giovedì 25 ottobre 2018

dal Corriere della Sera di giovedi 25 ottobre
«Se uno vuole capire certe differenze, una vergogna nazionale italiana che sempre evitiamo di guardare:
Le librerie di Parigi sono diminuite di un terzo, ne restano solo 715...
SECONDO DATI DEL 2016 IN TUTTA ITALIA LE LIBRERIE SONO 811»


Corriere 25.10.18
Il «Fronte» delle filosofe per dire no ai populismi


Le donne «molla del cambiamento», la sensibilità femminile come motore capace di aggregare un’opposizione vasta alle «nuove forme di populismo, razzismo e fascismo». Sono questi i concetti chiave della dichiarazione con cui Donatella Di Cesare e Francesca Rigotti hanno lanciato l’iniziativa, del tutto inedita in Italia, di un Fronte delle filosofe che intendono «prendere partito» ed esporsi nel dibattito pubblico, non «per creare consenso ma per invitare a riflettere». Numerose e qualificate le adesioni raccolte finora dalle due promotrici: Laura Bazzicalupo, Laura Boella, Caterina Botti, Annarosa Buttarelli, Adriana Cavarero, Simona Forti, Olivia Guaraldo, Enrica Lisciani Petrini, Michela Marzano, Francesca Nodari, Elena Pulcini, Caterina Resta, Elettra Stimilli, Nadia Urbinati, Nicla Vassallo.

il manifesto 25.10.18
Quel nesso tra letteratura e ideologia
Saggi. «Il presente di Gramsci», un volume a più voci, curato da Paolo Desogus, Mimmo Cangiano, Marco Gatto e Lorenzo Mari, per Galaad Edizioni
di Lelio La Porta


In che modo si può oggi affrontare il discorso intorno al nesso letteratura-ideologia dal punto di vista gramsciano? La domanda è posta a partire dalla lettura del volume a più mani, curato da Paolo Desogus, Mimmo Cangiano, Marco Gatto e Lorenzo Mari, Il presente di Gramsci. Letteratura e ideologia oggi (Galaad Edizioni, pp. 340, euro 18).
SE SI PRENDE in considerazione la lettera del pensiero gramsciano a proposito del problema, la risposta è quasi automatica: Gramsci affronta la questione dal punto di vista dell’intellettuale e del dirigente politico attento a cogliere il nesso storico della subordinazione dei governati ai governanti anche attraverso l’analisi della letteratura e dell’arte. A ben vedere, il grande sardo pone un’ulteriore questione relativa alla possibilità di un’estetica marxista, o del materialismo storico, o ancora della filosofia della prassi, questione che, però, Gramsci affronta prendendo in considerazione tutta un’altra serie di problemi, soprattutto storici.
LA DIMENSIONE prismatica della sua riflessione che penetra, a partire dalla realtà storica così come essa si presenta, la filosofia, la letteratura, l’economia, la politica, consente di sottrarre la complessità dell’opera gramsciana alla falsa indicazione, che vorrebbe essere anche una stroncatura, di organicità. Gramsci non voleva realizzare un’estetica materialista quanto piuttosto andava alla ricerca di nuovi argomenti, in specie polemici, a sostegno della sua battaglia culturale per l’egemonia.
SEMBRA DUNQUE che i saggi che compongono il volume della Galaad si muovano proprio in questa direzione, ossia quella indicata da Gramsci alla ricerca dei mezzi per costruire l’egemonia e, quindi, realizzare un nuovo senso comune che si presenti con le caratteristiche del buon senso. Nella eterogeneità dei temi trattati dai singoli autori (ne cito alcuni senza nulla sottrarre agli altri; il concetto di oggettività, Prometeo e la Città Futura, Fortini, Volponi, Pasolini, la critica cinematografica gramsciana, Asor Rosa) si coglie un elemento unificante che si può definire «militante»: porre la necessità di una coscienza critica che sappia valorizzare, proprio nel senso più profondo dell’attributo «critica», ossia elaboratrice di un giudizio nuovo, in cui, al permanere dei soggetti, cambino le predicazioni degli stessi, e, perciò, alternativo, l’idea lukácsiana, ma di conio gramsciano, come sostiene Marco Gatto, «che la letteratura si candidi a essere strumento di conoscenza della realtà proprio per la sua capacità di riflettere la complessità del consorzio sociale, a volte persino allontanandosi dai principi ideologici dell’autore».
QUINDI, L’IDEOLOGIA: termine ormai obsoleto la cui fine è stata decretata in quanto manifestazione delle elaborazioni alternative rispetto all’unico pensiero dominante. Gramsci la ripropone, come ricorda Mauro Pala nella sua Postfazione, in quanto proprio «un complesso lavoro ideologico» è alla base di quello «spirito di scissione» da cui i subalterni progressivamente acquisteranno la «propria personalità storica».
Il libro è percorso, mi sembra, anche dall’esigenza di riformulare il concetto di nazional-popolare per sottrarlo in modo definitivo a quei giudizi che spesso lo hanno ricondotto al paternalismo di stampo giobertiano.
GRAMSCI VOLEVA proporre, con quel concetto, una storia politica della cultura italiana della quale la letteratura fosse parte essenziale; il «presente di Gramsci», che dà il titolo al volume, vuole essere la ripresa del tema gramsciano della letteratura appannaggio non solo dei dominanti ma anche, e soprattutto, dei subalterni. Mentre Gramsci parlava di Dante e di Manzoni, che restano centrali e fondamentali, gli autori indicano Fortini, Volponi, Pasolini etc. La letteratura può, perciò, proporsi come momento necessario del «complesso lavoro ideologico» di cui si è scritto. Ma, a questo punto, il lavoro diventa pedagogico; la palla passa alla scuola. Hic Rhodus, hic salta!

Repubblica 25.10.18
La storia
Quando E.T. sbarcò nell’Urss di Iosif Stalin
Prolekult di Wu Ming, Einaudi
L’idea del collettivo di scrittori è mettere insieme il bolscevismo e la fantascienza, conditi di un oizzico di nostalgia trotzkista
di Wlodek Goldkorn


Nella loro nuova saga distopica, "Proletkult", i Wu Ming ci trasportano nella Russia post-rivoluzionaria del 1927. Intrecciando la figura realmente esistita di Bogdanov, già rivale di Lenin, agli alieni: un viaggio intorno al tema dell’utopia
Cominciamo dalla foto canonica: due signori giocano a scacchi, seduti l’uno di fronte all’altro.
L’uomo a sinistra, elegante con la bombetta sulla testa è Vladimir Uljanov, detto Lenin, capo dei bolscevichi. Il suo avversario è Aleksandr Malinovskij, detto Bogdanov; medico, filosofo, scrittore, pioniere della fantascienza; sognatore di un comunismo interplanetario, o se preferiamo cosmico. Sullo sfondo, si vedono alcune persone, tra cui la moglie di Bogdanov e seduto su una balaustra, Maxim Gorkij. La foto è stata scattata a Capri, nel 1908, dove Gorkij appunto aveva preso in affitto una villa, Villa Spinola, in cui ospitava i rivoluzionari suoi amici e dove Bogdanov aveva fondato una scuola quadri del Partito.
C’è un’altra foto dello stesso periodo e nello stesso luogo, ma che raramente viene riprodotta; forse perché in quell’immagine Lenin è a capo scoperto con la bocca spalancata, non si sa se urla o sbadiglia o forse ride, comunque il futuro leader del comunismo mondiale ha qualcosa di sguaiato, mentre Bogdanov è composto, elegante.
Bogdanov era l’avversario di Lenin non solo in tenzoni scacchistiche negli ozi di Capri, ma anche e prima di tutto nel Partito bolscevico; di più, fu l’uomo da condannare in quanto deviante e deviazionista, a causa delle sue idee filosofiche. Lenin gli dedicò uno dei suoi più celebri (e pedanti) pamphlet, dall’impossibile titolo Materialismo ed empiriocriticismo, di cui per fortuna si era persa la memoria, ma che fu a lungo caposaldo dell’ortodossia comunista.
Chissà se i Wu Ming, collettivo di scrittori di sinistra e radicali, hanno guardato quelle foto mentre facevano resuscitare, come può accadere solo in un romanzo di fantascienza, Aleksandr Bogdanov. Infatti, il medico scrittore torna in vita nel romanzo Proletkult, in uscita con Einaudi Stile libero; e risulta simpatico, generoso, onesto (un medico umanista alla Cechov). Bogdanov, nel libro, è pure un uomo che, contro il trionfante e cupo realismo di una Rivoluzione compiuta e in mano a Stalin, difende la memoria sconfitta dell’utopia e anche la dignità della sconfitta. Ma procediamo con ordine.
Il romanzo è ambientato a Mosca, nell’autunno 1927.
Siamo alla viglia del decimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre.
L’opposizione, capeggiata da Lev Trotzkij, è oggetto di persecuzioni; gli intellettuali che avevano organizzato la Rivoluzione, sono tristi e impauriti. Uno di questi è Anatolij Lunacarskij, critico letterario importante e bolscevico non proprio ortodosso (anche lui criticato assieme a Bogdanov da Lenin) e fondatore di Proletkult, la parola che dà il nome al libro.
Proletkult era un’associazione culturale che avrebbe dovuto introdurre e favorire una cultura genuinamente proletaria e di massa. Dopo varie vicissitudini venne sciolta da Stalin nel 1932.
Ecco, in questa Mosca grigia e tetra Bogdanov incontra una ragazza, diafana, un po’ androgina, ignara degli usi e costumi sovietici. Lui, da medico, si occupa della trasfusione del sangue; nella sua clinica scambia i fluidi dei corpi di diverse persone; questa pratica serve a far progredire la scienza, ma è anche uno strumento per rendere tutti gli umani fratelli e sorelle, consanguinei, appunto. Infine, il medico è anche l’autore di un romanzo, Stella Rossa, dove si parla di un astro su cui vige il comunismo. Le vicende delle clinica e del romanzo, sono vere. I Wu Ming hanno solo inventato la ragazza, che, si scopre leggendo, viene proprio dal pianeta raccontato da Bogdanov.
La giovane è alla ricerca di suo padre, convinta che stia a Mosca. Il medico scrittore, le dà una mano; e così gli autori ci raccontano la capitale sovietica nel 1927, in un momento storico in cui Stalin si sbarazza (per ora politicamente, li farà uccidere qualche anno dopo, assieme a milioni di cittadini) dei suoi oppositori. Ma oltre a questo, per Bogdanov, un uomo ai margini della grande Storia, l’incontro con la ragazza è una specie di dispositivo che mette in moto la sua memoria. Così, lo scienziato ricorda la rapina a mano armata, compiuta da Stalin in Georgia, nel 1907, con un bottino di milioni di rubli che entrarono nelle casse dei bolscevichi. Ma torna nella mente di Bogdanov anche la vita in comune e in esilio dei rivoluzionari; e le partite a scacchi a Capri. Nel romanzo, Bogdanov va a trovare alcuni dei suoi compagni ora funzionari di ministeri e del partito a Mosca; sono rassegnati; cercano di adattarsi a una vita senza altro scopo che sopravvivere. E per la cronaca, il vero Bogdanov morì nel 1928, nella sua clinica, a causa di una trasfusione, ma c’è chi dice che si sia trattato di un suicidio.
È stata una bella idea, quella dei Wu Ming, di mettere insieme il bolscevismo e la fantascienza, conditi da un pizzico di nostalgia che potremmo definire trotzkista.
Quel terremoto nella storia dell’Europa che fu la Rivoluzione, è stato anche il risultato di uno straordinario fermento culturale verificatosi in una Russia ancora rurale, in parte comunitaria e comunque zarista alle prese con la modernità capitalista, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. In quella Russia nascevano varie utopie; comprese quelle del comunismo su scala cosmica; operava lo scienziato e ingegnere Konstantin Ciolkovskij, che oltre 120 anni fa, progettava razzi e ascensori cosmici. Figli di Ciolkovskij sono gli scrittori e registi che hanno, in questi ultimi decenni, indagato le utopie avveniristiche (e spesso distopie), dai fratelli Strugackij a Tarkovskij e German, ma era suo figlio ideale pure Gagarin, il primo cosmonauta al mondo.
Ecco, un merito di Proletkult, è che leggendolo ci accorgiamo quanto in questi tempi dell’eterno presente, abbiamo bisogno di una narrazione che ci restituisca un’idea dell’avvenire, ma anche quanto quell’avvenire, a sua volta, è un’utopia presa a prestito dal passato.

