu e ora quella maggioranza è storia vecchia, abbiamo dimostrato che si vince con l’ambiente, con l’Europa, con la solidarietà».
Ha promesso una politica forte, impegnata sulla sicurezza, e «chiaramente femminista»: «Vogliamo donne che facciano le ministre, non rose rosse per l’8 marzo». E nel ringraziare la platea ha aggiunto: «Siamo tornati, siamo i Verdi, siamo contro la guerra e non vogliamo i nazi nelle nostre strade». Stasera si balla, «ma da domani tutti al lavoro».
Si era capito già dalle prime proiezioni che i Verdi avrebbero raggiunto un risultato importante, in linea con quanto accaduto in Olanda e in Austria con l’esperienza Van der Bellen (ma in Baviera, ammettiamolo, era meno scontato).
«Manca un minuto alla fine della storia della Csu»: con queste parole il palco dei Verdi, nell’affollatissima sala della Muffathalle, aveva cominciato un entusiastico conto alla rovescia in attesa dei primi numeri. In realtà la storia della Csu non è affatto finita, e i Verdi non andranno al governo del Landtag bavarese, ma qualcosa, da ieri, è davvero cambiato. I dieci punti percentuali in più rispetto alle elezioni del 2013 fanno infatti dei Verdi il secondo partito più votato, e il primo nelle grandi città. «Vogliamo un mondo più bello e più Verde», recitano le scritte delle magliette dei molti ragazzi che ieri piovevano nella festa elettorale più allegra della città, anche in assenza di alternative, visto che la Csu ha fatto sapere dal giorno prima che non avrebbe fatto nessun party elettorale, e che l’AfD non considera Monaco una piazza appetibile, tanto da organizzare la sua festa a Rosenheim, al confine con l’Austria.
«Quando abbiamo cominciato questa campagna elettorale ci siamo detti una cosa: dobbiamo puntare a superare il 10 per cento», racconta Juergen Florian, il più giovane candidato dei Verdi a Monaco, salutato da una ola di mani che si uniscono a cuore. «Ed è stata una specie di onda, giorno dopo giorno guadagnavamo persone, soprattutto i più giovani, forse il nostro risultato più importante è proprio questo: abbiamo vinto l’apatia, abbiamo riavvicinato le persone della nostra età alla politica, e lo abbiamo fatto andando nei mercatini, nei centri commerciali, nelle università, eravamo dappertutto».
«L’odio stava cominciando a serpeggiare tra di noi - dice Cem Oezdemir, rappresentante dei Verdi al Parlamento europeo, corso anche lui a Monaco per applaudire i compagni di partito - e questo voto dimostra che si può vincere anche con una linea europeista. La Baviera, a dispetto di tutto, si dimostra ancora una volta all’avanguardia».
Gli occhi dei maggiorenti dei Verdi sono tutti puntati al prossimo appuntamento, in Assia fra due settimane: «Se riusciremo anche lì -– dice ancora Oezdemir – allora la strada per un successo a livello federale potrà dirsi spianata». C’è anche Claudia Roth, storica rappresentante della vecchia guardia dei Verdi tedeschi, che viene accolta dai giovani ragazzi di Monaco come il simbolo di un passato che forse ritorna. «Siamo il numero uno nelle grandi città – dice – e siamo il segno che la Baviera vuole un’altra politica».
Claudia Roth viene da Berlino, dove è vicepresidente della frazione dei Verdi al Bundestag, e già guarda allo scenario federale: «Questo è il primo passo per l’erosione del potere della Csu, da oggi la Csu non è più la Baviera, e questo significa che nell’aria qualcosa è cambiato, è tempo di “Wechselstimmung”, quando il vecchio sistema si sgretola e se ne annuncia uno nuovo». Claudia Roth sa di cosa parla, perché c’era anche lei quando la Germania di Kohl, in un breve susseguirsi di scossoni, diventò da un momento all’altro la Germania di Gerhard Schroeder. Chissà, forse ieri a Monaco ha sentito, di nuovo, il profumo della vittoria vera.

Repubblica 15.10.18
Un vaccino anti-populista
di Andrea Bonanni


Pur essendo largamente atteso e anticipato dai sondaggi, il risultato del voto bavarese consegna agli europei tre spunti di riflessione importanti in vista delle europee di primavera.
Il primo è che, come già accaduto in Svezia, l’estrema destra avanza ma non sfonda. Là dove l’economia funziona, la disoccupazione è bassa e le condizioni sociali sono accettabili, il verbo xenofobo, razzista e anti- europeo, impersonato in questo caso da AfD, rosicchia una frangia di consensi alla destra tradizionale ma non si tramuta in uno tsunami elettorale in grado di stravolgere radicalmente gli equilibri politici, come sta avvenendo in Italia.
Il secondo motivo di riflessione è legato al primo: secondo tutte le analisi, la pesante sconfitta dei cristiano- sociali si spiega in parte anche con il fatto che i suoi leader, e in particolare il ministro dell’Interno Seehofer, hanno cercato di inseguire i populisti sul terreno della paura e dell’intolleranza verso i migranti. Per raggiungere il loro obiettivo, non hanno esitato a mettere ripetutamente in crisi il governo federale, dove sono alleati di Angela Merkel e dei socialdemocratici. Questa tattica non solo non ha pagato, ma si è rivelata controproducente perché ha dirottato una parte dei voti moderati verso i Verdi o verso gli indipendenti di Freie Wähler.
Una dinamica di questo genere suona come un avvertimento per quegli esponenti del Partito popolare europeo ( e sono tanti) che contemplano la possibilità di formare una coalizione con la destra populista dopo le elezioni di primavera. La Baviera, tradizionale roccaforte della destra cattolica, ci dice che quel mondo moderato non è disposto a transigere su una serie di valori fondamentali del cristianesimo, quali il rifiuto della xenofobia e la fedeltà al progetto europeo. Non è un caso che, subito dopo la pubblicazione dei primi exit poll, i leader della Csu, pur ammettendo la sconfitta, si siano affrettati a spiegare che la ricerca dei partner per formare una coalizione di governo escluderà l’estrema destra di AfD. E del resto, il leader del Ppe, Manfred Weber, che proviene proprio dalle file della Csu, non aveva esitato poche settimane fa a votare al Parlamento europeo la mozione di censura contro il governo ungherese guidato dal populista Orbán. Nei mesi che verranno i popolari europei dovranno continuare la riflessione, che è già in corso al loro interno, su quali siano i limiti da porre all’inseguimento della deriva populista. Le elezioni bavaresi suggeriscono che la linea di demarcazione tra la moderazione politica e il sovranismo reazionario debba essere preservata, contrariamente a quanto avvenuto in Austria. Il terzo motivo di riflessione è dato dallo straordinario successo dei Verdi e dalla virtuale scomparsa dei socialdemocratici. Questo risultato può essere spiegato solo in parte con la volontà degli elettori di punire la partecipazione della Spd alla coalizione di governo con Angela Merkel. Se si sommano i voti dell’estrema sinistra ( che non passa lo sbarramento del 5 per cento), dei socialisti e dei Verdi, si supera il trenta per cento di consensi, che in una regione conservatrice come la Baviera è una cifra importante. Ma questa volta l’elettorato progressista, come del resto è successo a destra con quello conservatore, sembra aver privilegiato nel proprio voto la difesa di quei valori etici, prima ancora che politici, che sono messi in pericolo dalla crescita dei populisti.
Dopo la sconfitta elettorale di un anno fa, i socialdemocratici avevano messo l’Europa al centro del loro programma. Ma alle grandi enunciazioni di principio contenute nell’accordo di coalizione con la Merkel, non sono minimamente seguiti i fatti. Il governo tedesco, sull’Europa, è stato ancora più prudente, reticente e privo di visione del precedente. E così gli elettori hanno scelto di dare il loro voto ai Verdi, che europeisti lo sono davvero, che sono ancora capaci di indicare una visione alternativa della società, e che non hanno mai vacillato nel difendere i diritti umani dei rifugiati in Germania e in Europa.
Le elezioni bavaresi sembrano confermare che la crisi della socialdemocrazia è inarrestabile, perché ovunque la burocrazia di partito non riesce ad adeguarsi al rapido spostamento del fronte dei valori. Ma ci dicono anche che il bacino di consenso per quei valori non si è ridotto. Chi sa difenderli con convinzione, di fronte all’attacco concentrico delle forze populiste, sovraniste e xenofobe, viene premiato. Chi si perde nei mille distinguo, nelle cautele, nelle recriminazioni e nelle inutili prudenze, viene punito da un’opinione pubblica che, almeno nel bacino progressista, appare molto più avanti delle vecchie burocrazie di partito.

Le elezioni bavaresi sembrano confermare che la crisi della socialdemocrazia è inarrestabile Ma ci dicono anche che il bacino di voti per quei valori non si è ridotto E chi sa difenderli viene premiato

Repubblica 15.10.18
Se l’Europa resta senza capi cresce il consenso di Putin e Trump
La cancelliera tedesca Angela Merkel rimane la più stimata dagli italiani (46%) Male Macron, Le Pen e Orban
di Ilvo Diamanti