il manifesto 25.10.18
La vocazione al suicidio delle classi dirigenti italiane
Il riformismo scolastico neoliberista. Da tempo si preparano i presupposti culturali per fornire al suicidio nazionale i mezzi più adatti a realizzarsi. Si pensi al bando della geografia nell'insegnamento scolastico o all'abolizione del tema di storia dagli esami della maturità, una vera mutilazione culturale decisa dal Miur
di Piero Bevilacqua


Credo di poter dire che in nessuna fase storica, per lo meno in età contemporanea, le classi dirigenti italiane e soprattutto il suo ceto politico, abbiano manifestato una così accanita volontà di autodistruzione, un tanto esplicito “istinto di morte”, come accade da noi da alcuni anni.
I segni di questa china del nostro paese verso il suicidio sono evidenti e molteplici. Il primo e più clamoroso è la lotta senza quartiere contro la gioventù. Un paese di vecchi, dove nascono sempre meno bambini e sempre più anziani diventano inabili a badare a se stessi, offre alle nuove generazioni un avvenire di disoccupazione e lavori precari, semina la strada di mille ostacoli per i ragazzi che vogliono accedere all’università, costringe le migliori intelligenze a cercare fortuna in giro per il mondo.
Un paese che si va spopolando, che vede cadere in stato di abbandono cittadine e villaggi, terreni agricoli e boschi, fa la guerra contro la gioventù povera del Sud del mondo, i migranti che approdano sulla Penisola e che potrebbero farli rinascere. Com’è accaduto a Riace. Un paese che ha conseguito tardi e con tanti sacrifici la sua unità, la più importante conquista della sua storia moderna – per citare l’opinione di uno storico non certo della nostra parte, come Rosario Romeo – comincia ad avviare concretamente, con l’autonomia fiscale e di altre materie del Veneto, il processo della sua decomposizione.
Nel frattempo queste classi dirigenti vanno da tempo preparando i presupposti culturali per fornire al suicidio nazionale i mezzi più adatti a realizzarsi. Si pensi al bando della geografia nell’insegnamento scolastico. In qualunque scuola del mondo una simile scelta apparirebbe di una assurdità clamorosa, nel momento in cui la geografia del globo, coi suoi movimenti di popoli, le catastrofi naturali, gli sconvolgimenti climatici, entra quotidianamente nelle nostre case.
Ma in Italia l’emarginazione di questa disciplina corrisponde a una vera mutilazione culturale. Nessun paese d’Europa, a eccezione in parte dell’Olanda, dipende come il nostro dai caratteri e dalla salute del suo territorio. Dalle Alpi alla Sicilia, in un tratto di 1200 km, non c’è nazione che possa vantare la varietà di habitat, di climi, di orografia, di piovosità, di regimi fluviali, di natura dei terreni, quanto l’Italia.
Da questo “mosaico di territori” nasce, insieme alla nostra originalissima storia, l’unicità mondiale delle nostre agricolture e dunque delle nostre cucine. Le nuove generazioni non devono conoscere i caratteri originali dei paese in cui vivono e che tanto concorre alla sua condizione presente?
L’ultimo atto di questa svagata strategia di mutilazione culturale è stata la decisione del Miur di abolire il tema di storia dagli esami della maturità. Un invito esplicito ai nostri ragazzi a mettere da parte questa disciplina nel percorso dei loro studi, finalizzato sempre più alla sua verifica finale. Al posto del tema di storia una prova sui problemi del presente. Troppo grandi e pressanti sono le questioni che urgono oggi per dover perdere tempo con fatti e vicende di anni ormai trascorsi e lontani.
Si tratta di una decisione che costituisce il distillato del processo di “modernizzazione” messo in atto da tempo dal riformismo scolastico neoliberista, non soltanto italiano. La scuola deve stare “al passo coi tempi”, cioè deve essere inglobata nei meccanismi dello sviluppo economico, diventare congruente e propedeutica al mercato del lavoro, immersa nei flussi e nei paradigmi della società dell’informazione e dello spettacolo. E questa è una conquista? L’emarginazione della storia e lo stare schiacciati sull’oggi offre alle nuove generazioni le chiavi per districarsi nel presente, per aprirsi alla visione delle correnti profonde che attraversano i nostro tempo, indicandole i compiti dell’avvenire?
Senza la storia, senza la profondità prospettica del passato, il presente si staglia come un fenomeno naturale, l’immobile e unica realtà possibile, una rappresentazione senza cause e senza autori. Nessuno può comprendere come e perché siamo arrivati sin qui e nessuno può scorgere vie d’uscita per il futuro. Non posso a questo punto non pormi la domanda:ma non costituiva una conquista già acquisita l’idea che senza la conoscenza storica, senza l’alterità dei mondi che sono già stati, senza la consapevolezza che ogni presente non è che un processo transitorio, un manufatto umano, nessun progetto di società è possibile? Forse le classi dirigenti vogliono convincere le nuove generazioni che il caos stupido e feroce che esse non sanno più governare sia l’unico mondo possibile.

il manifesto 25.10.18
Mamiani occupato: «La scuola degli studenti è l’antidoto ai femminicidi»
Nel cortile del liceo classico di Prati ragazze e ragazzi discutono di politica. La palestra ospita un’assemblea cittadina con altre scuole romane. Obiettivo: scrivere un manifesto di proposte e linee guida per una mobilitazione contro il governo
di Giansandro Merli


ROMA Ai due lati del portale d’ingresso arancione del liceo classico Mamiani sono appesi due striscioni. Uno dice: «Mai con Salvini». L’altro: «Sinistra fatti avanti». Ce n’è anche uno al centro: «Mamiani occupato». Da martedì sera, la scuola è sotto il controllo degli studenti. Nel cortile ragazze e ragazzi discutono di politica. La palestra ospita un’assemblea cittadina con altre scuole romane. Obiettivo: scrivere un manifesto di proposte e linee guida per una mobilitazione contro il governo.
L’INTERNO DELL’EDIFICIO storico è pulito e tenuto con cura. L’accesso ai piani superiori è bloccato per evitare danni. «Ci teniamo a mostrare che ci stiamo prendendo cura della nostra scuola, perché quest’occupazione è diversa», racconta un ragazzo alto e robusto che si occupa di non far entrare «gli esterni».
«A VOLTE GLI STUDENTI che protestano sono accusati di farlo da una posizione comoda perché non vivono il disagio del Paese – racconta Giacomo, 18 anni – Noi abbiamo voluto dirlo subito: sappiamo di avere più opportunità di tanti altri ragazzi. Ma proprio per questo ci sentiamo investiti della responsabilità di fare qualcosa di positivo per tutti». Anche Francesco frequenta il quinto anno: «L’occupazione viene da un lungo percorso di discussione e analisi dei problemi italiani ed europei. Le soluzioni facili proposte dal governo, con le continue accuse al nemico più facile da individuare, non ci convincono. Questa protesta è anche una forma di sensibilizzazione verso tanti studenti che hanno perso fiducia nella politica. La politica è questa: parte dai giovani e ha l’obiettivo di far vivere meglio le persone». I ragazzi hanno le idee chiare: di questi tempi non basta occuparsi delle questioni studentesche, c’è bisogno di uno sguardo più ampio. Rebecca, 17 anni: «I femminicidi continuano ad aumentare. Dire che serve più polizia serve solo a nascondere il problema. Bisogna prevenire le violenze e ciò si può fare solo attraverso la scuola. Educando le persone di più e meglio. La scuola è il luogo in cui si formano le coscienze civili e politiche dei cittadini del domani».
«SALVINI E DI MAIO – afferma Francesco – non hanno alcuna prospettiva sul futuro. Le misure del governo non risolvono i problemi. Ad esempio, il reddito di cittadinanza dei 5 Stelle dovrebbe eliminare la povertà, ma è semplicemente un incentivo alla precarizzazione. Non aiuta le persone in difficoltà, ma finanzia l’immissione in un mercato del lavoro precario, obbligando ad accettare condizioni di lavoro improbabili.» E aggiunge: «Avere una prospettiva significa, ad esempio, investire nella ricerca per le energie rinnovabili o nel patrimonio culturale. Abbiamo tante teste che potrebbero creare un nuovo mercato del lavoro, che parta dal basso, dagli studenti».
LA DIRIGENTE SCOLASTICA e alcuni professori hanno provato ieri a convocare gli studenti contrari alla protesta, per interromperla. «Alla fine, erano solo una quarantina, mentre altri 200 volevano partecipare ai corsi autogestiti. Così, non hanno potuto fermarci», raccontano i ragazzi. Si dicono dispiaciuti per la mancanza di cooperazione di figure che stimano e con cui avrebbero voluto collaborare. L’occupazione dovrebbe terminare sabato 27 ottobre. Gli studenti parteciperanno al corteo che partirà da piazza della Repubblica. «Ma andremo avanti: a novembre vogliamo lanciare un’altra data studentesca».

Repubblica 25.10.18
La protesta
Al liceo Mamiani l’occupazione è “flessibile” e fino a sabato
di Alessandra Paolini


È un’occupazione di quelle “flessibili” quella del Mamiani, dove il cancello in ferro con una piccola grata come nei conventi di clausura, si apre e si chiude di continuo. Si spalanca ai ragazzi che vogliono entrare e unirsi alla protesta, e a quelli che vogliono tornare a casa «perché sennò mamma si preoccupa e papà se prendo 5 in condotta “ m’ammazza” » . Ieri in questo secondo giorno di colpo di mano, quando alle 4 del pomeriggio di martedì un paio di centinaio di ragazzi “orfani di un sogno che va ricostruito”, sono entrati anche i cornetti. Colazione, dopo la prima notte di un’occupazione, in cui s’è cantato, ballato e probabilmente dormito poco.
Ha gli occhi cercati anche lei. Una nottataccia per Tiziana Sallusti, la preside che i ragazzi hanno scritto sul comunicato stampa, « stimano » , non si dà pace. È già davanti al portone alle 6 del mattino. Cerca di mediare, di parlare con i ragazzi e convincerli che è sbagliato occupare. « È una cosa illegale e pure pericolosa — dice — per loro stessi che nella maggior parte sono minorenni e nessuno li controlla, perché pieno di studenti di altre scuole che non conosco. E perché lì, dentro le aule ci sono computer e lim ( lavagne interattive multimediali,
ndr) che costano un sacco di soldi. E all’ultima occupazione i danni fatti sono stati enormi». Ma i ragazzi, capiscono le sue motivazioni, ma resistono.
Alle 10 in via delle Milizie insieme al coro festante di chi sta dentro “ Siamo tutti antifascisti” c’è anche il coro dei tanti mamianini contrari all’occupazione. «In questa scuola siamo quasi 1200 studenti, ad occupare saranno stati al massimo in duecento. E non è giusto — spiega Gabriele — Oggi avrei dovuto presentare il programma delle liste studentesche e come me anche gli altri candidati. Così adesso, nessuno avrà la possibilità di esprimere democraticamente le proprie idee e questo va contro gli ideali di cui parlano loro».
C’è anche la polizia, sul viale. Non per sgomberare. « Sono ragazzini, non è il caso » , dice un agente « Ma questa è una strada, ci passano le macchine e non può essere piena di gente che aspetta. Ad aspettare ci sono gli studenti indecisi « entro o non entro ». Alcuni genitori in apprensione «Ma almeno vieni a casa a fare la doccia » . E i docenti che non possono lavorare. Intanto nel grande cortile del liceo dei primi del Novecento è cominciato un corso di Franco Russo, filosofo ed ex deputato di Rifondazione comunista. È uno degli ospiti invitati dai ragazzi per parlare di antirazzismo e rivoluzione, il primo di tanti incontri organizzati da qui a venerdì prossimo. Poi, sabato fine dell’occupazione con una manifestazione davanti al ministero della Pubblica Istruzione. La lezione sul ‘ 68 viene però interrotta. Alcuni genitori hanno fatto notare a Russo che parlare pubblicamente davanti ad un gruppo di minori è vietato.
Pausa. Si riprenderà nel pomeriggio. È anche ora di pranzo. Il cancello si apre: è il momento di fare entrare pane e salame.

Repubblica Roma 25.10.18
La manifestazione
Roma dice basta “ In piazza con noi l’energia positiva degli studenti”
di Cecilia Gentile


Le promotrici
Emma Amiconi, Tatiana Campioni, Francesca Barzini, Valeria Grilli, Roberta Bernabei, Martina Cardelli al lavoro

Mobilitazione in corso per la manifestazione di sabato in Campidoglio “Chiamiamo pure quelli di Scomodo”
“Aspettare stanca”. “Onestà e colera”. “Uno vale uno ma a volte vale zero”. Sul gruppo Facebook “Tutti per Roma, Roma per tutti” piovono le proposte di slogan in vista del sit in Roma dice basta organizzato per sabato mattina in Campidoglio. Le sei donne promotrici - Emma Amiconi, Tatiana Campioni, Francesca Barzini, Valeria Grilli, Roberta Bernabei, Martina Cardelli - vedono crescere a vista d’occhio adesioni e iscrizioni al gruppo, che hanno superato le 20mila.
«Eravamo in 30 al primo incontro », ricorda un’iscritta. «Ho sentito comunanza di intenti e la spinta a fare di più», dice un’altra donna. Che racconta la sua scelta di tornare in Italia dopo una lunga esperienza di lavoro a Londra, per far crescere le due figlie a Roma, e la sua delusione nel vederla progressivamente deteriorarsi.
Il deterioramento della capitale le sei donne di “ Roma dice basta” lo hanno reso evidente in un video con la colonna sonora della canzone di Adriano Pappalardo “ Ricominciamo”. Cinghiali che grufolano tra i rifiuti, cassonetti stracolmi, strade come fiumi dopo un temporale, alberi crollati, cantieri mai finiti. Le cose belle, per esempio Fontana di Trevi, Colosseo, piazza Navona, compaiono solo quando Pappalardo urla “ Ricominciamo”, a testimoniare che la bellezza c’è ancora e può essere salvata.
Altri contributi da Facebook, la maggior parte di donne. «Bisogna darsi tutti da fare per rendere visibile e documentare l’inefficienza e l’approssimazione di questa amministrazione che sta mettendo Roma in ginocchio. Questi se ne devono andare e siccome non lo faranno di loro spontanea volontà bisogna “ aiutarli” ad andarsene » . Seguono proposte di scenografie e slogan. Per esempio: un ratto gigante incoronato come ottavo re di Roma, l’Urlo di Munch in sovraimpressione sulle foto di spazzatura e degrado della città. Oppure lo slogan “ Quello che non fecero i barbari fecero i grillini”.
C’è chi punta sull’importanza della partecipazione dei giovani. « Tramite mio figlio potrei contattare alcune organizzazioni studentesche compreso Scomodo, che si è sempre adoperata per restituire alla città spazi abbandonati dalla pubblica amministrazione. Mi piacerebbe riuscire ad avere tanti ragazzi. E poi cercare una forte partecipazione delle periferie, dove questa amministrazione ha raccolto tanti consensi. Ma ora anche lì serpeggia il malcontento ».
Insomma, non sarà una semplice protesta. « Vogliamo che dalla piazza si sprigioni energia positiva e propositiva » , dice Emma Amiconi, una delle promotrici. Infatti le donne invitano a portare e a depositare in un sacco preparato per l’occasione i risultati di azioni positive già realizzate, con i riferimenti per poter essere rintracciati. « Saranno una delle fonti del nostro lavoro successivo » , specificano le donne nel vademecum di partecipazione. Bandite le sigle e le bandiere di partiti perché il sit in di sabato, dalle 10.30 alle 13, è un’iniziativa civica.

il manifesto 25.10.18
La diseguaglianza si combatte migrando
Report. L’ultimo rapporto Fao studia le relazioni tra migrazioni, sicurezza alimentare e crescita economica. Dice che solo riconoscendo il diritto a migrare si può «aiutarli a casa loro»
di Rachele Gonnelli


La Terra gira. Nel senso che siamo tutti – o quasi – un po’ sfollati, un po’ migranti. Dei trentuno Paesi analizzati nell’arco quasi di un trentennio nell’ultimo rapporto della Fao, di pochi giorni fa, più del cinquanta per cento delle popolazioni hanno dovuto, o voluto, abbandonare le proprie case – la casa dove si è nati e si è trascorsa la propria infanzia – per andare altrove almeno una volta nella vita, anche solo per istruirsi o per un lavoro stagionale. Solo dai Paesi in via di sviluppo si parla di 1,3 miliardi di persone in spostamento. D’altra parte anche all’interno dell’Unione europea alla fine del 2016 i migranti interni erano 20,4 milioni. Questo movimento comporta costi sociali ma anche benefici, considerando che, come ha ricordato il segretario generale dell’Onu António Guterres, «c’è uno stretto legame tra migrazioni e lotta alla povertà e alle diseguaglianze, incluse quelle tra uomo e donna». Nel rapporto Fao si precisa: «La ripartizione molto ineguale delle opportunità nel mondo guida le migrazioni interne e internazionali».
È RIDUTTIVO parlare di «migrante economico», tutti lo sono ma le motivazioni sono sempre un mix: la Fao preferisce parlare solo di «migranti in interni» e «migranti internazionali». Anche visto che nove rifugiati su dieci provengono da Paesi poveri e per lo più da aree rurali, non è solo a causa di un aumento della frequenza di eventi naturali catastrofici come siccità e alluvioni che si spostano. Lo spostamento delle persone, in via temporanea o permanente, da un’area agricola a una non agricola è spesso motivata dalla ricerca di un mercato del lavoro con salari «supposti» più alti, si dice. E anche dalla ricerca di servizi pubblici «più numerosi e di più alta qualità, specialmente per quanto riguarda la sanità e l’istruzione».
C’È POI UN FLUSSO DI RITORNO, sia di rimesse alle famiglie sia di conoscenze, che modifica in meglio le realtà di destinazione, specialmente se rurali, portando ad esempio magazzini, frigoriferi, conoscenze tecnologiche e una migliore programmazione della semina.
Per capire cosa muove le persone e come si modificano i flussi, bisogna in sostanza superare la teoria classica basata sulla codifica di push and pull factor, fattori di attrazione e di repulsione, elaborata da Everett Lee nel lontano 1966 su cui poggiano le visioni dei flussi migratori come qualcosa di sostanzialmente negativo e arrestabile – e che ancora ispira i rapporti di Frontex ndr – ammettendo invece una circolarità delle dinamiche migratorie e un mix di fattori d’innesco del flusso, che includono la possibilità di integrazione nell’ambiente sociale, i costi del viaggio, le distanze da percorrere.
IN QUESTI MOVIMENTI circolari si determinano trasformazioni strutturali delle società d’origine, di passaggio e di approdo. C’è da dire che solo una magra porzione del flusso migratorio dal Sud del mondo è diretto in Europa. Dal 1990 al 2015 i migranti internazionali sono aumentati complessivamente da 153 milioni a 248 milioni di persone ma solo il 35% è indirizzato verso i Paesi più sviluppati, mentre il 38% si è diretto in altri Paesi in via di sviluppo – la cosiddetta «migrazione Sud-Sud» – mentre la stragrande maggioranza si è spostata da una regione all’altra del proprio Paese. Dallo studio Fao emerge però una stretta correlazione tra le migrazioni interne e quelle internazionali: è più facile che chi ha già fatto le valigie una volta per spostarsi all’interno del proprio Paese, magari a causa di un terremoto o dello scoppio di un conflitto armato regionale – i conflitti interni sono aumentati negli ultimi 10 anni del 125% mentre quelli tra Stati “solo” del 60% e due su cinque proseguono per almeno vent’anni – decida poi di proseguire oltre confine.
NON SONO I PIÙ POVERI, comunque, abitanti delle zone rurali più depresse, ad andarsene. Al contrario molto spesso sono i giovani più istruiti e dinamici ad essere scelti per incarnare l’investimento di tutta la famiglia d’origine in un viaggio volto a migliorare le capacità di protezione della famiglia stessa dai rischi e in direzione di un miglioramento delle condizioni del gruppo. Perciò, dice la Fao: «La migrazione rurale continua ad essere un elemento essenziale del processo di sviluppo economico e sociale».
LE DINAMICHE FEMMINILI nel fenomeno migratorio colpiscono per la loro particolarità. La componente femminile rappresenta ormai la metà dei flussi migratori internazionali e ad esempio dall’Africa subsahariana è addirittura prevalente tra le ragazzine addirittura pre-quindicenni, prima dello sviluppo. Le donne migranti sono le meno portate a ritornare sui loro passi, e non solo nei Paesi di provenienza in via di sviluppo, anche dagli Stati dell’Europa dell’Est tendenzialmente più patriarcali come l’Albania. Eppure anche quando non partono le donne sono lo stesso il fattore di catalizzazione del cambiamento perché spesso destinatarie delle rimesse con cui, oltre a garantire una vita migliore, una casa più igienica, accesso all’acqua potabile, alla luce, alla scuola ai figli, possono intraprendere piccole attività commerciali per integrare gli scarsi proventi dei campi.
I RIMPATRI FORZATI che piacciono tanto a governanti nostrani sono invece considerati dall’agenzia per l’alimentazione in sostanza alla stregua di un ostacolo, di un impedimento, un costo sociale come le migrazioni forzate. Perché al fine di incentivare i vantaggi della migrazione occorre che sia «libera e responsabile» e che i ritorni siano positivi sia per l’individuo migrante sia per le comunità locali. Solo così il ritorno porterà in dote i frutti di competenze e esperienze del viaggio.
La Fao celebrando la Giornata mondiale dell’alimentazione del 16 ottobre e con la Giornata mondiale di lotta alla povertà del 17 ottobre, ricorda i 17 Sustainable Development Goals per l’Agenda 2030. Tra questi otto riguardano le migrazioni e impegnano i 193 Paesi delle Nazioni Unite – naturalmente Italia inclusa – a «facilitare una ordinata, sicura, regolare e responsabile mobilità delle persone».