Raramente in passato gli italiani hanno osservato la politica internazionale con altrettanta attenzione rispetto ad oggi. Tuttavia, tutto cambia in fretta e profondamente, intorno a noi. E il governo giallo-verde fa la sua parte, in tutto questo. Cerca, cioè, di partecipare a questo cambiamento. Di "cambiare", in particolare, l’Europa. O meglio. La UE. Così è interessante osservare la Mappa dei leader "globali", disegnata dalle percezioni degli italiani. In una fase di grande cambiamento. Come confermano – in modo molto evidente – le elezioni in Baviera. Si tratta di un risultato che rischia di produrre effetti critici anche per il governo di Angela Merkel. E, dunque, per l’Europa. Perché l’Europa che conosciamo è incardinata sull’asse franco-tedesco.
Questo quadro si riflette anche nel "sentimento" degli italiani, come mostra il sondaggio dedicato ai leader "globali", condotto da Demos nelle scorse settimane.
Il consenso nei confronti della cancelliera tedesca, in particolare, appare molto elevato, fra gli italiani: 46%. La stessa misura rilevata un anno fa. Nel maggio 2017. Dopo di lei, seguono i presidenti delle due potenze globali. Donald Trump e Vladimir Putin. A capo, rispettivamente, degli USA e della Russia. Il favore verso Putin, in particolare, è cresciuto sensibilmente. Oggi è apprezzato dal 41% degli italiani: 6 punti più di un anno fa. Mentre Trump oggi piace al 30%. E ottiene, comunque, una crescita di 4 punti, nell’ultimo anno.
In fondo alla graduatoria incontriamo i due "capi" francesi: il presidente Emmanuel Macron e la leader del Front National Marine Le Pen. Antagonisti, l’uno rispetto all’altra. Ma accomunati da un basso livello di gradimento, tra gli italiani. Entrambi intorno al 25%. Un dato che riflette, tuttavia, due tendenze diverse. Anzi, divergenti. Marine Le Pen, infatti, appare in crescita, mentre Macron crolla: 14 punti in meno rispetto al 2017. All’indomani della sua elezione. Il presidente ungherese, Victor Orbán, infine, registra un gradimento molto basso: 18%. E non solo perché meno conosciuto degli altri. Fra tutti i leader considerati, dunque, il mutamento d’opinione più rilevante riguarda il presidente francese, Emmanuel Macron. Che subisce un calo sensibile di consensi presso la base di tutti i principali partiti. Anzitutto, fra i più vicini al PD e al M5s. Un anno fa, i più favorevoli nei suoi riguardi. Oggi non più. A causa delle sue "chiusure" nei confronti dell’Italia. Non solo politiche.
Perché la Francia di Macron ha "chiuso" le sue frontiere ai movimenti migratori dall’Italia. E oggi minaccia di rimandare nel nostro Paese un numero elevato di migranti arrivati negli ultimi anni.
Macron, inoltre, è fra i sostenitori della "rottura" fra l’Italia e la UE – ben assecondato, peraltro, dal governo italiano. Infine, sta sfruttando la persistente crisi in Libia per emarginare il nostro Paese da quell’area. Strategica, per le risorse che offre, ma soprattutto per le nostre strategie "migratorie". Tuttavia, la popolarità di Macron è in forte crisi anche in Francia, come mostrano i sondaggi d’opinione.
Superato dal suo premier, Édouard Philippe. Oltre che per ragioni politiche, anche a causa di vicende personali. Al contrario di Macron, Putin e Trump mantengono consensi molto ampi presso la base delle forze politiche di governo. In primo luogo, fra i simpatizzanti della Lega, che confermano a Putin lo stesso indice dell’anno scorso.
Elevatissimo: 60%. Mentre Trump è apprezzato, comunque, dalla maggioranza dei leghisti.
Ma Putin piace molto anche alle persone vicine al M5s: 54%, 6 punti in più rispetto al 2017. Tuttavia, 3 punti in meno rispetto ai simpatizzanti di Forza Italia.
D’altronde, è nota la solidarietà personale reciproca, o meglio: l’amicizia, fra Putin e Berlusconi.
Tra i riferimenti internazionali della Lega c’è, sicuramente, Marine Le Pen. Amica personale di Matteo Salvini e sua principale alleata, in vista delle prossime elezioni europee. Quando guideranno, insieme, le forze politiche cosiddette "sovraniste".
Cioè, ostili, più che scettiche, verso l’Unione Europea. Un "cartello" al quale appartiene, ovviamente, il presidente ungherese Viktor Orbán, il quale riceve, per questo, consensi relativamente più elevati proprio fra simpatizzanti della Lega. Fra i leghisti, come, peraltro, tra i simpatizzanti del M5s e di FI, Angela Merkel è meno apprezzata rispetto a Putin. Tra i forza-leghisti: anche rispetto a Trump. Si delinea, così, in modo evidente la specificità e la differenza del PD e della sua base, in prospettiva internazionale.
Sono, infatti, rimasti gli unici veri "europeisti". I più vicini alla Merkel (65%). E ciò sottolinea alcune fra le ragioni che hanno ridotto il PD a "minoranza", nel Paese. Perché in Italia le forze di governo e l’opinione pubblica appaiono più scettiche verso la UE. LdS, la Lega di Salvini, infatti, appare orientata verso Visegrad piuttosto che verso Bruxelles. Cosi guarda con maggior favore alla Russia di Putin. Oppure, oltre oceano, all’America di Trump.
D’altra parte, l’Europa appare seriamente in crisi. Angela Merkel è in difficoltà, come mostrano le elezioni bavaresi. Mentre, in Francia cresce la protesta sociale contro le politiche del governo. Ed Emmanuel Macron, anche per questo, pensa a un rimpasto di governo. Insomma, se in Italia il ri-sentimento euro-scettico persiste e resiste, è anche perché non si vedono leader in grado di dare risposta al sentimento europeista.

Corriere 15.10.18
Il chiarimento del Viminale
I migranti via da Riace soltanto se lo vorranno
Nessun trasferimento coatto ma lo stop ai finanziamenti potrebbe spingere molti a «scegliere» di andarsene «Dissi a Lucano: stai attento Era in una specie di delirio»
Morcone, capo di gabinetto con Minniti: il progetto va salvato
di Fiorenza Sarzanini


Roma Gli stranieri che vivono a Riace non potranno essere portati via, ma il blocco dei finanziamenti deciso dal Viminale li lascerà senza alcun sostegno. E alla fine, proprio per sopravvivere, molti di loro potrebbero essere costretti ad accettare accoglienza in un altro posto.
È finito in una tagliola il progetto messo in piedi dal sindaco Domenico Lucano. Perché le irregolarità contestate nella gestione del «sistema Sprar» hanno portato alla revoca della concessione, dunque non saranno più erogato né i contributi per far funzionare i centri, né i soldi — due euro a testa — da destinare alla paga giornaliera dei richiedenti asilo. E dunque le uniche speranze sono affidate a un’eventuale sospensione dei giudici del Tar - cui il Comune ha già annunciato di volersi rivolgere — oppure a stanziamenti messi a disposizione dallo stesso Comune oppure dalla Regione Calabria.
La procedura che sarà seguita viene spiegata in una nota che il Viminale dirama in serata, evidentemente nel tentativo di frenare le proteste. E così si chiarisce che «i trasferimenti dei migranti potranno avvenire soltanto su base volontaria», così come sempre avviene «quando un progetto Sprar deve chiudere, perché finisce oppure perché viene revocato dal Viminale». L’alternativa per gli stranieri è fin troppo evidente: «Restare dove sono (e non beneficiare più del sistema di accoglienza), oppure possono andare in altri progetti Sprar nelle vicinanze, naturalmente sulla base delle disponibilità».
A questo punto «dovranno essere gli operatori del progetto a formalizzare la proposta di nuova destinazione» mentre «il Comune di Riace ha 60 giorni di tempo per fornire la documentazione finanziaria sui migranti che beneficiavano dell’accoglienza, sia che queste persone decidano di essere trasferite sia che restino nel comune calabrese».
In tutto si tratta di un centinaio di persone che hanno chiesto lo status di rifugiati e sono in attesa di sapere il proprio destino. Da questa mattina partirà l’iter per conoscere la decisione di ognuno e per reperire eventuali posti in altre strutture che, assicurano al ministero dell’Interno, saranno scelte tra le più vicine a Riace.
Roma «Abbiamo sempre creduto nel progetto Riace e per questo sono convinto che non debba scomparire. Se ci sono responsabilità dei singoli è giusto che vengano accertate e perseguite, ma quel modello funziona e distruggerlo sarebbe un errore grave». Il prefetto Mario Morcone, presidente del Consiglio italiano per i rifugiati, è stato il direttore del Dipartimento che si occupava dei richiedenti asilo e poi capo di gabinetto del ministro Marco Minniti. E in questa veste ha “trattato” con il sindaco Domenico Lucano la messa in regola rispetto alle “criticità” che erano stato trovate nella gestione degli stranieri richiedenti asilo.
È vero, come dice il ministro Matteo Salvini, che siete stati voi a denunciarlo?
«È vero che un paio di anni fa l’Anci, l’associazione dei Comuni che da cui dipendono i progetti Sprar, aveva rilevato che molte cose non andavano nella gestione da parte di Lucano».
Che cosa veniva contestato?
«Lucano faceva entrare nel sistema di accoglienza chi sceglieva lui, non ascoltava le indicazioni, commetteva errori nelle rendicontazioni».
Per questo siete stati coinvolti?
«I fondi li mette a disposizione il ministero dell’Interno, se le cose non funzionano la segnalazione è obbligatoria. Abbiamo ricevuto l’esito dei controlli ed è stata attivata la prefettura di Reggio Calabria che ha avviato una nuova ispezione. Per noi era un’attività di routine sui rilievi amministrativi».
Però poi è stata presentata una denuncia alla magistratura.
«L’esito delle verifiche compiute della prefettura adombrava anche un rilievo penale e per questo si è deciso di mandare la relazione finale alla Procura».
Lei in quel periodo ha incontrato Domenico Lucano?
«Certamente, ci siamo visti almeno dieci volte. Forse anche di più».
Per dire e fare che cosa?
«Lo avevo sollecitato a mettersi in regola, gli avevo spiegato che cosa non andava. Lui era ostinato, convinto che l’Anci ce l’avesse con lui. Diceva che c’erano motivi politici dietro la scelta di compiere le ispezioni, ma non era così».
Il suo intervento non è servito.
«Mimmo era in una sorta di delirio dovuto alla sovraesposizione e giocava una partita seguendo le sue regole. Posso però testimoniare che lo faceva a fin di bene. Nessuno ha mai pensato che potesse appropiarsi di quelle somme o avesse un tornaconto personale. Per questo l’ho sempre agevolato».
Come?
«Lo aiutavamo ad ottenere lo sblocco delle somme di cui aveva diritto perché sapevamo che servivano a garantire l’accoglienza agli stranieri che erano richiedenti asilo. Naturalmente lo esortavamo a rispettare le regole. Quante volte gli ho detto “Mimmo devi stare attento altrimenti finisci nei guai”. Lui mi spiegava che era in ritardo con i pagamenti e voleva pensare a quelle persone».
Il ministro Minniti era informato?
«Certamente, così come il presidente della Regione Calabria.
E che indicazioni vi aveva dato?
«Pretendeva il rispetto delle regole e per questo ci sollecitava a richiamare il sindaco, ma si è sempre raccomandato di non forzare la situazione quindi fare di tutto per non interrompere i pagamenti o minacciare di sgomberare il centro inserito nello Sprar».
Esattamente quanto invece è accaduto adesso.
«Ho parlato con Daniela Parisi, che ha firmato la relazione per la revoca e le ho spiegato che questa decisione non ha senso. Lei mi ha risposto che il Comune di Riace non è in grado di dare accoglienza perché è vicino al dissesto».
È così?
«Mi auguro davvero che si trovi una soluzione. Buttare via il progetto sarebbe uno scempio».

La Stampa 15.10.18
I migranti di Riace: «Noi restiamo qui»
Il sindaco ai domiciliari: «Le persone non sono merci». L’idea di chiedere aiuto alla Regione
di Fabrizio Caccia

Riace (Reggio Calabria) «Ma come posso andarmene da qui? — dice Gabriel Hiffan, 30 anni del Ghana — io mi sono fatto tre anni di inferno in Libia aspettando che arrivasse il mio turno per salire sul barcone, sono arrivato a Lampedusa, da due anni sono a Riace con mia moglie e 5 mesi fa è nata la nostra bambina che abbiamo chiamato Giuseppina. Un nome italiano, capito? Perché Riace ormai è la mia vita...». Ce ne sono tante di storie così, qui a Riace, «città dell’accoglienza» come avvertono pure i cartelli stradali all’ingresso. Il vicesindaco Giuseppe Gervasi, sotto una bomba d’acqua, è andato a suonare a casa del sindaco, in via Milano, perché c’è un matrimonio da celebrare e ha bisogno della fascia tricolore. Domenica amara, per Mimmo Lucano, dal 2 ottobre agli arresti domiciliari. E solo un poco riesce ad addolcirla la cassata al forno che gli porge sua figlia Martina: «Ce l’hanno mandata dei compagni da Palermo, papà». Ma il sindaco dal pugno chiuso ha l’umore sotto le scarpe. Domani a Reggio Calabria ci sarà l’udienza al Tribunale del Riesame che deciderà sulla sua libertà. Ma il sindaco non sembra pensarci troppo: «Sono molto abbattuto — dice — non mi fido più di nessuno, pronto sempre a combattere sì ma non sono mica un robot, certe accuse fanno malissimo e restano dentro. Le persone non sono merci, come può il Viminale pensare di trasferirle, di portarle via da Riace, dove con pazienza e fatica hanno ricostruito le loro vite? Chiedono i rendiconti di tutte le spese, giusto, giustissimo, ma lo sanno che le cose che facciamo qui non sono manco scritte nelle loro linee-guida sull’accoglienza? Qui noi facciamo il villaggio globale...». S’indigna Lucano, il nostro «prigioniero politico», lo chiama così il maliano Daniel, anche lui approdato a Lampedusa su un barcone
L’umore di tutti qui è plumbeo, anche perché lo Stato ha smesso di finanziare il progetto Sprar dall’anno scorso e i soldi sono finiti soprattutto per i rifugiati. Così hanno chiuso i laboratori di ceramica, d’artigianato. «Io soffro d’asma ma non posso più andare in farmacia», racconta Elvis Edos, nigeriano. I 35 euro al giorno sono un miraggio da molti mesi, i negozi qui hanno sempre accettato dei «buoni» sulla fiducia emessi dal Comune, ma non è più così sicuro che la fiducia continuerà. Il clima è cambiato: «Con l’immigrazione si diluiscono le identità», ha detto ieri il ministro Lorenzo Fontana. «La grande paura è quella di dovercene andare», ammette Tahira, pachistana da tre anni a Riace. Al bar di Guglielmo e al bar di Alessio, in piazza Municipio, gli unici punti di raduno per italiani e stranieri, Rino, Renato, Gerardo, muratori che si fanno una birretta prima di rientrare nelle case, dicono tutti una cosa importante: «Anche noi siamo stati migranti, anche noi ce ne siamo andati dal nostro paese — ricorda Antonio —. Io partii a 13 anni perché qui non c’era lavoro, lo trovai ai canali di Pinerolo, dove guardavo le mucche. Per 50 anni sono stato via...». Ecco perché i riacesi oggi si mostrano solidali. «Io fino a quando lavoravo con le cooperative del progetto Sprar riuscivo pure a mandare qualche soldo a casa — interviene Elvis, nigeriano — Ora è finita». I vecchietti di via Roma dicono che «se se ne andranno i migranti, resteremo soli e non avremo più compagnia. Perché anche i nostri giovani se ne sono andati...».
Una soluzione, però, ci sarebbe e Lucano in cuor suo ci sta già pensando. Se domani il Riesame lo rimetterà in libertà comincerà a lavorarci. Abbandonare il progetto Sprar, ma salvare il «modello Riace». Ecco la formula: chiedere aiuto alla Regione e farsi finanziare i progetti. Dopotutto, gli immigrati che stanno qui sono liberi cittadini e con una casa e un lavoro in regola, con il loro permesso di richiedenti asilo, avrebbero tutto il diritto di rimanere. Ma serve il lavoro, appunto. Il lavoro che non c’è più.
Gli immigrati che vivono a Riace non potranno essere portati via, ma il blocco dei finanziamenti deciso dal Viminale li lascerà senza sostegno. Per sopravvivere, molti di loro potrebbero essere costretti ad accettare accoglienza in un altro posto. È finito in una tagliola il progetto messo in piedi dal sindaco Domenico Lucano. alle pagine 16 e 17

Il Fatto 15.10.18
La libertà di stampa e la trave nell’occhio del giornalismo italiano
Non è certo tramite le comprovate competenze o il riconoscimento dei meriti che si arriva nel mondo dell’informazione
di Pietrangelo Buttafuoco


Non è la libertà che manca, mancano gli uomini liberi. La malinconica notazione di Leo Longanesi fa sempre testo tenendosi sulle generali ma neppure può dirsi che sia mai mancata la “libertà di stampa”. La questione è un’altra: non c’è una stampa intellettualmente libera. Mario Calabresi, direttore di Repubblica, al culmine di un fuoco polemico – uno scontro con Luigi Di Maio in tema di fake news e subitanea morte dei giornali – ha sentito il dovere di dire grazie ai suoi lettori, e quindi ai colleghi dei “giornaloni”, per il rinnovato patto con di passione, affetto e solidarietà.
Tutto giusto, tutto bello ma un dettaglio – uno solo – pur nella solennità del comizio scritto, rivela la trave quando si tenta di scovare la pagliuzza nell’altrui occhio. Ed è quando il direttore scrive a proposito dell’imbarbarimento del dibattito pubblico in un tempo in cui – argomenta Calabresi – “la voglia di squalificare e sporcare chi dissente è martellante”. In tema di sporcare e squalificare chi dissente, nessuno – soprattutto la stampa più autorevole – può proclamarsi innocente.
C’è un lunghissimo elenco di persone, anche in Italia, sporcate e squalificate in ragione della loro squisita eccentricità rispetto al conformismo, ma ancor più lungo è l’elenco di chi – nel dissenso – già giace nell’oblio ancora prima di arrivare alla tomba. È proprio della libertà di stampa, nel suo artificio retorico, il silenziare – ancor più che perseguitare – chi dissente. Il pensiero unico è davvero unico, non esiste altra cerchia che il proprio circoletto; il reclutamento delle professionalità passa attraverso quei rituali sociali il cui unico canone – un ascensore sociale più consono alle ambizioni dei borghesi bohémien – è, resta e sempre sarà il Bel Amì, il romanzo di Guy de Maupassant. Non è certo tramite le comprovate competenze o il riconoscimento dei meriti che si arriva nel dorato mondo dell’informazione.
Tra uno bravo che porta notizie e uno capace di accendere frisson sarà sempre e solo frisson, nel trionfo di piritollame&aperitivi. Un campione della bella società è, per fare un esempio da letteratura – giusto a Repubblica, oggi parlamentare – il mitico Tommaso Cerno: frisson, frisson! E sempre pasta e patate, patate e pasta, pasta con patate offre il giornalismo nella sua veste istituzionale quando accuratamente – e mai come nell’attuale stagione liberale il totalitarismo s’invera negli automatismi dei signorsì – dispensa la versione dei fatti secondo tabù. “Noi abbiamo la censura e la censura si può aggirare, mentre voi”, mi dice un amico turco, “siete messi peggio: voi avete i tabù”. E non poter nominarne neppure uno, tanto sono inviolabili questi divieti, sta a dimostrare l’enormità della trave nell’occhio di Mario Calabresi. Tanto grande da ritrovarmela conficcata anch’io.

Il Fatto 15.10.18
La res pubblica” romana e il reddito di cittadinanza
di Orazio Licandro


Polemiche roventi e incessanti gravano sul reddito di cittadinanza, la misura più qualificante e identitaria del M5S. Ora, ci si può legittimamente schierare a favore o contro; ritenerla un’azione utile a contrastare la povertà o, al contrario, giudicarla come l’ennesimo intervento assistenzialistico destinato in maniera preponderante al Mezzogiorno segnato da una drammatica situazione occupazionale e da sacche, ormai enormi, di povertà. Ciò che invece è indubbio è che non si tratti di una novità. Non dobbiamo pensare ai parenti più recenti, al reddito di inclusione di marca renziana o alla social card tremontiana; un esempio del secolo scorso è la carta o tessera annonaria distribuita dal regime fascista agli italiani nel corso della seconda guerra mondiale per il razionamento dei beni di prima necessità: dal pane al frumento, dallo zucchero ai grassi, per finire al sapone e alla legna da ardere, comunque i bisognosi attendevano anche due mesi. Ma l’antenato vero e diretto è la tessera frumentaria introdotta nel 123 a.C. da Gaio Sempronio Gracco. La res publica romana si assumeva l’onere di vendere a un prezzo politico (poco più di 6 assi al moggio) il frumento a tutti i cittadini. In seguito, divenne strumento di distribuzione gratuita di grano per attirare le simpatie della plebe, molto attiva durante le elezioni, largamente praticato da Pompeo, Cesare, Augusto, con risvolti non sempre commendevoli: molti padroni, per scaricare l’onere sullo Stato, di mantenimento degli schiavi, li manomettevano e questi finivano per ingrossare il novero degli aventi diritto alla razione gratuita di frumento. Insomma, dall’antichità a oggi, la storia di questi strumenti non appare segnata da grande fortuna.