il manifesto 25.10.18
I due paradossi di San Lorenzo
di Paolo Berdini


Il ministro degli Interni Matteo Salvini semina odio, fomenta rancore sociale e l’occasione di speculare sulla terribile morte di una giovane ragazza deve essere sembrata imperdibile. Ed eccolo allora presentarsi nel cuore di San Lorenzo a promettere sgomberi e tolleranza zero verso ogni occupazione e disagio sociale in un quartiere stretto tra speculazione immobiliare e abbandono. Ma ieri ha sbagliato di grosso. I custodi del suo algoritmo avrebbero dovuto almeno dirgli che si trattava di un immobile abbandonato dalla proprietà.
E che era da tempo una centrale di spaccio di droghe. E avrebbero dovuto ricordargli che sta al suo ministero individuare e reprimere i centri di spaccio che stanno distruggendo le vite di tanti giovani e che soffoca interi quartieri come San Basilio, Corviale e San Lorenzo. Sono anni che gli abitanti del quartiere denunciano il degrado che sta inghiottendo il tessuto urbano. Le notti di San Lorenzo sono caos, rumori, disordine e sporcizia in ogni luogo. Queste voci sono state lasciate nell’oblio e gli abitanti si sentono abbandonati.
A San Lorenzo, poi, esistono anche due paradossi che dovevano essere portati alla conoscenza dal responsabile dell’ordine pubblico. Il primo riguarda l’esistenza due piccole occupazioni di immobili fatiscenti, da tempo abbandonati, da parte di giovani. Quei giovani sono stati e sono in prima fila nella denuncia del degrado e degli spacciatori. Non ne parla nessuno perché è molto facile insistere nella vigliacca retorica della gioventù indifferente e degli occupanti balordi. Essi sono invece un punto di reale coesione per tanti giovani che non avrebbero altrimenti altri luoghi per incontrarsi.
Il secondo paradosso riguarda il destino delle ex Dogane di San Lorenzo, distanti pochi passi dal luogo della tragedia. Sono immobili di proprietà pubblica su cui c’è da anni un braccio di ferro tra la volontà di ricavarne il massimo dalla speculazione immobiliare e tutto il quartiere che chiedeva la garanzia di avere almeno spazi per la socialità. Appena qualche tempo fa la proprietà pubblica tentò addirittura di realizzare un gigantesco ipermercato che avrebbe cancellato il tessuto commerciale del quartiere. La volontà popolare ebbe la meglio ma da allora tutto è tornato nell’oblio. Anche lì, dunque, come a via dei Lucani, il degrado richiama ogni sera decine di spacciatori.
A San Lorenzo è dunque evidente una cruciale questione urbana. La proprietà immobiliare pubblica e privata non è più in grado di svolgere quel ruolo di garanzia di un equilibrato modo di convivenza civile che ha caratterizzato le nostre città. Pubblico e privato operano senza regole e cercano sono il massimo profitto. Sono numerosi nel quartiere gli esempi di speculazioni concretizzate a danno degli edifici vicini. Tre anni fa un privato si permise addirittura di chiudere un passaggio pubblico da sempre esistente per andare verso una piccola area verde perché ne rivendicò la proprietà assoluta. Non è così che si costruisce la città del futuro. Così la città pubblica scompare e lascia solo degrado e solitudine.
È indispensabile ritrovare una concezione delle nostre città e in particolare delle periferie che non mettano al primo posto la speculazione immobiliare, ma le persone in carne d’ossa con i loro bisogni di spazi di socialità negati. Ma sembrano discorsi vuoti. In queste settimane di discussione della manovra economica, si scopre che non c’è un’idea, né le risorse per la riqualificazione delle periferie urbane. La riconversione sociale delle città, l’unico obiettivo che può garantire convivenza e inclusione, non è dunque tema a cuore del governo gialloverde.
C’è solo il vergognoso condono edilizio per Ischia. Roma e tante altre città sono da tempo diventate gigantesche centrali di spaccio di droga. Salvini metta in moto tutte le conoscenze delle forze dell’ordine ma aiuti soprattutto a ritrovare la vivibilità perduta. Non è questione di immigrati e occupazioni. È il futuro delle città.

Il Fatto 25.10.18
San Lorenzo e il tempo perso con gli slogan
di Veronica Gentili


Mentre il ministro degli Interni mette piede per la prima volta a San Lorenzo e sfila in via dei Lucani tra giornalisti assiepati, pontificando su un quartiere “ricettacolo di criminali e spacciatori”, io nella via parallela sono appena risalita con la busta della spesa. Abito qui da quasi 5 anni, faccio i conti quotidianamente con un’amministrazione comunale che sembra essersi dimenticata di questo quartiere, e ne attraverso luci e ombre ogni giorno.
San Lorenzo non è il Bronx, ma se non lo è non è certo grazie alle istituzioni.
Questo quartiere in pieno centro di Roma, a due passi dalla stazione Termini e a dieci minuti dal Colosseo, in cui la notte dalle finestre si sente lo schiamazzo dei locali mischiarsi al rumore dei treni, è stato uno dei luoghi simbolo della Resistenza e a suo modo continua a resistere ancora oggi. Perché San Lorenzo è molto di più dei clichè a cui una narrazione approssimativa vorrebbe ridurlo: basta fare due passi tra via degli Equi e via dei Volsci per scoprire che si tratta di una di quelle poche zone di Roma in cui esiste ancora una vita di quartiere, in cui i baristi conoscono i clienti per nome, in cui le edicole, forti di un nutrito gruppo di clienti inossidabili, non si trovano costrette a chiudere da un giorno all’altro; e poi piccoli negozi, librerie, botteghe artigianali, autofficine, gelaterie, ristoranti a conduzione familiare che coesistono senza troppa fatica con i minimarket bengalesi che costellano le vie. San Lorenzo si arrangia, e fa di necessità virtù: come in tutti quei condomini dove le storiche famiglie della zona si sono abituate a condividere il pianerottolo con gruppetti più o meno rumorosi di studenti fuori sede che frequentano le varie facoltà della Sapienza. E poi la movida notturna certo, che nasce proprio in funzione di tutti quei ragazzi che riempiono le vie, ma che lasciata a se stessa finisce per essere infiltrata e contaminata. Nessuno in tutti questi anni ha pensato che prendersi cura di un quartiere che già da solo si era rimboccato le maniche per coesistere con il mondo che cambia, valesse la pena; a nessuno è venuto in mente che a questi cittadini di buona volontà servisse una mano da parte delle istituzioni. Quello che è successo in via dei Lucani 22, in un palazzo occupato ormai da anni e diventato terra di nessuno tra le denunce inascoltate degli abitanti della zona, è la cronaca di una tragedia annunciata. L’edificio, brulicante di spacciatori quasi tutti extracomunitari, è stato sgomberato sette volte, l’ultima a luglio, ma gli occupanti, forti di un’impunità data dal lassismo politico, sono sempre tornati. Che prima o poi sarebbe successo qualcosa di brutto lo sapevano tutti, ma nessuno ha fatto niente. Eppure è strano che di questi tempi, in cui non si parla altro che di sicurezza, di legalità, di ruspe e di rimpatri, a nessuno sia venuto in mente di prendere un toro così pericoloso per le corna. Il tempo per richiedere il certificato patrimoniale del Paese d’origine alle famiglie straniere di Lodi, mettendo nel frattempo i bimbi a mangiare in stanze separate, c’è stato; come c’è stato il tempo di tenere il punto sulla nave Diciotti lasciando dei derelitti in mezzo al mare per giorni; e si è trovata persino qualche ora per proporre il censimento dei Rom e per paventare la chiusura dei cosiddetti “negozi etnici” alle 21 perché “c’è gente che beve birra, whisky fino alle tre del mattino”. Stupisce che mentre c’era tempo per tutto questo, non ci sia stato un attimo per sanare una situazione così esasperata, soprattutto per chi ha scelto come priorità politica la sicurezza del cittadino. Salvini compare a San Lorenzo a cose fatte, quando in molti già gridano alla “nuova Macerata” e c’è solo da capitalizzare un’altra dose di consenso. Tolleranza zero, strade sicure: il ministro ci bombarda di parole da duro ma nei fatti, quelli veri, cos’ha combinato finora? Parole, parole, parole soltanto parole, parole per noi.

Corriere 25.10.18
La morte delle ragazze
Paura e violenza
Le voragini nelle nostre città
di Goffredo Buccini


I sociologi li chiamano interstizi urbani. Chi ci vive attorno sa che sono voragini di paura, crepe dolenti nel tessuto delle nostre città: posti così hanno inghiottito Desirée Mariottini e, in circostanze assai simili, Pamela Mastropietro.
R eca infatti con sé la terribile suggestione del déjà vu e il grave fardello dell’emergenza sociale non risolta dalla politica la fine inaccettabile della ragazzina di Cisterna di Latina. Salita a Roma per una serata di divertimento e forse di sballo, in quella San Lorenzo che fu borgata operaia e ora è uno dei molti cuori della movida capitolina, Desirée è stata drogata, abusata e uccisa dentro un palazzo abbandonato di via dei Lucani. Lì, da tempo, si sono installati gli spacciatori della nuova eroina, soprattutto nordafricani e nigeriani. Nulla di segreto, intendiamoci: gli abitanti della zona avevano mandato persino filmati e foto dei pusher alle forze dell’ordine chiedendo invano lo sgombero di quelle baracche che dovevano diventare appartamenti residenziali e, abbandonate per un contenzioso amministrativo, si sono trasformate in inferno quotidiano.
Ieri Matteo Salvini, venuto in via dei Lucani «a deporre una rosa», ha sperimentato per la prima volta la scomoda posizione di chi sarebbe tenuto — essendo da cinque mesi ministro dell’Interno — a risolvere i problemi più che a denunciarli. Tra i consueti applausi ha raccolto i primi fischi e insulti («sciacallo»), forse neppure tutti provenienti dagli antagonisti schierati davanti al palazzo; s’è cavato dall’impaccio promettendo — come quand’era all’opposizione — di tornare con la solita ruspa e additando altrui (presunte) responsabilità: della Procura, «cui ho chiesto il pugno di ferro, perché ciascuno deve fare la sua parte», e dei privati, «che abbattano gli stabili abbandonati».
In realtà, al di là dei proclami sempre identici, si inizia a intravedere un’imbarazzante linea di continuità nella gestione della materia, quasi un testimone passato da un governo all’altro nella difficoltà di agire. Perché tutto è, ed era, sotto i nostri occhi. Non era un mistero per nessuno, un anno fa, che gli spacciatori nigeriani (alcuni fuorusciti dal sistema Sprar e diventati «fantasmi» per la nostra burocrazia) si fossero impossessati dei Giardini Diaz di Macerata, creando lì il crepaccio urbano dove il 30 gennaio 2018 Pamela Mastropietro è precipitata incontrando il pusher accusato della sua morte, Innocent Oseghale. Sul destino della diciottenne romana e sullo strascico del raid razzista di Luca Traini, «approvato» da una non piccola parte della città, si giocò l’ultimo brandello della campagna elettorale.
In tutti questi mesi non molto sembra cambiato in Italia. La questione migratoria e la questione delle periferie (non solo geografiche, San Lorenzo e i Giardini Diaz certo non lo sono) restano intrecciate e irrisolte. C’erano in giro (fonte Commissione parlamentare) seicentomila «invisibili», migranti irregolari fuorusciti dal nostro sistema d’accoglienza e naturalmente concentrati nelle aree di disagio. Salvini, prima del 4 marzo, promise di rispedirli tutti indietro in tempi brevi. Di recente ha sostenuto che molti di essi «sono già andati via», non si sa su quali basi. La realtà è nelle nostre stazioni, nei nostri parchi, sotto gli occhi dei cittadini che sperimentano quanto attuali siano le diagnosi riferite dai sociologi della Scuola di Chicago a un altro convulso periodo, i primi trent’anni del secolo scorso: «Le nostre grandi città rigurgitano di rifiuti, molti dei quali umani, cioè uomini e donne che per un motivo o per l’altro non sono riusciti a stare al passo con il progresso industriale». Si sostituisca «industriale» con «globale» e si avrà un quadro assai prossimo al presente. E qui, dunque, s’incrocia la grande, e attualissima, questione urbana. La periferia, intesa anche come marginalità economica e sociale, sarebbe la vera sfida del cambiamento, visto che in condizioni «periferiche» vivono circa 15 milioni di italiani: i più in difficoltà. Mancano soprattutto strade, scuole, servizi, ovvero il tessuto che servirebbe a rammendare gli interstizi urbani da troppo tempo abbandonati (si pensi che dal 2007 al 2017 gli oneri di urbanizzazione sono stati distratti dai Comuni in rosso per farne spesa corrente). Che il governo abbia congelato, per le note ragioni di bilancio, un miliardo e 600 milioni destinati dalla precedente maggioranza al Bando periferie non sembra una buona idea. Matteo Salvini e Luigi Di Maio hanno un merito storico: lo sdoganamento di parole come «paura» e «povertà» che, per quanto sentite nella carne dalla gente, erano di fatto cancellate dal dizionario dei governi a guida Pd. Ma evocare un problema non equivale a risolverlo: il rischio è che presto gli italiani debbano accorgersene, assieme ai loro nuovi leader.