Il Fatto 15.10.18
Un prof italiano per Aleppo. “Così rinasce il minareto”
La tecnica di Gabriele Fangi, docente dell’ateneo di Ancona, per restituire alla città siriana martoriata dalla guerra uno dei suoi simboli storici
di Pierfrancesco Curzi


Nell’agosto del 2010 il professor Gabriele Fangi, docente di topografia e cartografia dell’Università Politecnica di Ancona, si trovava ad Aleppo. Esperto ed appassionato di Siria e delle sue ricchezze archeologiche e artistiche, scattò delle foto molto approfondite della Grande Moschea, soprattutto del suo splendido minareto, eretto nell’VIII Secolo e rarissimo pezzo di magnificenza. Non immaginava certo, il professor Fangi, che pochi mesi dopo la Siria sarebbe piombata in un incubo senza fine: dalle proteste di piazza alla guerra al terrorismo, da un conflitto intestino all’escalation internazionale, con il campo di battaglia esteso a tutto il Paese.
La stessa Aleppo, rimasta al centro del fuoco incrociato per cinque anni, fino alla resa dei conti dell’autunno 2016. Prima l’assedio, la distruzione e lo svuotamento della parte est della città, la popolazione civile trasformata in bersaglio, poi l’armistizio, le fazioni ostili evacuate e trasferite nella vicina provincia di Idlib. Fangi non immaginava, inoltre, che quegli scatti sarebbero diventati vitali, otto anni più tardi, per avviare l’opera di ricostruzione del minareto. Il 24 aprile del 2013, giorno in cui è stato abbattuto, lo studioso si è sentito travolto dalla Storia, come ci racconta oggi via Skype proprio da Aleppo: “Mi trovavo in facoltà ad Ancona quel mattino, era un mercoledì. Più tardi appresi la notizia e ripensai a quel viaggio. All’epoca avevo partecipato ad una gita organizzata proprio dall’ateneo dorico, non era la mia prima volta in Siria. In questi anni è stato molto doloroso seguire le cronache. Tornare qui oggi, ad Aleppo, trovarmi davanti solo macerie e lo skyline privo del meraviglioso minareto, è devastante. Adesso aiuto le autorità siriane a rimetterlo in piedi e farlo tornare al suo antico splendore”. Gabriele Fangi sta collaborando, gratuitamente, con i membri del Comitato per la Ricostruzione della moschea, minareto incluso. Scatti cruciali i suoi. Immagini unite ad una tecnica innovativa ideata dallo stesso Fangi, la fotogrammetria sferica, ossia il ricampionamento tecnico delle rappresentazioni cartografiche: in pratica la ricostruzione di un mosaico di scena, con le tessere messe a confronto singolarmente e ordinate in modo da ricreare un puzzle preciso.
Obiettivo finale, rimettere al proprio posto, così come in origine, i 2400 blocchi di pietra calcarea, tra parte emersa e fondamenta: “Ogni blocco va identificato – aggiunge il professor Fangi – Un lavoro immane. Molti di questi esemplari si sono spezzati, frammentandosi. La documentazione muraria del minareto, messa a confronto con quella del 2010, è una vera e propria indagine storica. Già il 40% dell’identificazione complessiva delle pietre è stato fatto, siamo a buon punto, ma serviranno ancora tempo e pazienza. Uno dei vantaggi della mia tecnica è quello di mettere a disposizione immagini precise in tempo reale, in maniera molto più rapida rispetto al concetto tridimensionale. Di rilievi, oltre ad Aleppo, ne ho fatti tanti in passato, è probabile che il mio contributo possa essere richiesto per i resti romani di Palmira, a cui ho dedicato un libro scritto con Ahmet Denker e Minna Silver, Reviving Palmyra in Multiple Dimensions: Images, Ruins and Cultural Memory”.
Il ritorno nella città perduta e riconquistata per il professor Fangi va oltre l’aspetto tecnico ed accarezza il profilo umano della nuova Aleppo: “È spaventoso, il centro storico, patrimonio dell’umanità Unesco, non esiste più, c’è da piangere. Secondo me sotto le rovine ci sono ancora dei corpi. Nel resto della città, al contrario, la vita va avanti normale, c’è tanta gente in giro. Le persone qui sono molto cordiali, comprese le mie guide e il personale dell’organizzazione con cui collaboro. Purtroppo mancano i turisti, al tempo ne arrivavano a frotte. Pensi, nell’hotel dove soggiorno sono il solo ospite e i negozianti, quando mi vedono, ringraziano il cielo, pensando ad una ripresa del flusso. Di strada ce n’è ancora tanta da fare, le ferite sono ancora aperte, ma percepisco una grande forza di volontà”. Da una nazione frammentata in mille enclave, tra Isis, milizie sunnite, le pressioni turche e le forze curde a nord-est, ora la Siria si sta lentamente ricompattando dopo le battaglie vinte dal regime di Assad ad Hama, Homs, Douma, Dara’a, Raqqa, Aleppo, appunto, e così via.
La strategia e la campagna militare messa in campo dal presidente Bashar al Assad, con il fondamentale appoggio della Russia di Putin, di Iran ed Hezbollah, hanno avuto la meglio sull’intero fronte ribelle. All’appello manca soltanto l’enclave di Idlib, accerchiata dalle forze pro-Damasco e, a nord, dalla Turchia, ultimo bastione di resistenza delle milizie ribelli sunnite ad un processo che, salvo colpi di scena, pare irreversibile.
Così, sette anni e mezzo dopo l’inizio degli scontri e con un fardello di almeno 300mila vittime, lentamente la Siria cerca di tornare al passato e con essa Aleppo, la “perla” della storia e del turismo. È il tempo della ricostruzione, fisica e dell’identità di un Paese sconvolto. La fase-chiave passa anche attraverso i suoi simboli. Tra cui il Minareto della Moschea degli Omayyadi, o Moschea di Zaccaria, la più grande delle 41 erette nella “città del sapone”. Una torre alta 45 metri, unica nel suo genere. Anni per erigerla, pochi istanti di follia per distruggerla. Nei giorni di aprile del 2013 la battaglia tra le forze di Damasco e i ribelli infuriava. Difficile, in quei momenti, orientarsi e capire chi realmente ridusse quel pezzo di Storia in macerie. Il dito, al tempo, è stato puntato su Jabhat al Nusra, la costola sunnita di al Qaeda in Siria, trasformato e frantumato in altre sigle e milizie radicali.
Le forze ribelli hanno accusato il regime, ma c’è chi ha le idee chiare sulla paternità del gesto: “I terroristi hanno distrutto il simbolo di Aleppo e dell’intera cultura siriana, una ferita che ora stiamo cercando di rimarginare. Non ci sono dubbi sulla responsabilità, a colpire è stato Abdul Qader al Saleh, leader della milizia Liwa al Tawheed, legata al fronte al Nusra”, azzarda Reme Sakr, direttrice del programma Living heritage, patrimonio vivente, per conto della ong Syria Trust for Development, la cui presidente è la first lady siriana, Asma al Assad: “Il lavoro del professor Fangi – aggiunge Reme Sakr – è un dono molto prezioso perché con le sue fotografie e la sua tecnica in 2-3 anni saremo in grado di ricostruire il minareto nella maniera più fedele rispetto all’originale. Grazie a lui e all’Italia”.

Il Fatto 15.10.18
Euro, verso la stangata dopo l’addio alle monete da 1 o 2 centesimi
La Zecca non conia più i ramini e chi paga in contanti si vede arrotondare la somma
di Patrizia De Rubertis


C’è un fantasma che si aggira nei portafogli: sono le monetine da 1 e 2 centesimi. Odiate dai consumatori, rifiutate dai distributori automatici, impossibili da usare per il parcheggio delle auto e mal sopportate dai cassieri dei supermercati, dal 1° gennaio di quest’anno non vengono più coniate dall’Italia. E già questa notizia potrebbe essere una novità per i più. A cui aggiungere un’altra realtà fotografata in queste settimane: le monetine stanno cominciando a scarseggiare nei Paesi europei che già hanno deciso di mettere la parola fine alla loro produzione. Con un inevitabile conseguenza: il possibile aumento dei prezzi, anche se a tutt’oggi di statistiche ufficiali ancora non ce ne sono.
Come al solito, meglio fare un passo indietro per capirne di più. Dopo mesi di polemiche, la legge di Stabilità 2018 ha messo fine alla produzione delle monetine da 1 e 2 centesimi. Dal 1° gennaio la Zecca non conia più i ramini che continuano comunque a circolare fino ad esaurimento, mantenendo il loro valore legale. E per evitare il rischio del ritocco al rialzo dei prezzi, la norma ha già chiarito che nel caso di pagamenti in contanti i prezzi vengano arrotondati per eccesso o per difetto al multiplo di 5 più vicino. Ad esempio: 10,52 euro diventa 10,50 euro, mentre 10,58 euro diventa 10,60 euro. Del resto, è solo una questione di numeri: dall’ingresso dell’Italia nell’euro, le monetine rosse hanno raggiunto la cifra di oltre 6 miliardi di pezzi. E il cui peso è soprattutto economico: per ogni moneta da 1 centesimo i costi a carico dello Stato ammontano a 4,5 centesimi, mentre per ogni moneta da due centesimi si spendono 5,2 centesimi. Non certo un affare per lo Stato, che ha già spinto altri Paesi europei ad abolire le monetine da tempo. In Finlandia, nel gennaio 2002, si è deciso per l’arrotondamento dei prezzi ai più vicini 5 centesimi. Decisione seguita due anni dopo dall’Olanda, che risparmia in questo modo 36 milioni di euro l’anno. Nel 2010 è stato il turno dell’Irlanda e nel 2014 dal Belgio. Mentre in Italia la sospensione del conio permetterà di risparmiare circa 23 milioni di euro all’anno, un tesoro girato al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato, nato nel 1993 con lo scopo di rimborsare o ritirare titoli di Stato dal mercato per favorire la riduzione dello stock del debito.
Fin qui l’analisi fredda dei numeri. Il punto è che, però, in questi giorni proprio da uno dei Paesi che ha già detto addio alle monetine è arrivata una notizia: come riporta EuropaToday, il Belgio si sta scoprendo povero di ramini. Nonostante il Paese abbia coniato 860 milioni di pezzi da un centesimo e 770 milioni da 2 centesimi, questa enorme montagna di ferro si è persa tra le tasche dei pantaloni, nei barattoli delle cucine, nel fondo delle poltrone o lungo le strade smettendo così di circolare. Il Paese ha chiesto alla Banca centrale europea (Bce) di stampare nuovi pezzi per far fronte alla carenza, ma Francoforte ha spiegato chiaramente che nell’eurozona non c’è penuria delle monete da piccolo taglio. Quanto piuttosto un uso sbagliato da parte dei cittadini. Tant’è che il ministero federale delle Finanze sta pensando di varare campagne nazionali di sensibilizzazione per indurre i belgi a portare le monetine in banca. Anche perché l’alternativa, nell’impossibilità di dare resti da parte dei commercianti, è l’arrotondamento dei listini. Che solitamente si fa al rialzo, a favore del commerciante.
Un allarme che per l’Italia è stato già profetizzato dall’Aduc. “Non credo di essere estremista sostenendo che tutti i prezzi subiranno un arrotondamento ai 5 centesimi successivi”, sostiene il presidente Vincenzo Donvito. Che spiega: “Quando cominceranno a scarseggiare anche da noi le monetine sarà un’ottima occasione per ritoccare ulteriormente i prezzi perché, in un contesto di importi precisi, saranno pochi i commercianti che continueranno a tenere prezzi in cui compaiono i 5 centesimi, ovviamente andando verso il rialzo. Del resto non si è mai visto un effetto al ribasso”. I calcoli sono presto fatti. “Se nel 2016, le famiglie italiane hanno speso quasi 11 miliardi e mezzo di euro per la spesa alimentare complessiva, partendo da un aumento medio dei prezzi dello 0,2% causato da un arrotondamento per eccesso (passando da 10,58 euro a 10,6 euro), si scopre che quella stessa spesa potrebbe aumentare di circa 23 milioni all’anno. Vale a dire il risparmio ottenuto dallo Stato non coniando i ramini. Vale allora la pena non produrre più queste monete?”, si chiede Donvito.
Tutto questo anche in attesa che la tecnologia modifichi i sistemi di pagamento saldando senza problemi di resto i prezzi che finiscono con 0,99 centesimi grazie ad app, carte di debito o credito. Ma, tutt’oggi, secondo la Bce, gli italiani continuano a pagare in contanti l’86% delle transazioni e solo il resto con carte, bonifici e assegni.

La Stampa 15.10.18
La Rivoluzione culturale di Mao, il “mondo nuovo” senza passato
di Madeleine Thien


Predecessori, avi e genitori. Da dieci anni a questa parte ho scritto di postumi e incipit della guerra. Ho scritto della guerra civile e del genocidio in Cambogia, accaduti quand’ero piccola.
Alla fine del romanzo, mi sono ritrovata di fronte a un numero inusitato di quesiti difficili: domande sull’ideologia e sulla rivoluzione, sulla giustizia sociale e sulla solidarietà e sul prezzo da pagare o da non pagare, per poter attuare un cambiamento radicale. E ciò mi ha condotto a ripensare profondamente alla Rivoluzione culturale cinese e alle dimostrazioni di Tienanmen del 1989.
Durante la Rivoluzione culturale venne detto a una generazione di studenti che avrebbero dovuto distruggere il vecchio mondo per portare il nuovo. Il vecchio mondo oggetto dell’attacco era il mondo della storia, del ricordo, della conoscenza e della famiglia. Un brano musicale, letterario, una poesia che una volta ci commuoveva, oppure una lettera del proprio padre che avrebbe potuto essere considerato un nemico di classe del popolo: tutto ciò era vietato, perché percolava dentro il proprio essere e ricablava la modalità di acquisizione dell’esperienza del tempo mentre si era vivi.
Tutto ciò era foriero del dubbio. Secondo il presidente del Partito, Mao, l’arte per l’arte e l’amore per l’amore, erano reati. Qualsiasi forma d’arte e d’amore doveva servire l’ortodossia predominante.
Trentasei milioni di persone vennero prese di mira e centinaia di migliaia persero la vita: suicidi compiuti da musicisti, insegnanti, professori, studiosi, scienziati e lavoratori - genitori e nonni - riflettevano una disperazione profonda e, forse, l’inabilità o il rifiuto di accettare il mondo degli assolutismi della Rivoluzione culturale.
Solo i giovani, sosteneva Mao, potevano avere il coraggio di distruggere i vecchi usi e costumi, la vecchia cultura e le vecchie idee. Radete tutto a zero con le fiamme, disse loro, distruggete e buttate tutto nella spazzatura.
Difficile racchiudere in parole l’orrenda tragedia della Rivoluzione culturale. Era una bugia - raccontata a una generazione di giovani che erano pronti a mettere a disposizione il proprio corpo in prima linea per i loro ideali. Mao insisteva nell’affermare che ciascuna generazione deve ricostruire da capo il mondo. E insisteva nel dire che il potere è la conseguenza di un fucile puntato addosso. Sosteneva che coloro che vogliono un mondo migliore non solo hanno il diritto ma anche l’obbligo di esercitare la violenza contro il prossimo. La rivoluzione mise popolo contro popolo, l’uno contro l’altro, e tuttavia lasciò intatta la struttura generale del potere. Più il Paese precipitava nel caos, più Mao rimaneva comunque saldo al potere.
Mi è dato credere che il momento attuale della nostra vita sia precario. Ai suoi tempi, Virginia Woolf vide tutto ciò con estrema acutezza: «È odio, è amore», scrisse nel romanzo Le onde. «È quel flusso nero come la pece che ci fa vacillare quando decidiamo di sporgerci a guardalo. Qui, stiamo ritti su un davanzale e se guardiamo verso il basso veniamo colti dalle vertigini…». «È amore, è odio», scriveva, «tuttavia il nostro odio è quasi indistinguibile dal nostro amore».
«Amare il mondo», rifletteva Hannah Arendt. «Perché è tanto difficile amare il mondo?». E comunque, si rese conto che le cose che odiamo sono le cose di cui cerchiamo di far piazza pulita. Allora, quale azione politica sarà mai possibile, se non amiamo proprio questo mondo? Sosteneva la necessità che il pensiero fosse carico di passione, che definiva «giudizio senza disprezzo, ricerca della verità priva di zelo».
Virginia Woolf, nei suoi romanzi, usa frequentemente l’immagine di una soglia. Porte per spostarsi dall’interno all’esterno, dal presente al passato, dal letterale al metaforico, da una generazione all’altra: la soglia indica che non esiste un muro irremovibile fra ciò che fu e ciò che sta arrivando ora, «nessun vuoto indistruttibile», come scrive la critica Marion Dell. A me, queste parole sembrano una preghiera e un manifesto: non vi è vuoto indistruttibile.

Il Fatto 15.10.18
Sant’Orsola abbandonata, ferita nel centro di Firenze


Tra la tribuna del David di Michelangelo, all’Accademia, e lo sfascio eterno di Sant’Orsola ci sono solo tre isolati: contare i passi che separano il marketing del passato dalla progettazione del futuro vuol dire misurare la distanza che separa Vanna Marchi da Giorgio La Pira. Tutti gli ultimi sindaci di Firenze hanno scelto Vanna Marchi: Matteo Renzi ne era la reincarnazione, a Dario Nardella ne è toccata la supplenza. Ma, diciamo la verità: non sono solo i sindaci. Da decenni questa città “volgare” (Antonio Tabucchi), ha scelto di vivere di rendita: mettendo a reddito una bellezza che toglie il fiato e perdendo ogni capacità di prendere in mano il proprio futuro. Sono troppi i fiorentini che hanno scelto di stare in periferia trasformando la casa in centro in un albergo di fatto: intere vie sono ora dormitori-mangifici, in un inquietante “effetto Venezia”.
È mancata un’idea di città: un progetto, una visione. Hanno sbagliato tutti: l’università, il tribunale, la banca. Portando le funzioni vitali fuori dalla città storica l’hanno distrutta, senza giovare alla periferia. E allora a Firenze non è rimasto che prostituirsi. Pochi giorni fa l’ultimo cliente: un magnate russo si è preso il Salone dei Cinquecento per giorni, facendo chiudere il museo e trasformando Palazzo Vecchio in Las Vegas. È la norma: un film americano chiude le strade, Renzi prende in ostaggio Michelangelo per il suo “documentario”, addii al celibato vanno in scena tra i Raffaello di Palazzo Pitti…
Per questo proprio Sant’Orsola è così interessante, così carica di futuro. Parliamo di un grande isolato (sono quattordicimila metri cubi), di proprietà della Città Metropolitana, l’ex Provincia, piantato nel cuore di Firenze: nel quartiere di San Lorenzo, a un passo dal Duomo. Era un monastero femminile benedettino, fondato agli inizi del Trecento: ma una storia travagliata l’ha dato nell’Ottocento alla Manifattura Tabacchi, fino a un rovinoso abbandono. Negli ultimi anni nulla è successo: Sant’Orsola era nei “cento luoghi” che Renzi promise di restituire alla città (promessa finita come quella di ritirarsi dalla politica in caso di vittoria del no al referendum costituzionale); è stata il set della grottesca ricerca delle ossa della Gioconda (Lisa Gherardini, possibile modella di Leonardo, sarebbe stata sepolta lì) inscenata dagli stessi umoristi che hanno inventato quelle di Caravaggio a Porto Ercole; ha conosciuto un momento di gloria mediatica quando Andrea Bocelli propose di istituirvi un’accademia di musica (tramontata prima di sorgere): fino all’annuncio (maggio 2018) che a salvarla sarebbero stati i Benetton. No comment.
E ora? E ora le pubbliche autorità non hanno la più pallida idea di cosa farci. Dopo aver scartato le idee più sensate (la migliore forse quella di Marco Moretti, presidente del Diritto allo studio toscano, che proponeva di farci una super casa dello studente che riannodasse il legame tra universitari e fiorentini), rimane solo il nulla spinto: niente Rinascimento da vendere, niente lusso estremo o moda. Ma c’è un ma: e questo ma sono i cittadini di San Lorenzo, che da anni lottano, denunciano, studiano, documentano, propongono strade per salvare Sant’Orsola, e intanto riescono a non farla uscire dalla coscienza collettiva della città. Gli architetti e urbanisti che fanno parte del comitato “Sant’Orsola project” stimano in 450.000 euro le risorse necessarie a mettere in sicurezza il piano terra (liberarlo dai resti della cementificazione operata dalla Guardia di Finanza e da materiali vari) e fare una convenzione con associazioni giovanili che potrebbero garantire la guardiania: ma nulla si muove.
Daniela Tartaglia – una delle migliori fotografe italiane, che vive a pochi passi da quel gran buco nero – gli dedica un libro, “mossa dall’urgenza (forse irrazionale) di penetrare l’anima di quel luogo, un tempo spazio di meditazione ed ora quasi oasi di pace e silenzio rispetto all’artificialità e alla vetrinizzazione del sistema urbano”. Interessante è il metodo, moderno e antico, con cui questo libro nascerà: il grafico livornese Stefano Bianchi ha lanciato il progetto Crowdbooks, in cui si raccolgono soldi dal basso per finanziare la pubblicazione di qualità di libri d’arte. Lo si è fatto per secoli col sistema delle sottoscrizioni preventive, e oggi la rete rende questo metodo sostenibile e democratico. L’obiettivo non sono soli fondi: ma libri liberi, senza padrini e senza umani rispetti. Gli scatti di Tartaglia (alcuni li vedete in pagina) dimostrano che “se amore guarda, gli occhi vedono” (Carlo Levi). Se un sindaco avesse ascoltato con altrettanto amore i residenti di San Lorenzo, avrebbe subito capito che non si trattava di “riqualificare” Sant’Orsola, ma di “restituirla” ai cittadini. Nel libro si legge il ricordo di Silvana Li, che racconta come davanti ai suoi occhi di bambina Sant’Orsola “sembrava il paese dei balocchi: cortili, chiostri e scale dove scorrazzare”. E la stessa Silvana si chiede: “A chi giova tenere spazio collettivo in queste condizioni? Vorrei che potesse diventare un’altra volta un posto, magari più pulito e organizzato, come me lo ricordo: un posto pieno di vita, con bambini che corrono e giocano, anziani che leggono il giornale e giocano a carte, ragazzi che studiano e famiglie che ci dormono e ci vivono”.
Lo vorremmo in tanti, e non solo per quel luogo, ma per tutta Firenze: di cui Sant’Orsola è metafora e coscienza. E, chissà, un giorno anche riscatto.