il manifesto 25.10.18
Cucchi, «questa storia è costellata di falsi». Altri indagati nell’Arma
Processo bis. Il pm Musarò deposita gli atti dell’inchiesta sul depistaggio. Tra gli accusati anche il comandante del Gruppo carabinieri Roma. Il Guardasigilli Bonafede, in udienza, incontra Ilaria: «Giustizia presto»
di Eleonora Martini


«Questa storia è costellata di falsi, iniziata dopo il pestaggio e proseguita in maniera ossessiva anche dopo la morte di Stefano Cucchi». È un vero e proprio sistema illegale finalizzato al depistaggio, quello descritto dal pm Giovanni Musarò in apertura dell’udienza di ieri del processo bis a carico di cinque carabinieri imputati a vario titolo per la morte del giovane geometra romano.
Un’udienza particolarmente significativa, a cui ha assistito in parte anche il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede – nell’ambito di «un ciclo di visite a sorpresa nei luoghi della buona giustizia» – che si è fermato a parlare con Ilaria Cucchi asserendo di voler lavorare affinché casi come quello di Stefano possano avere «giustizia in tempi brevi», anche senza la caparbietà e la determinazione dimostrate dalla famiglia della vittima.
UN SISTEMA INTERNO all’Arma, quello di cui ha parlato ieri il pm Musarò, che si starebbe rivelando via via che prosegue l’inchiesta integrativa aperta dalla procura di Roma dopo la denuncia di uno dei militari imputati, Francesco Tedesco, e dopo le ammissioni fatte davanti alla stessa Corte D’Assise di uno dei carabinieri della caserma di Tor Sapienza a cui venne ordinato di falsificare il suo verbale, Francesco Di Sano.
Dagli atti depositati ieri dal pm, emerge la lista degli ultimi indagati: sarebbero cinque uomini dell’Arma, compreso un colonnello, e un avvocato. Il più alto in grado – al momento – è il tenente colonnello Francesco Cavallo, all’epoca capo ufficio comando del Gruppo carabinieri Roma. Perché è da lì che sarebbe partito l’«ordine gerarchico» di cui parlava Di Sano e che sarebbe poi passato al tenente colonnello Luciano Soligo, comandante della Compagnia Talenti Montesacro dalla quale dipendeva la stazione di Tor Sapienza, a capo della quale c’è il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola.Tra gli indagati, oltre ai nomi appena fatti, ci sarebbe anche l’avvocato Gabriele Giuseppe Di Sano.
«La “regia” in quel momento veniva dal Gruppo di Roma, circostanza confermata dal fatto che Soligo non cambiò i files delle due annotazioni sul posto (cioè presso il comando di Tor Sapienza) ma i files furono trasmessi al Gruppo e tornarono modificati dal Gruppo», è la testimonianza, raccolta negli atti, di Gianluca Colicchio, uno dei carabinieri che tennero in custodia Cucchi nella caserma di Tor Sapienza, e che racconta di aver ricevuto anch’egli l’ordine da Cavallo di cambiare la sua annotazione di servizio, ma dice di non aver obbedito.
GLI INQUIRENTI HANNO POI trovato riscontro della riunione «tipo alcolisti anonimi» (così l’ha definita Colombo Labriola, interrogato a lungo nei giorni scorsi) che si sarebbe svolta il 30 ottobre 2009, otto giorni dopo la morte di Cucchi, al comando provinciale di Roma, convocata dal generale Vittorio Tomasone (non indagato).
Alla riunione presero parte i comandanti di tutte le caserme coinvolte e quelli gerarchicamente competenti: oltre a Colombo Labriola – che racconta – c’erano «il comandate del Gruppo Roma Alessandro Casarsa, il comandate della compagnia Montesacro Luciano Soligo, il comandante di Casilina Paolo Unali, il maresciallo Mandolini e tre-quattro carabinieri della stazione Appia. Da una parte c’erano il generale Tomasone e il colonnello Casarsa, mentre gli altri erano tutti dall’altra parte. Ognuno a turno si alzava in piedi e parlava spiegando il ruolo che avevano avuto nella vicenda Cucchi. Ricordo che uno dei carabinieri di Appia, che aveva partecipato all’arresto, aveva un eloquio poco fluido, non era molto chiaro. Un paio di volte intervenne il maresciallo Mandolini per integrare cosa stava dicendo e per spiegare meglio, come se fosse un interprete. Ad un certo punto – ha concluso Colombo – Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il carabiniere doveva esprimersi con le sue parole perché se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato con un magistrato».
Dalle intercettazioni emergerebbe anche una frase impressionante pronunciata da uno degli imputati, Vincenzo Nicolardi (accusato di calunnia) che disse: «Magari morisse, li mortacci sua», riferendosi a Cucchi che lamentava forti dolori mentre era rinchiuso in una cella di Tor Sapienza e, «all’ospedale non può andare per fatti suoi». Condizioni di salute, quelle di Stefano, confermate ieri in udienza dal medico di Regina Coeli, Rolando Degli Angioli, che visitò Cucchi e ne prescrisse il ricovero immediato in un ambulatorio esterno. «Rimasi allibito – ha testimoniato il medico – quando seppi che era tornato dal Fatebenefratelli con due vertebre rotte, senza che gli avessero fatto le radiografie che avevo prescritto».

Il Fatto 25.10.18
Cucchi, l’inchiesta si avvicina al comandante dei corazzieri
Falsi, indagato un altro colonnello: “Fece riscrivere gli atti”. Dipendeva da Casarsa, oggi al Quirinale. Un’intercettazione: “Ora tocca a lui e al generale Tomasone”
di Antonio Massari e Valeria Pacelli


Nuovi indagati e un altro giallo da risolvere nel caso Stefano Cucchi. L’inchiesta per alcuni falsi sullo stato di salute del geometra romano scorre parallela al processo in corso in Corte d’Assise d’Appello – dove sono imputati cinque carabinieri, tre per il pestaggio – e sta risalendo la scala gerarchica dell’Arma. Il pm Giovanni Musarò vuol capire chi impartì l’ordine di modificare due annotazioni, redatte nella stazione di Tor Sapienza, dove Cucchi passò la notte del 15 ottobre 2009. In questo filone, con l’accusa di falso ideologico e materiale, sono indagati 5 carabinieri, tra i quali 2 ufficiali. Tra questi Francesco Cavallo, nel 2009 capo dell’ufficio comando del Gruppo Roma, guidato all’epoca da Alessandro Casarsa (oggi è generale e comanda i Corazzieri del Quirinale).
Casarsa non è indagato, ma il suo braccio destro sì. Accusato di falso anche il colonnello Luciano Soligo, che comandava la stazione Montesacro-Talenti da cui dipende Tor Sapienza. E poi il comandante della stazione, Massimiliano Colombo e il suo appuntato Francesco Di Sano, che scrisse la relazione poi modificata. Indagato anche il comandante della stazione Appia, Roberto Mandolini (già a processo per falso e calunnia).
È stato Colombo a puntare il dito contro la scala gerarchica. Il 18 settembre spiega al pm: “Soligo mi disse che non andavano bene (Le annotazioni, ndr) perché erano troppo particolareggiate e in esse venivano espresse valutazioni medico legali che non competevano ai Carabinieri”. Le annotazioni dei due militari di Tor Sapienza vengono inviate la mattina del 27 ottobre 2009 al tenente colonnello Cavallo. Poco dopo però – sostiene Colombo – Cavallo rinvia i due file modificati con un testo: “Meglio così”.
Questa mail per Colombo è un “salvavita”, come dice intercettato. Ossia la prova che ha solo eseguito un ordine. Ed è qui che si innesta un altro filone investigativo. Perché questa mail compare soltanto ora? Il documento doveva essere nelle mani della Procura già nel 2015, quando delega il Nucleo investigativo di acquisire gli atti nelle stazioni, riaprendo le indagini sulla morte di Cucchi. Misteriosamente però quella mail resta nei pc. Non viene acquisita. Eppure – racconta Colombo – nel “novembre 2015 si presentarono i carabinieri del Nucleo investigativo. (…) Mi resi conto di aver fornito le due annotazioni in entrambe le versioni (originale e modificata) (…) In questa occasione mostrai la mail di Cavallo (…) Il Capitano del Nucleo investigativo quando vide la mail uscì per parlare al telefono, poi rientrò, presero tutto ma non la mail”.
Non si tratta di un caso isolato. Un altro carabiniere, Francesco Tedesco (ora accusato di omicidio), dichiara di aver presentato nel 2009 una relazione di servizio che rivelava il pestaggio di Cucchi. Sparita. Resta solo una traccia in un registro. Ma neanche quella fu scoperta nel 2015. Come mai? Al vaglio degli investigatori ci sono anche alcune intercettazioni. In molte si fa riferimento alla scala gerarchica. “Se hanno indagato me – dice Colombo il 22 settembre – allora dovranno indagare Cavallo, Casarsa, Tomasone”. Si tratta dell’allora comandante provinciale (non indagato) che il 30 ottobre 2009 convocò una riunione. Colombo la riassume così: “Hai visto gli alcolisti anonimi? (…) Così abbiam fatto”.