La Stampa 15.10.18
La biografia di David N. Schwartz sullo scienziato italiano che fuggì negli Stati Uniti
Enrico Fermi, la fisica e nient’altro Il genio che non seppe farsi star
Era interessato soltanto alla sua materia, non alle implicazioni filosofiche delle proprie scoperte
di Paolo Virtuani


Ci sono periodi della storia in cui nascono a pochi anni di distanza una serie di personaggi straordinari nello stesso ambito del sapere. È stato così nel Rinascimento, che ha visto fiorire i più grandi pittori e scultori, oppure tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, quando la musica ha beneficiato di una concentrazione di artisti dal talento eccelso che consideriamo ancora oggi punti di riferimento.
La stessa cosa è avvenuta nei primi due decenni del Novecento con la fisica. Nel giro di pochi anni, grazie ad autentici geni come Planck, Einstein, Dirac, Bohr, Pauli, i Curie, Heisenberg e Schrödinger, la nostra conoscenza dell’infinitesimamente piccolo (l’atomo, il suo nucleo, i quark, i quanti, i neutrini) e dell’incommensurabilmente grande (l’Universo) ha compiuto salti enormi. Tra questi giganti delle scienze fisiche Enrico Fermi occupa un posto di preminenza. A Fermi sono stati intitolati istituti di ricerca, una classe di particelle (i fermioni), un elemento chimico (il fermio, numero 100 della Tavola periodica degli elementi). Eppure, nonostante le sue scoperte che gli sono valse il Nobel nel 1938, colui che rimane il più grande scienziato italiano della storia dopo Galileo Galilei è sì celebrato ma un po’ defilato nella galleria d’onore (in America direbbero nella Hall of Fame) dei personaggi che hanno «fatto la scienza». Anzi, spesso lo si associa a situazioni non propriamente positive, come la realizzazione del primo reattore nucleare, della bomba atomica nel Progetto Manhattan e di quella a idrogeno (benché si fosse pronunciato contro la bomba H) oppure l’iscrizione senza entusiasmo al Partito fascista e la fuga dall’Italia solo dopo la promulgazione delle leggi razziali anti-ebraiche, anche per il timore di conseguenze per la moglie Laura Capon.
A che cosa si deve, quindi, questa «trascuratezza» nei confronti «dell’ultimo uomo che sapeva tutto»? Tenta una risposta David N. Schwartz, autore della più completa biografia sullo scienziato (Enrico Fermi. L’ultimo uomo che sapeva tutto, appunto, Solferino), la prima pubblicata negli Stati Uniti sullo scienziato in oltre 40 anni e ora tradotta in italiano.
Schwartz non è un fisico, è un esperto di scienze politiche anche se ha respirato fisica di alto livello sin da piccolo a casa sua (il padre Melvin ricevette il Nobel nel 1988 per le ricerche sul neutrino, particella il cui nome fu inventato proprio da Fermi). Grazie (o a causa, dipende dai punti di vista) al fatto di non essere un fisico, Schwartz non inserisce nel libro le equazioni che sono alla base degli studi di Fermi ma fornisce una spiegazione sufficiente anche per chi non ha superato brillantemente l’esame di Analisi 3 alla facoltà di matematica. Si concentra nella narrazione della sua vita che non può in alcun modo essere scissa dal suo lavoro e dalle sue scoperte. Le due cose si intersecano fino a diventare una sola, perché è proprio in questo ambito che l’autore trova la risposta all’«enigma» della minore popolarità rispetto a fisici diventati icone, da Albert Einstein fino a Stephen Hawking.
Fermi era «troppo» concentrato sulla fisica in sé e sul suo lavoro. Anzi, era la sola cosa che gli interessava. Fermi non ha lasciato nei suoi diari alcuna nota che non fosse attinente al suo lavoro o alle spese di viaggio, nelle lettere ai colleghi non ha mai accennato ad altro che agli esperimenti e a come si potessero migliorare. Le uniche cose personali le sappiamo grazie ai ricordi scritti dalla moglie dopo la morte di Fermi nel 1954 a soli 53 anni o ai racconti di Emilio Segrè. Il certosino lavoro di Schwartz, che ha parlato con chi conosceva Fermi e ha analizzato tutti i documenti disponibili, colma questa lacuna. La «colpa» di Fermi, secondo Schwartz, è di non essersi mai interessato alle implicazioni filosofiche e cosmologiche delle sue scoperte, al significato profondo e rivoluzionario della teoria dei quanti, della giustapposizione di stati della materia opposti e incompatibili con l’esperienza quotidiana (il più noto è il «gatto di Schrödinger»: chiuso in una scatola è vivo e morto allo stesso tempo, e solo quando lo si va a osservare assume uno dei due stati, e la risposta di Einstein a queste «stranezze» della meccanica quantistica fu «Dio non gioca a dadi!»).
Fermi rimane lontano da tutto ciò non perché non ne comprendesse l’importanza, ma perché lo riteneva irrilevante per il lavoro, come diceva Ugo Amaldi, dell’«ultimo uomo che sapeva tutto» in tutte le discipline della fisica, l’ultimo che ha saputo padroneggiare ai massimi livelli sia la fisica sperimentale sia quella teorica, la relatività e la quantistica.
Oggi è impensabile che, data la complessità alla quale sono arrivati questi settori, uno studioso possa essere interdisciplinare anche solo restando nel campo della fisica. Pure ai tempi di Fermi gli «sperimentali» seguivano altre strade rispetto ai «teorici». Einstein fu un grandissimo teorico ma carente sul piano sperimentale, Marie Curie era un’eccelsa fisica sperimentale ma non brillava nella teoria. La vera marcia in più di Fermi non erano la capacità di analisi e l’intuizione (indicativa la sua scelta «d’istinto» dell’utilizzo della paraffina al posto del piombo per rallentare i neutroni e aumentare la radioattività indotta) ma la capacità straordinaria di capire l’essenza dei problemi ed essere in grado di spiegarlo agli altri.
Fermi fu il più grande maestro della storia della fisica: ben otto suoi allievi o ricercatori legati a lui hanno ottenuto il Nobel e almeno altri due lo avrebbero meritato (Ettore Majorana e Bruno Pontecorvo). Fermi, sottolinea Schwartz, era un uomo metodico e semplice, amava lo sport e la vita all’aria aperta, la sua massima idea di divertimento era una passeggiata in montagna o un ballo in compagnia di amici. Questa sua ritrosia rispetto alla luce dei riflettori in un mondo, anche quello della fisica, affollato di personaggi che scrivono libri e tengono conferenze affollate sul significato ultimo dell’Universo alla luce delle ultime scoperte, gli ha impedito di diventare una star e di avere il suo volto stampato sulle t-shirt come Einstein. Fermi oggi non è un’icona ma, come conclude Schwartz il suo libro, «forse non vedremo mai un altro scienziato come lui».

Corriere 15.10.18
«Senza vino, sigarette e donne mi consolo davanti alla tv Papà mai a un mio concerto»
Il cantautore: il mio successo? In realtà ho poca autostima
di Roberta Scorranese