Corriere 25.10.18
Indagato un colonnello
La frase choc su Cucchi: magari morisse
di Giovanni Bianconi

«Sta andando al Policlinico, dice che si sente male, c’ha attacchi epilettici», disse un carabiniere. E l’altro: «Magari morisse, li mortacci sua». C’è anche questo nelle carte dell’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi, per cui ora è indagato per depistaggio anche un colonnello.
Roma La notte fra il 15 e il 16 ottobre 2009, quando Stefano Cucchi si trovava in una camera di sicurezza della stazione carabinieri di Tor Sapienza a Roma, il capoturno della centrale operativa dell’Arma chiamò la stazione Appia, da dove venivano i militari che lo avevano arrestato per detenzione e spaccio di stupefacenti. «Sta andando al Policlinico, dice che si sente male, c’ha attacchi epilettici e compagnia bella», disse. E l’altro carabiniere rispose: «E vabbè, chiamasse l’ambulanza... Magari morisse, li mortacci sua...».
A pronunciare questa frase, secondo gli investigatori fu l’allora appuntato scelto Vincenzo Nicolardi, oggi imputato al processo Cucchi per calunnia: al dibattimento contro gli agenti penitenziari (poi assolti) disse che Cucchi quella sera «camminava bene, era in condizioni normali, tranquillissimo proprio». Sfortunatamente per Cucchi e molti altri, l’auspicio (con insulto) di Nicolardi si avverò una settimana più tardi. E dal giorno dopo la morte del detenuto, all’interno dell’Arma si cominciarono a orchestrare i falsi e i depistaggi che stanno emergendo nel processo-bis attraverso la nuova indagine del pubblico ministero Giovanni Musarò.
A raccontare nei dettagli l’inquinamento delle prove sono altri carabinieri coinvolti nella vicenda, testimoni e indagati, con il riscontro di recentissime intercettazioni telefoniche. Primo fra tutti il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, inquisito per falso, che la scorsa settimana ha rivelato l’origine della manomissioni delle due relazioni di servizio dei carabinieri Colicchio e Di Sano sulle condizioni di salute di Cucchi. Avevano scritto che il detenuto denunciava «forti dolori al capo e giramenti di testa», nonché «di non poter camminare, dolori al costato e tremore». L’indomani, racconta Colombo Labriola, «il maggiore Soligo (suo diretto superiore, ndr ) mi telefonò e mi disse che le annotazioni non andavano bene, perché erano troppo particolareggiate e venivano espresse valutazioni medico legali che non competevano ai carabinieri». In caserma Soligo parlò con Colombo, Di Sano e Colicchio, infine fece trasmettere i due documenti via e-mail al colonnello Francesco Cavallo, all’epoca capo ufficio del Comando gruppo Roma diretto dal colonnello Alessandro Casarsa.
Cavallo rispedì a Colombo due nuove versioni , scrivendo nella email: «Meglio così...». La situazione fisica di Cucchi era stata un po’ edulcorata (spariti i riferimenti ai dolori alla testa, al costato e al non poter camminare, con l’aggiunta della tossicodipendenza), Colombo passò le relazioni a Soligo che le sottopose a Di Sano e Colicchio per la firma. Il primo accettò senza problemi, il secondo rilesse e protestò: per lui la nuova versione non andava bene.
«Il maggiore Soligo cercò di farmi calmare — ha testimoniato Colicchio il 19 ottobre —. Stava parlando al telefono con il colonnello Cavallo per cui me lo passò dicendogli “il carabiniere è un po’ agitato”». Cavallo spiegò che in fondo era stata cambiata solo una frase, «ma io non volevo sentire ragioni». Il documento falso, a differenza di quello sottoscritto da Di Sano, non fu trasmesso alla Procura, ma rimase agli atti ed è saltato fuori nella nuova inchiesta.
«Non ricevetti minacce esplicite da Soligo né da Cavallo — sostiene Colicchio —, però l’Arma è una struttura militare, e quando una richiesta proviene da un superiore, specie se fatta con una certa insistenza, inevitabilmente chi la riceve la vive come un’intimidazione. Per quello che percepii, anche il maggiore Soligo stava dando esecuzione ad ordini provenienti dalla sua gerarchia. La “regia” in quel momento veniva dal Gruppo di Roma». Uscito dall’interrogatorio il carabiniere chiama la moglie e le confida: «Gliel’ho dovuto dì... mo’ se scoperchia tutto il vaso di Pandora».
In una telefonata con il fratello, intercettata il 26 settembre scorso, il luogotenente Colombo spiega i motivi del falso confezionato in un periodo, l’ottobre 2009, in cui i carabinieri di Roma erano già in imbarazzo per il coinvolgimento nel ricatto all’allora governatore della Regione Piero Marrazzo: «L’Arma ci teneva alla sua immagine... tutto il fatto “caso Marrazzo”... muore Cucchi, un secondo caso con l’Arma romana?... Perché dovete ingenerare dei pensieri sbagliati?! E fa correggere le due annotazioni...».
Al pm, Colombo ha raccontato anche i dettagli della riunione con l’allora comandante provinciale Vittorio Tomasone, alla presenza di Casarsa, Soligo, il maresciallo Mandolini (imputato al processo bis) e altri militari che avevano avuto a che fare con Cucchi. Cavallo non c’era. «Sembrava una riunione degli alcolisti anonimi — dice Colombo —; ognuno si alzava in piedi e spiegava il ruolo che aveva avuto nella vicenda. Ricordo che uno dei carabinieri che aveva partecipato all’arresto di Cucchi aveva un eloquio poco fluido, non era molto chiaro, e un paio di volte intervenne Mandolini per integrare... come fosse un interprete. A un certo punto il colonnello Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il carabiniere doveva esprimersi con parole sue, perché se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato neanche con un magistrato».

Il Fatto 25.10.18
La notte del pestaggio: “Magari muore”
Carabinieri - Le conversazioni del 2009 sull’arresto. E oggi sul film: “Lo guardiamo dopo mangiato”
di A.Mass. e Val.Pac.


È il 16 ottobre 2009 e la centrale operativa del Comando provinciale dei carabinieri di Roma contatta un militare che viene poi identificato in Vincenzo Nicolardi. Non è un carabiniere qualsiasi: è uno degli imputati – è accusato di calunnia – nel processo Cucchi bis. Nove anni fa alla Centrale operativa che gli spiega come Stefano Cucchi stesse davvero male (“c’ha attacchi epilettici e compagnia bella”) dà una risposta agghiacciante: “Magari morisse, li mortacci sua”. “E lo so – risponde la centrale –, ma siccome è detenuto in cella non è che può andare per i fatti suoi”. E Nicolardi spiega: “No, è che da oggi pomeriggio che noi stiamo sbattendo con questo qua”.
Passano nove anni, un processo alla polizia penitenziaria finito con l’assoluzione, uno contro i medici ancora in corso, un altro in cui per la prima volta si punta il dito contro i carabinieri. E arriva anche un film (Sulla mia pelle). Che alcuni dei carabinieri che videro Cucchi in quei giorni commentano. Il 12 settembre scorso Gianluca Colicchio, il militare che si scontrò con la catena gerarchica su alcune annotazioni di servizio taroccate sulle condizioni di Cucchi ne parla con la moglie. “Prima mangiamo – dice Inez a Colicchio – e poi ce lo guardiamo, picchi se no non manci chiui, fa scurari u cori matri”.
Lei gli manda una foto dell’attore che impersona Colicchio. “Io sono più bello però”, risponde il marito. A un certo punto la moglie commenta: “Sono stati i carabinieri, perché proprio palesemente lo dice… fanno vedere la scena di quello là muscoloso… il carabiniere, quello indagato… cioè si capisce che gliele dava”. E Colicchio commenta: “Cercano solamente di influenzare l’opinione pubblica…”.
Ines però aggiunge un dettaglio importante: “Ho detto questo a Simona… allora Simona che qualcosa come noi sa, sa fra virgolette, perché noi qualcosa gliela abbiamo raccontata, no?”. “Inez – scrivono gli investigatori in un’informativa del 23 ottobre scorso – lascia intendere che loro sanno cosa è accaduto e lei ha raccontato qualcosa alla sua amica”.
Parlando con un collega di nome Alessandro, il carabiniere Francesco Di Sano, accusato di falso per aver cambiato una relazione di servizio, dice: “Comunque non è che ho scritto baggianate, cioè i dolori al costato so’ diventati dolori alle ossa, il costato so’ ossa, ma di che parliamo, nelle udienze l’ho sempre detto che camminava male, e comunque pesava 43 chili”. Dopo aver saputo dell’indagine per falso, Di Sano contatta il cugino Gabriele, di professione avvocato: “Tu mi hai detto che queste cose ce le hai”, dice Gabriele a Di Sano, che risponde di avere “la email di ritorno, con gli allegati modificati”. Così l’avvocato consiglia: “Tutte queste cose per ora conservatele, perché se tutto va come spero io, ci serviranno dopo, per ricattare l’Arma, perché non vorrei che, se tutto va bene, cioè che tutto si chiude e l’Arma ti dice: ‘Ah guarda tu comunque per noi non puoi stare qua’. Allora, io ho queste cose in mano, che fate, mi fate restare o vado al giornale?”. “L’avvocato – dice Di Sano – mi ha chiesto: ‘Perché te l’hanno fatta cambiare?’ (l’annotazione, ndr)…”.
E il cugino risponde: “Perché secondo me qualcuno sopra, molto sopra, s’è accorto della bomba che stava scoppiando nelle mani dell’Arma e ha tentato di aggiustare questa cosa…”.
Il colonnello Massimiliano Colombo – anch’egli indagato per le false annotazioni – invece riassume in una conversazione le parole del suo superiore, il colonnello Luciano Soligo, sulle annotazioni da correggere: “Dice: ‘Troppo particolareggiate, non sono state fatte bene’”.

Repubblica 25.10.18
Cucchi, l’ultimo depistaggio così l’Arma fece sparire la mail che provava il falso
Inchiesta sabotata fino al 2015. Il carabiniere: "Da Tomasone riunione tipo alcolisti anonimi" Indagato un altro colonnello. L’intercettazione in caserma: "Magari morisse, mortacci sua"
di Carlo Bonini


Roma Oltre quattrocento pagine di nuovi atti depositati ieri dal pm Giovanni Musarò nel processo ai responsabili dell’omicidio di Stefano Cucchi e l’iscrizione al registro degli indagati di un nuovo ufficiale ( il tenente colonnello Francesco Cavallo), documentano al di là di ogni ragionevole dubbio che — come ricostruito da Repubblica lunedì scorso — fu l’intera catena di comando dell’Arma dei carabinieri di Roma a predisporre i falsi che dovevano occultare la verità e sigillare la congiura del silenzio. Soprattutto — ed è questa la circostanza che dà la misura della dimensione " sistemica" di una storia che rischia di travolgere i vertici dell’Arma — documentano che l’ultimo dei depistaggi si consumò nel novembre del 2015. A sei anni dalla morte di Stefano, quando un nuovo pm e una nuova inchiesta avevano finalmente afferrato il bandolo della matassa identificando nei carabinieri che lo avevano arrestato i carnefici di Stefano. Mentre infatti l’allora Comandante generale Tullio Del Sette invitava pubblicamente al " chi sa parli", uomini del Nucleo investigativo di Roma, su disposizione dell’allora Reparto operativo, omisero di raccogliere e consegnare alla Procura della Repubblica la prova chiave — una e-mail — che dimostrava come, nell’ottobre del 2009, l’ordine di truccare le carte fosse arrivato per via gerarchica dai vertici del Comando provinciale di Roma. Una prova che il pm Giovanni Musarò avrebbe impiegato altri tre anni a trovare, grazie alla sua tenacia e capacità inquirente, al suo Procuratore, Giuseppe Pignatone, che ha tirato dritto senza timidezze, e al lavoro della squadra mobile di Roma della Polizia. L’evidenza ultima di « un’attività di depistaggio ossessiva, scientifica » , per dirla con le parole di Musarò.
La mail del 2009
La mail, dunque. È il 27 ottobre del 2009, Stefano è morto da cinque giorni, come, nelle conversazioni registrate dalla centrale operativa, si era augurato all’alba del 16 uno dei carabinieri che lo avevano preso in carico la notte dell’arresto ( « Magari morisse, mortacci sua » ). E l’Arma dei carabinieri di Roma, appena travolta dal caso Marrazzo, non può permettersi la verità. I falsi grossolani con cui sono stati sbianchettati i registri di fotosegnalamento della caserma Casilina perché non si possa risalire alla circostanza che lì Stefano è stato portato nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 e lì è stato pestato devono infatti essere " sostenuti" da altri falsi. Necessari a impedire alla Procura di scoprire che, sempre in quella notte, i due piantoni in servizio alla caserma di Tor Sapienza ( dove Stefano ha trascorso la notte), i carabinieri Francesco Di Sano e Gianluca Colicchio, hanno notato i segni delle violenze che ha subito. Viene mosso il maggiore Luciano Soligo, comandante della Compagnia Montesacro, da cui Tor Sapienza dipende.
Ha raccontato a verbale Massimiliano Colombo Labriola, comandante di Tor Sapienza: «La mattina del 27 ottobre 2009 il maggiore Soligo mi disse che le annotazioni di Colicchio e Di Sano non andavano bene (…) Arrivò in caserma verso le 9,30. Entrò nel merito di ciascuna annotazione, parlando prima con me e poi con i due militari, contestandone il contenuto. Durante quella discussione Soligo ricevette telefonate dai suoi superiori. Rispondeva "Comandi, signor colonnello" e ogni volta mi faceva segno di uscire. I suoi superiori erano il colonnello Alessandro Casarsa, all’epoca comandante del Gruppo Roma (oggi comandante del reggimento corazzieri del Quirinale ndr.) e il suo Capo Ufficio, il tenente colonnello Francesco Cavallo. Dopodiché mi chiese di trasmettere i files con le due annotazioni dei militari in formato word alla mail di Cavallo, cosa che feci. Dopo un’ora, ricevetti la risposta con allegate le modifiche che aveva fatto delle due annotazioni originali con la frase "meglio così"» .
A quel punto Soligo convoca i due piantoni per fargli firmare le due annotazioni "modificate". Nel nuovo testo, le catastrofiche condizioni di Stefano vengono imputate al freddo, alla branda in acciaio della camera di sicurezza, all’epilessia, alla sua condizione di ex tossico. Di Sano firma il falso. Colicchio, dopo averlo fatto, si accorge delle modifiche e si rifiuta. « Urlai a Soligo di andare affanculo» , spiegherà interrogato dal pm. E questo, nonostante Soligo gli passi al telefono Cavallo per provare a renderlo docile.
Il 28 ottobre 2009, il pacco è pronto. Nel sistema informatico dell’Arma (il "docspa") viene inserita la relazione modificata di Di Sano e quella originaria di Colicchio. Il maresciallo Colombo Labriola, che è uomo previdente, conserva per sé sia gli originali che i falsi, nonché la mail del Comando di Gruppo che li documenta.
"Alcolisti anonimi" in divisa
Il 30 ottobre, l’allora Comandante provinciale di Roma, il generale Vittorio Tomasone ( oggi comandante interregionale a Napoli) convoca una riunione al Comando. In una stessa sala siedono dietro a un tavolo lui e il colonnello Casarsa. Davanti a loro, il comandante della Compagnia Casilina, il maggiore Unali, il maggiore Soligo, il maresciallo Roberto Mandolini, l’uomo dei primi falsi della caserma Appia, il maresciallo Colombo Labriola e tre dei carabinieri coinvolti nell’arresto di Stefano. Il giorno prima, il 29, il pm Barba che indaga sulla morte di Stefano aveva cominciato a sentire come testi i carabinieri coinvolti nella vicenda Cucchi. La riunione serve a capire cosa è stato detto in quella sede e far ascoltare a tutti quale sarà la storiella che di li in avanti, per nove anni, verrà raccontata a una famiglia e a un Paese intero. Racconta a verbale il maresciallo Colombo Labriola: «Sembrava una riunione degli alcolisti anonimi. Ognuno, a turno, si alzava in piedi e parlava spiegando il ruolo che aveva avuto nella vicenda. Non si parlò della "doppia annotazione" imposta a Di Sano e Colicchio. Nessuno obiettò nulla, né so spiegarmi perché non fu fatto alcun verbale e perché fummo sentiti tutti insieme. Ricordo solo che Tomasone zittì Mandolini che aveva interrotto uno dei carabinieri che avevano arrestato Stefano per integrare il suo racconto, dicendogli che il carabiniere doveva esprimersi usando le sue parole perché se non fosse stato in grado di farlo con un superiore non sarebbe riuscito a farlo neanche con un magistrato» . Insomma, una prova generale di una recita a soggetto.
Il depistaggio del 2015
Bisogna ora spostare le lancette del tempo. È il novembre del 2015. E si consuma l’ultimo oltraggio alla verità. Il pm Musarò, titolare dell’inchiesta cosiddetta Cucchi bis chiede all’allora Comandante provinciale di Roma, il generale Salvatore Luongo, oggi capo ufficio legislativo della ministra della Difesa Elisabetta Trenta, di trasmettergli tutti gli atti in possesso dell’Arma sul cosiddetto "caso Cucchi". Luongo affida la pratica all’allora neocomandante del Reparto Operativo, Lorenzo Sabatino, ufficiale ambiziosissimo, per sette anni comandante del Nucleo investigativo di via Inselci, oggi comandante provinciale dei Carabinieri a Messina dopo un periodo al Ros, reparto di eccellenza dell’Arma. Sabatino incarica direttamente della raccolta dei documenti la quarta sezione del Nucleo investigativo. Che si presenta dunque a Tor Sapienza di fronte al maresciallo Colombo Labriola. È una scena madre. Che il maresciallo racconta così: «Arrivarono un capitano e almeno due sottufficiali. Gli diedi le annotazioni di Di Sano e Colicchio sia nella versione "modificata" che originale. L’ordine era di dare tutto e io non volevo nascondere niente. E per far capire che avevo eseguito un ordine su disposizione dei superiori e spiegare così il perché di quelle due annotazioni, circostanza di cui i colleghi stessi si erano subito resi conto, mostrai la mail ricevuta dal colonnello Cavallo. Il capitano, allora, uscì fuori dalla mia stanza per parlare al telefono. Quando rientrò, presero tutto, ma non la mail» .
Tutto. Ma non la mail.La prova che inchioda la catena gerarchica per i falsi non viene dunque raccolta per ordine del Reparto operativo con cui il capitano ha confabulato. E la ragione è semplice. Senza quella mail, Musarò non andrà oltre una storia di falsi cucinata da « qualche mela marcia » di basso grado. Una scommessa sbagliata. E per l’Arma catastrofica.

Repubblica 25.10.18
L’agente scagionato
"Noi mandati al macello per coprire le colpe di altri"
di Maria Elena Vincenzi


ROMA «Io sono un pubblico ufficiale. Mi dica lei cosa devo pensare di chi, pubblico ufficiale come me, ha falsificato le carte per nascondere le sue responsabilità. Io posso solo dire che non sarei mai riuscito a farlo. Perché di reati, se davvero verrà accertato che le cose sono andate come sembra, ne sono stati commessi due. I falsi, certo.
Ma anche quello di mandare degli innocenti al patibolo. Io e due miei colleghi siano stati a processo per sei anni per questa storia». Nicola Minichini, assistente capo coordinatore della polizia penitenziaria, è stato imputato nel primo processo per la morte di Stefano Cucchi. Ora è parte civile, sempre assistito da Diego Perugini, nel processo bis.
Come sono stati quei sei anni e cosa prova ora?
«Se le dicessi che sono stati un tormento sarei riduttivo.
Sono stati anni di pianti e disperazione. Ho una moglie e due figli. Uno all’epoca faceva le elementari, il maggiore le medie.
Lei sa che cosa vuole dire dovere spiegare al proprio bambino che non sei un mostro? Che non è vero ciò che gli dicono, che io non ho ucciso nessuno? Lei sa cosa vuole dire camminare per le strade del quartiere e essere additato come quello che ha ammazzato un ragazzo di 30 anni? Perché, anche se tutti sanno che sono una persona perbene, il tarlo s’insinua. Anche i miei figli hanno visto quella foto di Stefano Cucchi tumefatto. Ecco, io ho dovuto spiegare loro che io non c’entravo niente. Nonostante il processo, nonostante i giornali».
Ma lei è stato sempre assolto.
«Sì, ma da innocente sono stato sotto processo sei anni».
E ora? Cosa prova scoprendo che il pestaggio avvenne per mano dei carabinieri?
«Provo tanta rabbia per quello che mi è successo. Solo ora realizzo la mia innocenza.
Finalmente la mia verità non è più solo la mia come è successo in tutti questi anni».
Ma lei non ha mai pensato che Stefano Cucchi potesse essere stato picchiato prima?
«Certo. In alcuni momenti del processo era evidente. E io ancora oggi non so perché non si sia voluto indagare su quello che era successo prima che Cucchi arrivasse a piazzale Clodio.
C’erano tanti elementi che suggerivano di farlo».
Lei sospettava quindi, che fossero stati i carabinieri?
«Certamente, già dagli atti della prima indagine. Ma lui non me lo disse, altrimenti avrei relazionato. Quando è entrato questo ragazzo, ho visto dei segni sotto agli occhi.
Lo feci visitare perché mi disse che aveva mal di testa».
Come si sente oggi?
«Solo ora sfogo la rabbia che ho avuto in corpo per anni. A volte ho l’impressione che l’opinione pubblica dimentichi che, oltre alla famiglia Cucchi, ci sono altre tre famiglie che hanno vissuto uno strazio. Ora che ci sono nuove pedine in gioco, si volta pagina e noi veniamo dimenticati. Il mio era l’unico stipendio in casa: per difendermi ho chiesto soldi ai miei genitori, ai suoceri, agli amici. Per fortuna la mia amministrazione mi ha permesso di continuare a lavorare».

il manifesto 25.10.18
Aiuto al suicidio, la Consulta scarica sul Parlamento
Dj Fabo, processo a Marco Cappato . La Corte costituzionale dà un anno di tempo al legislatore per modificare la norma contenuta nell'articolo 580 c.p. introdotto nel nostro ordinamento in epoca fascista
di Eleonora Martini