Un pavimento del Settecento. Pietra e legno grezzo che si rincorrono nell’ampio salone dell’ingresso. Libri. Libri sugli scaffali alle pareti, sui tavolini bassi, sulle credenze, sulle poltrone delle stanze larghe e piene di luce cupa, luce degli Appennini.
Guccini, ma in questa casa ci sono più libri che dischi.
«Ha senso: io ho smesso di fare musica, non di leggere e di scrivere. Posso fare a meno delle canzoni e della chitarra, ma non della lettura».
Pàvana, con l’accento sulla prima «a», a due passi da Porretta Terme, ormai Toscana. Il bar, l’ufficio postale, il verduraio. Francesco Guccini è tornato a vivere qui negli anni Novanta. Pàvana è la sua Macondo: inietta vita e magia nelle persone normali, nei romanzi che scrive da anni ma anche nell’aneddotica quotidiana: le scarpe di quello che vive giù al fiume, quella volta che Tizio o Caio tornarono ubriachi.
Forse Guccini ha dovuto smettere di essere Guccini per trovare questa vena di realismo magico che irrora i suoi racconti?
«Ma no, viene dai libri. Da bambino abitavamo qui, una casa più vicina al fiume. Leggevo tutto quello che trovavo in giro. Pure i fumetti che non mi piacevano. Rubavo i romanzi d’appendice alla mia prozia, schifezze».
La zia, il nonno, il prozio Enrico che ritorna in «Amerigo». In fondo le sue canzoni sono una Spoon River familiare.
«Ho sempre vissuto con parenti, genitori, amori. La zia che mi passava i romanzetti una volta, quando avevo dodici anni, mi portò a conoscere il mare: insieme al parroco di Pàvana andammo in pellegrinaggio alla Madonna della Guardia di Genova».
Un po’ come quando, di recente, è stato ad Auschwitz per la prima volta, nonostante il campo di concentramento abbia dato il titolo alla sua canzone più famosa?
«No, ad Auschwitz mi sono davvero chiesto che fine avesse fatto Dio mentre lì gasavano le persone. Un gigantesco cimitero senza croci: non si può non pensare alla composizione del concetto di giustizia. Dov’è la giustizia? Che cosa è davvero? È soltanto una parola?».
Suo padre, che venne internato in un lager nazista, non le raccontava nulla?
«No, non ha mai voluto parlarne. Però mandò due cartoline, che purtroppo ho perduto. So che era nello stesso campo di Guareschi, ma non si incontrarono mai, erano in migliaia. Sa che cosa facevano, alla sera? Si riunivano e, stremati dalla fame, evocavano il ricordo di quel pollo con le patate, di quella pasta con il sugo grasso. Poi annotavano tutto in un quaderno. Carta finissima e inchiostro annacquato, perché non ce n’era abbastanza. Lo facevano per non perdere la memoria del gusto. Per non perdere la speranza, dico io».
Il padre. Dalle sue parole sembra sia stato una figura molto importante.
«Lo è stato. Anche se non è mai venuto ad un mio concerto e anche se, in tutta la vita, mi ha fatto solo due regali: una volta mi donò il libro Senza famiglia, di una tristezza assoluta. Un’altra volta, mi diede un rasoio elettrico».
Lui non era felice del suo successo?
«No. Mamma diceva sempre che lui avrebbe preferito un figlio giornalista o un figlio storico, cambiava versione a seconda dell’umore».
E lei? È felice del successo raggiunto?
«Sì, però non ho grande autostima. Ho studiato per fare il maestro ma ho insegnato solo tre giorni, una supplenza. Mi sono messo a suonare e a cantare quasi per caso, a Bologna. Ho fatto cose, certo. Ma non ho mai avuto la pretesa di incidere sulle coscienze».
Bompiani ha appena pubblicato un libro in cui Gabriella Fenocchio fa l’esegesi dei suoi testi. Mi pare un grande omaggio.
«Persino esagerato. Però Gabriella era una raimondiana, come me. Entrambi, all’università di Bologna, siamo stati allievi interni (cioé stretti collaboratori del docente, ndr) del grande italianista Ezio Raimondi. Non mi sono mai laureato perché poi mi sono messo a suonare e a cantare. Però ricordo quelle lezioni. Una volta voleva che imparassi il tedesco in una settimana per poter studiare un autore».
Però poi le sue canzoni hanno formato una generazione, guidandone l’impegno civile. Forse perché in fondo l’ambizione c’era?
«Ma va. Ho sempre scritto canzoni per me, mica perché mi credevo un guru. Che poi, a tutti gli effetti, questo abbia prodotto un mondo nel quale si sono riconosciuti in tanti, be’, me lo lasci dire: questa è l’arte».
Giusto. L’artista crea una realtà parallela più convincente della realtà stessa.
«Sì, ecco perché quando qualche amico mi chiama e mi chiede: “scusa Francesco, ma quella donna di cui parli nella canzone X esisteva davvero?” mi spiace un poco deluderli, ma è tutto inventato. O quasi tutto».
Donne. Una moglie, una figlia, ora Raffaella, di trent’anni più giovane, con cui sta da decenni. Guccini è un uomo felice?
«Certo. Non sono mai da solo».
Non ci sa stare da solo?
«No, è curioso: sono tornato a Pàvana per isolarmi dal caos di Bologna ma qui già a fine agosto, quando le giornate cominciano ad accorciarsi, mi intristisco. Voglio la luce in un posto con la luce triste».
Che cosa la annoia?
«Ormai ci vedo così poco che quel che riesco a vedere mi dà solo gioia. Soffro, piuttosto: io ho sempre divorato decine di libri all’anno e adesso faccio i conti con una malattia degli occhi, una maculopatia bilaterale. Non posso più leggere, così Raffaella o un’altra ragazza che viene a darci una mano, mi leggono i libri».
Che cosa le stanno leggendo in questo periodo?
«Un libro su un anziano ebreo che scopre un ex aguzzino tedesco. Avere qualcuno che ti legge le cose è bello, però, vede, oggi per esempio i fumetti non li conosco: che faccio, mi faccio raccontare le figure?».
Guarda la televisione?
«Moltissimo e le dirò di più: guardo anche quei programmi dove c’è gente contraria alle mie idee politiche per il solo gusto masochista di incazzarmi. Sento dire cose assurde e comincio a sbraitare, a insultare. Però la tv mi mette davanti a cose che si muovono. Solo quello mi dà conforto: sono ancora capace di gioire davanti a persone, macchine, treni, aerei, cose che si muovono. È l’eredità di una generazione, la mia, cresciuta con il cinema».
I suoi ce la portavano?
«Macché. Mi portarono sì e no quattro volte. Una volta, alla prima comunione, io volevo vedere Buffalo Bill ma mi fecero vedere La stirpe del drago, una cosa su Mao Tse Tung o simili. Da ragazzino appena potevo scappavo al cinema, da solo o con gli amici. Vedevo Ombre rosse, ma pure i film con Nazzari, capirai».
E oggi va al cinema?
«Ma se riesco a malapena a spostarmi dal salotto al letto. Ho un mucchio di problemi alla schiena e alle gambe. Che rabbia. Uno come me che saltava i fossi giù al fiume. Vogliamo parlare del fatto che mi hanno tolto il vino, le sigarette e le donne? (ride) E lo sa che ieri sera sono andato a letto alle dieci e mezza? No, dico, a Bologna, tra sigarette e bourbon, facevamo le tre del mattino. Giocavamo a scopa o con i tarocchi ma non ci siamo giocati mai nemmeno un caffè. Donne e alcol sì, certo. Erano vizi da contadini. Io sono un contadino. Mi piace stare qui in campagna perché la cosa più importante è il meteo. Che tempo farà domani, ecco che cosa conta davvero qui».
Una natura contadina, la sua, che ha fatto della «giustizia proletaria» uno slogan. Quella giustizia, alla fine, forse oggi non ha vinto.
«Certo che non ha vinto. Oggi la politica fa leva sulle paure, vere o percepite. E guardi la propaganda: è il vero motore della politica. Però io sono tra quelli che non si meravigliano che tante regioni o province “rosse” siano diventate leghiste. La sinistra italiana è lacerata sin dal congresso di Livorno e, anche quando ha vissuto stagioni migliori, ha sempre avuto una natura autoritaria, direi intollerante. Insomma, quei comunisti che oggi sono leghisti, erano leghisti dentro, solo che non se ne accorgevano».
Che cosa le fa più paura oggi?
«La paura stessa che leggo sulle facce della gente. Siamo un paese impaurito. Stanco, stremato. Ecco, questo mi spaventa davvero».
Un rimpianto?
«Premesso che oggi sono molto felice, mi è rimasta l’amarezza di una storia finita male, in gioventù. Lei era un’americana, che poi ha fatto carriera politica negli Stati Uniti. Però alla sua famiglia, che all’epoca stava a Roma, non piacevo. Una volta, a casa sua, la madre e i fratelli inscenarono una specie di processo: “I don’t like you!”, urlavano. Per carità, non avevano tutti i torti, però quell’aggressività mi fece male. Un amore poteva finire meglio».
Un processo, un po’ come quelli che negli anni Settanta si facevano agli artisti: tutti ricordano il «processo» a De Gregori da parte dell’estrema sinistra.
«A me non l’hanno mai fatto. Ma una volta ho fatto un spettacolo assieme Dario Fo alla Palazzina Liberty, a Milano. Siccome non c’era posto per tutti, molti non riuscirono a entrare. Così si misero a urlare “fascista” a Fo. Capisce? Dare del fascista a Dario. Lo vede che la nostra percezione della politica è guasta da anni?».
Un grande amico da sempre?
«Roberto Vecchioni. Ma anche altri».
Infine, Dio è davvero morto o che cosa?
«Vive il dubbio. E nel dubbio ci sono tutte le risposte. Le verità assolute ci rovinano».

Repubblica 15.10.18
Angela sulla Shoah
La tv fa bene alla storia
di Roberto Esposito

Domani cade il settantacinquesimo anniversario del tragico rastrellamento a Roma di più di mille ebrei, avviati alla morte nei campi di sterminio nazisti. Mai come quest’anno esso va ricordato, raccontato, spiegato, come ha fatto molto bene Alberto Angela in televisione sabato sera, con tutta la forza d’urto delle immagini e delle testimonianze dei sopravvissuti. Già lo aveva fatto, alla fine della guerra, Giacomo Debenedetti in un testo, poi più volte riedito, con il titolo, secco e tagliente, 16 ottobre 1943. Quella data non richiama solo un evento drammatico della nostra storia. Apre una ferita che non può rimarginarsi, nonostante i tentativi, torvi e goffi, di espellerla dalla memoria collettiva del paese. Il rastrellamento degli ebrei di Roma non testimonia la debolezza italiana di fronte alla ferocia tedesca. Ma rivela verità del fascismo. La sua natura essenzialmente criminale. Le leggi razziali sono un episodio orribile non solo per le loro conseguenze nefaste, ma perché pervertono il significato del diritto nella terra che lo ha visto nascere. Pensato come riparo degli innocenti dalla violenza arbitraria, in quelle leggi il diritto è diventato lo strumento stesso della violenza. Non ciò che difende la vita umana dalla morte violenta, ma ciò che la consegna a essa senza difese.
Ciò va oggi ribadito per diverse ragioni. Intanto perché da qualche tempo la questione del razzismo è tornata di triste attualità nel nostro paese. Ma anche perché proprio in Italia s’incrocia con il recente progetto di cancellare, o ridimensionare, la storia tra i possibili temi dell’esame di maturità. Su questa normativa, incomprensibile e inaccettabile, già gli storici italiani hanno espresso la più netta contrarietà. Che gli studenti negli ultimi anni abbiano scelto in misura sempre minore il tema di storia non è un buon motivo per eliminarlo anche dal novero delle scelte. Come se fosse un articolo da ritirare dal mercato perché non più richiesto. Mentre invece occorrerebbe fare esattamente il contrario – creare le condizioni per un rinnovato interesse per la storia, come non soltanto Angela, ma i nuovi programmi di Rai Storia stanno facendo. Sono trasmissioni che uniscono il rigore della ricostruzione storica con la suggestione del racconto per immagini. I risultati, come gli ascolti, sono sorprendenti. A riprova del fatto che a volte basta usare nuovi strumenti per diffondere a un vasto pubblico temi che parevano riservati a pochi cultori della materia.
Ma la ricorrenza di domani ci dice anche un’altra cosa, forse ancora più importante, sul significato della storia. Che cioè la nostra stessa esistenza è di per sé storica. Forse per questo motivo il libro di filosofia più importante del Novecento ha per titolo Essere e tempo. Tutto ciò che abbiamo intorno, compreso noi stessi, ha una dimensione temporale. Per questo, per quanto la si possa " dannare", la memoria non può spegnersi per decreto legge. Il passato non è semplicemente ciò che precede, o prepara, il presente. Esso è parte integrante di esso. Sta nel presente, come questo è interno al futuro. Ciò che definiamo "contemporaneità" non è soltanto l’ultima epoca dopo l’antichità e la modernità. Essa indica, secondo il suo significato letterale, la compresenza dei tempi all’interno di ogni tempo. Dunque anche del nostro. Nessuno può decidere di dimenticare la propria provenienza, perché quella radice non è solo dietro, ma davanti a noi. Perciò quei bambini, quelle donne, quegli uomini condotti alla morte il 16 ottobre del 1943 faranno per sempre parte della nostra vita.

Repubblica 15.5.18
Effetto Alberto Angela Con "Ulisse" la Shoah nobilita la prima serata del sabato televisivo (e piace agli spettatori)
Il racconto della deportazione degli ebrei romani ottiene il 18% di ascolti e trionfa anche sui social
di Antonio Dipollina


Per non dimenticare. Di sabato sera, per di più in televisione.
Un’impresa, ma di quelle che riescono ad Alberto Angela che appunto nel sabato sera di Rai1 riempie due ore di rievocazione feroce: le leggi razziali, il rastrellamento del Ghetto di Roma (camminando lento e metodico negli stessi luoghi, incalzando con la semplice forza del racconto puntuale). Si fermano a guardarlo in tre milioni e seicentomila, i social vanno in tilt sull’hashtag #Ulisse e sembra un mondo diverso. La gente scrive commossa, non si perde un attimo: Angela va poi nei lager e certe trattazioni da brivido sono di enorme impatto, il filo spinato elettrificato contro cui ci si andava a suicidare non resistendo all’orrore è lì, l’evocazione è efficacissima mentre parlano da testimoni sublimi tra gli altri Liliana Segre e Sami Modiano, ogni passaggio una lacrima in più. Era la puntata più politica della nuova serie di Ulisse, che Rai1 stavolta ha voluto proporre con scelta spericolata il sabato sera (nella prossima e ultima puntata della serie Ulisse ci si rilassa con la Principessa Sissi). Alberto Angela l’aveva anticipata scrivendo "La memoria è il più potente vaccino contro gli abissi della Storia" (volendo, due istanze attuali e progressiste in una sola frase.
D’altronde non è una superstar per caso). Ed è inutile far finta di nulla, tutto richiama i rischi del presente, certe derive nella coscienza collettiva nazionale e nella sua politica, l’intolleranza di nuovo diventata pane quotidiano di cui trattare o da cui essere travolti contrapponendo l’indignazione e mandando in scena richiami anche decisamente bruschi, come quello della rievocazione senza sconti di Angela. Che esordisce dicendo "sono nato nel 1962" e fa capire che non è stata una fortuna a caso, una lunga epoca senza grandi guerre — conflitto jugoslavo escluso — ma tutto è nato da quello che ha portato al racconto che per un intero sabato sera conquista lo spazio più popolare della tv.
Grandi consensi, sui social e altrove — tanta gente ne approfitta, per una volta, per ringraziare la Rai che "finalmente fa servizio pubblico": ed è una frase fatta e scontata quanto si vuole ma nasce da un’emozione vera. Si complimenta il giorno dopo anche Adriano Celentano che riempie di maiuscole un messaggio riconoscente per Angela ringraziandolo per averci ricordato che «il seme di quelle atrocità è dentro ognuno di noi, pronto a esplodere ogni volta che, fingendo di non conoscere il PROSSIMO, smettiamo di sorridere». Ma ringraziano tutti, istituzioni e organizzazioni e tanta gente comune.
Alberto Angela è ormai la punta di diamante acclarata di una tv che non ha paura di cercare nella Storia e nel suo racconto un modo per intervenire anche sul presente ricordando quanto deve rimanere viva la memoria: su Rai3 ogni giorno all’ora di pranzo Paolo Mieli costruisce spezzoni di passato con esperti e studenti in studio e se ne discute, la Rai ha un intero canale dedicato (RaiStoria) che a breve, per esempio, partirà con una innovativa rievocazione del Maxiprocesso palermitano alla mafia negli anni 80, mescolando fiction e documenti visivi che continuano a mettere brividi. Le pay satellitari hanno molta programmazione dedicata, su History Channel le rievocazioni sono continue su una programmazione che ha respiro internazionale: ma è fondamentale anche la produzione nuova, in proprio, paese per paese. Da noi a giorni parte proprio su History un viaggio a ritroso a larghissimo respiro nella storia d’Italia recente attraverso le sue linee ferroviarie. Ed è appena il caso di ricordare che in molti paesi — dalla Francia in giù — gli investimenti su questo tipo di programmazione sono ingenti. Da noi, però, il colpo d’ala del sabato sera della rete più vista e quella a cui si tiene di più è abbastanza un fattore unico: ed è quasi interamente addebitabile all’esistenza di una figura del tutto atipica come Alberto Angela, e di questo è naturale dargli merito.
Ma più in generale come discorso televisivo di attualità va ricordato che in questi giorni la tv si sta riprendendo compiti che forse erano ultimamente sfuggiti: sempre al capitolo lotta all’intolleranza vedi l’ormai celebre servizio andato in onda a Piazza Pulita di La7 e che ha acceso l’attenzione generale sul caso di Lodi e dei bimbi stranieri con mensa negata. Senza quello, con l’impatto emotivo suscitato da immagini e parole dei diretti interessati, l’impatto della vicenda sarebbe stato inferiore.
Unico dubbio, e probabile dibattito futuro, il fatto di dar voce all’intolleranza più smaccata, come accadeva nel servizio (i bambini definiti da un tizio "zecche dei cani"). Siccome in ogni condominio del paese si trova a colpo sicuro un fesso pronto a dichiarare che bisogna sterminare tutti col napalm, forse un giorno sarà il caso di chiedersi se a simili rozze banalità inutili bisogna dare spazio per forza.

Repubblica 15.10.18
Vivere o sopravvivere? Chiedilo ai classici
di Ivano Dionigi

Perché Seneca e Lucrezio sono un antidoto al pensiero unico
Il mondo classico, caratterizzato dalla centralità della ragione e dal culto dell’equilibrio, cos’ha in comune con questo nostro mondo eccentrico, senza più un centro, e ametrico, senza più una misura?
Atene e Roma cos’hanno da dire alla nostra gloriosa Europa nel momento in cui le dure e nuove leggi della geografia e della demografia stanno soppiantando il collaudato e rassicurante codice della storia?
Le parole di Lucrezio e Seneca come possono interessare l’uomo tecnologico dei nostri giorni che, catturato e frastornato dall’immensa rete dello spazio, ha smarrito la strada del tempo?
Quel mondo classico, quell’Atene e quella Roma, quel Lucrezio e quel Seneca possono essere nostri interlocutori: non perché abbiano risolto tutti i problemi e quindi s’impongano come modelli; ma, più semplicemente, perché ci hanno preceduti nelle nostre stesse domande; perché, allergici al pensiero unico, ci hanno prospettato visioni differenti e tra loro antagoniste; perché, pur da sponde opposte, hanno sperimentato, in solitudine e in autonomia, cosa significa sopportare la verità quando la vita ti viene a trovare. Lucrezio e Seneca, come Socrate prima di loro, hanno richiamato la filosofia dal cielo, l’hanno trasferita nelle città, introdotta nelle case e portata a interessarsi della vita, dei costumi, del bene e del male.
Sono interlocutori credibili e utili perché fanno il controcanto al presente, a qualunque presente, e ci proiettano nelle dimensioni profonde dell’intelligere, dell’interrogare, dell’invenire. Questi interlocutori, oltre a ricordarci come eravamo, ci dicono anche come potremmo essere.
Lucrezio e Seneca: autori necessari e dal pensiero forte non solo perché hanno segnato la storia del pensiero europeo con la curiosità della conoscenza, la radicalità della ragione, la novità della lingua; ma soprattutto perché sono simboli e paradigmi di due concezioni e tradizioni rivali del mondo. Divisi e antagonisti su tutto, sui problemi penultimi e su quelli ultimi: scegliere la politica (negotium) o l’antipolitica (otium)? Rimanere soli a riva a osservare (spectare) le tempeste della vita oppure salire a bordo (agere) senza curarsi dei compagni di viaggio?
Adottare le leggi del cosmo o le leggi dell’io, della fisica o della morale? Il finis è un «confine» da oltrepassare o da rispettare? Le Colonne d’Ercole sono una protezione o una limitazione? La lezione dei padri (notum) o la rivoluzione dei figli (novum)? Di fronte a Dio e alla morte, credere o capire?
Lucrezio e Seneca: i due hanno scritto parole durature e guadagnato quella sopravvivenza che l’uno negava e l’altro desiderava. Per secoli hanno resistito contro oblio (Lucrezio, eclissato per tutto il Medio Evo, sarà casualmente riscoperto nel 1417 da Poggio Bracciolini in un monastero non lontano da Costanza), condanne e congiure del silenzio: trascritti, tradotti, commentati, aspramente censurati o entusiasticamente elogiati.
Entrambi segni di contraddizione, o semplicemente erma bifronte, immagine dell’homo duplex. Ho trovato significativo che una parte della critica abbia riconosciuto Lucrezio in quel busto che – proveniente dalla Villa dei Papiri di Ercolano e conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli – una lunga tradizione aveva erroneamente identificato con Seneca: nello stesso volto, severo e pensoso, si è voluto vedere ora lo stoico Seneca ora l’epicureo Lucrezio. Anche i falsi storici veicolano messaggi di verità. Lucrezio e Seneca fanno ritorno ancora oggi sui banchi di scuola, nelle ricerche e negli studi sulla realtà naturale e sull’anima, nei festival di letteratura e filosofia. E fanno ritorno nella riflessione diurna e notturna di ognuno di noi, soprattutto di chi li ha frequentati tutta una vita al punto da non distinguere più se la compagnia di questi «antiqui huomini» sia più passione o professione. Ogni volta che ti schieri per l’uno ti assale il dubbio che la ragione stia con l’altro: perché entrambi hanno scritto per noi e di noi. Icone della bigamia del nostro pensiero e della nostra anima.
Inutile chiedere loro pace, perché sono naturaliter antagonisti e interroganti. Sono methórioi, uomini di frontiera, che si sono spinti «al di là del confine».
È la sfida che i cercatori del pensiero di ieri lanciano ai viaggiatori sedentari di oggi.
Per rispettare e rispecchiare la loro "diversità", "drammaticità" e "permanenza", era necessario andare oltre i primi incontri giovanili, oltre i filtri delle ideologie, oltre gli occhiali della critica. Pertanto è sembrato naturale farli incontrare nella forma ravvicinata e viva del dia-logo, dove la parola e la ragione (logos) dell’uno incrociano e attraversano (dia-) la parola e la ragione dell’altro. E a volte mi è sembrato di sorprenderli a parlare di questioni che ci riguardavano.
I classici nascono postumi.

Il ritratto
Giusto di Gand e Pedro Berruguete: Ritratto di Seneca