Con una decisione senza precedenti, la Corte Costituzionale ha dato un anno di tempo al Parlamento affinché legiferi su eutanasia e aiuto al suicidio, rinviando al 24 settembre 2019 il verdetto di incostituzionalità (di fatto già anticipato) sull’articolo 580 c.p. introdotto nel nostro ordinamento in epoca fascista, con il Codice Rocco.
Un pronunciamento – arrivato dopo parecchie ore di camera di consiglio – che a memoria di costituzionalista non era mai stato emesso prima dalla Consulta, e che lascia trapelare la difficoltà di trovare unanimità di giudizio tra i quindici membri della Corte.
«L’attuale assetto normativo sul fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti – si legge sul comunicato della Consulta che anticipa l’ordinanza – Per consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina, la Corte Costituzionale ha deciso di rinviare la trattazione della questione di costituzionalità dell’articolo 580 codice penale, sull’aiuto al suicidio, all’udienza del 24 settembre 2019».
Va da sé che fino a quel momento, almeno, si sospende il processo a Marco Cappato, imputato davanti alla Corte d’Assise di Milano per aver accompagnato in Svizzera a morire dj Fabo. Sono stati infatti gli stessi giudici milanesi a rinviare alla Consulta la norma che vieta l’aiuto al suicidio, considerandola inapplicabile in quanto superata dal diritto attuale che riconosce la libertà di lasciarsi morire rifiutando le cure.
Le pm Tiziana Siciliano e Sara Arduini, in dibattimento, avevano infatti chiesto l’archiviazione delle indagini su Cappato (che si era autodenunciato per l’aiuto non negato a dj Fabo) o in subordine l’illegittimità costituzionale dell’art. 580. In questo contesto, secondo Cappato e secondo l’avvocata Filomena Gallo che ha coordinato il pool di legali costituzionalisti, anche il giudizio della Consulta va letto come «un risultato straordinario», «un successo». Perché «dà un anno di tempo al Parlamento per fare ciò che chiedevamo da 5 anni», da quando cioè i leader dell’associazione Luca Coscioni depositarono la proposta di legge di iniziativa popolare per legalizzare l’eutanasia. Legge che nel frattempo ha raccolto 130 mila firme.
Cappato, che ieri sera ha improvvisato una conferenza stampa davanti Montecitorio, ha ricordato di aver aiutato, insieme a Mina Welby e agli altri militanti dell’Associazione, «650 persone a reperire informazioni per interrompere le proprie sofferenze. Questa era la ragione della nostra disobbedienza civile – ha precisato – e oggi è anche la richiesta della Corte Costituzionale che chiede al Parlamento di assumersi le proprie responsabilità».
Eppure la sentenza della Consulta, che è di fatto un rimpallo di responsabilità verso il legislatore, solleva alcune perplessità e pone alcune domande: cosa succede se il Parlamento avvierà l’iter legislativo per modificare l’art. 580 c.p. appena prima dello scadere dell’anno previsto dalla Corte? Potrà la Consulta a quel punto pronunciarsi mentre è in itinere una legge ad hoc? E ancora: chi avrà la responsabilità delle sofferenze causate per un anno da una norma che i giudici costituzionaliti hanno già preannunciato come incostituzionale?
Forse è su queste domande che riflettono anche i Radicali italiani che esprimono «rammarico per il rinvio della decisione della Consulta» che avrebbe invece «potuto risolvere la questione defascistizzando il codice penale» nel rispetto «della Costituzione repubblicana e dei trattati internazionali sottoscritti dall’Italia che assicurano piena autodeterminazione della persona».

il manifesto 25.10.18
Eurispes: eutanasia, più se ne parla più crescono i favorevoli


Quanto più la questione del fine vita entra nel dibattito pubblico, tanto più cresce il numero di coloro che in Italia si dicono favorevoli alla legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito. È quanto emerge da un sondaggio Eurispes che ha analizzato l’orientamento degli italiani in merito alla dolce morte dal 2007 ai giorni nostri. Gli ultimi dati sono quelli del 2016 quando, secondo il monitoraggio, 6 italiani su 10 erano a favore dell’eutanasia (59,6%), oltre 7 su 10 al testamento biologico (71,6%) e 3 su 10 al suicidio assistito (29,9%). Ma nel 2007, quando divenne di dominio pubblico la battaglia del radicale Piergiorgio Welby, morto suicida l’anno prima, e i media avevano trattato a lungo anche il caso della statunitense Terry Schiavo, si registrò il picco più alto degli italiani favorevoli all’eutanasia, con il 68% di «sì». Una percentuale che rimane praticamente invariata fino al 2010, con il 67,4% degli italiani a favore della dolce morte dopo che il parlamento aveva tentato di fermare il padre di Eluana Englaro.
Nel 2012, invece, i consensi scendono fino al 50,1%. Ma l’anno successivo, quando l’Associazione Luca Coscioni lancia la campagna di raccolta firme sulla proposta di legge di iniziativa popolare per legalizzare l’eutanasia, l’istituto di ricerca registra un’impennata di consensi di oltre 14 punti percentuali, arrivando a quota 64,6% di sì. «Con tutta probabilità – sostiene il rapporto di Eurispes – a modificare in maniera così importante il trend dei risultati è intervenuto anche il fatto che in quel periodo non si siano registrati casi che hanno toccato la sensibilità dell’opinione pubblica». Un andamento alterno anche sul testamento biologico, anche se i favorevoli sono sempre stati la maggioranza: nel 2007 erano il 74,7% dei cittadini, e nel 2010 arrivano a 8 su 10 (81,4%).

Repubblica 25.10.18
Il caso dj Fabo
L’inferno della non vita
di Roberto Esposito


La decisione di rinviare la sentenza sull’incostituzionalità dell’articolo 580 del codice penale non costituisce certo un passo avanti nel delicato rapporto tra legge e libertà delle persone. Costatando un vuoto legislativo nel merito di una questione di importanza capitale per i cittadini, non fa che prolungarlo, almeno fino al prossimo anno. Nell’articolo 580, redatto nel 1930, sotto il regime fascista, si equipara l’istigazione al suicidio all’aiuto dato a chi abbia autonomamente maturato quella tragica scelta. In tal modo, omologando un palese reato a un atto di dolorosa solidarietà nei confronti di chi intende interrompere una sofferenza insostenibile, si produce un duplice danno. Si contraddice il principio costituzionale dell’autodeterminazione individuale sulla scelta più rilevante - quella di stabilire il limite oltre il quale la propria vita perde ogni senso. E si abbandona alla solitudine più disperata colui che versa in una situazione estrema.
Lo stesso governo che non ha fatto nulla — come del resto il governo precedente — per accelerare la discussione della legge sul fine vita assistito, ha inteso sottrarre alla Consulta la possibilità di esprimersi su una questione di tale rilevanza costituzionale, civile, morale. In questo vuoto legislativo, chi non resiste più alla sofferenza è costretto a scappare all’estero come un ricercato per ottenere quello che lo Stato italiano vieta. E per giunta non può neanche chiedere un aiuto a chi è disposto, a suo rischio personale, a fornirglielo. Già i casi Welby ed Englaro, pur diversi tra loro e da quello di dj Fabo, hanno evidenziato una frattura profonda tra il codice penale e le esigenze maturate nella coscienza di larga parte dei cittadini. Come mantenere inalterata una legislazione promulgata in tempi in cui lo Stato si dichiarava padrone della vita degli individui, oggi che la biotecnologia ha moltiplicato le possibilità di prolungare in una vita artificiale un corpo definitivamente abbandonato da ogni energia vitale?
Aldilà del conflitto di competenza sollevato da questo caso, ciò che colpisce è l’incapacità della classe politica di stabilire a chi appartengano le chiavi della nostra vita. Se il suo inizio non è nella disponibilità di chi viene al mondo, non può esserci sottratta anche la decisione ultima sulla sua fine. Chi altri, se non colui che soffre, può stabilire la soglia di sopportazione di tale sofferenza? O si aspetta che sia lo Stato a definire quali sono le vite "non degne di essere vissute", come nella Germania nazista? L’atto estremo del suicidio, quando il male abbia raggiunto il punto di non ritorno, non appartiene alla morte, ma ancora alla vita. Ne costituisce anzi l’ultima, decisiva, manifestazione. Chi può arrogarsi il potere di strappargliela?
Per fortuna da poco sono state approvate in Italia le leggi sul testamento biologico e il reato di tortura. Ma non è una sorta di oggettiva tortura prolungare una vita che chiede di spegnersi? Certo, si tratta di situazioni ben diverse. Ma unite da un filo inquietante. Anche chi tortura fa di tutto per mantenere in vita la sua vittima, per ritardarne la morte, impedendogli di morire prima di arrendersi al dolore. La grande letteratura — da Dante a Kafka — ha dato un nome a questa permanenza tra la vita e la morte. Lo ha chiamato inferno. L’inferno non è l’abbandono di un corpo sfinito alla morte, ma la condizione di chi sperimenta la morte durante la vita. L’impossibilità di morire quando il corpo, e anche l’anima, lo chiedono con tutte le loro forze. Infernale è l’eternità di un tormento senza fine. Una vita che anticipa il vuoto della morte, una morte mascherata da vita.

Corriere 25.10.18
Onida e Flick,
I dubbi degli ex Presidenti della Corte Costituzionale :
«Così si abdica»
di Luigi Ferrarella


«Mi sembra un grave prece-dente, la Corte Costituzionale ha abdicato alla propria funzione», commenta Valerio Onida, presidente emerito della Consulta al pari di Giovanni Maria Flick, altrettanto perplesso per la scelta del-la Corte «che ha deciso di non decidere. In casi non identici ma simili, nei quali aveva ritenuto di non avere strumenti (come nel 2013 sul carcere dopo la sentenza Torregiani a Stra-sburgo), la Consulta — nota Flick — sinora aveva invece sempre usato la chiave dell’inammissibili-tà, per poi dare nel con-tempo un monito al legi-slatore». «Se può esistere una interpretazione della norma conforme alla Co-stituzione, la Corte ha il dovere di indicarla; se no, deve dichiarare l’incostitu-zionalità: non esiste un’al-tra strada», aggiunge Oni-da, che non trova assonan-ze nemmeno con la Ger-mania, dove a volte «i giu-dici dicono che c’è una in-costituzionalità, ma aspet-tano a dichiararla e intan-to chiedono al legislatore di intervenire. Non riesco invece a comprendere una Consulta così rinunciata-ria, se non come espe-diente per uscire da forti divergenze». Flick è colpi-to dal fatto che «sinora la Corte aveva sempre spinto i giudici a ricavare scelte interpretative per decidere il caso concreto, adesso in-vece passa a chiedere al legislatore una decisione in ottica generale e astrat-ta». Ma un aspetto «positi-vo» Flick lo scorge lo stes-so: «È un grande segno di civiltà che si parli di questi temi, non solo di spread».

Corriere 25.10.18
Elezioni decisive
Torna Joschka. E trascina l’onda verde
dall’inviato a Francoforte Paolo Valentino
A 13 anni dall’addio alla politica, Fischer riappare
sul palco nella sua Francoforte. E dà una mano alla nuova generazione, sempre più lanciata
di Paolo Valentino


Al tramonto, prima di entrare alla Evangelische Akademie, ha passeggiato per il centro, interamente ricostruito dopo la distruzione della guerra. «Ricordatevi che prima della città vecchia, a essere bruciata fu la Grande Sinagoga. Il nazionalismo è stato una tragedia per la Germania e l’Europa».
Per una sera Joschka Fischer è tornato a casa, nella sua Francoforte. È un’occasione speciale. Tredici anni dopo l’addio alla politica, è venuto a far campagna per i suoi Verdi dove tutto era cominciato, nell’Assia che vota domenica prossima e dove nel 1984 giurò da ministro regionale dell’Ambiente, il primo nella storia dei Grünen. Le scarpe da tennis indossate quel giorno sono oggi in un museo a Offenbach, non lontano da qui.
Fischer non lo aveva mai fatto. Ma questa volta è diverso: i Grünen sono alle soglie del grande balzo. Hanno vinto in Baviera, sono vincitori annunciati in Assia con il 22% delle intenzioni di voto, superano in tutti i sondaggi nazionali la Spd e l’estrema destra di AfD. Soprattutto sono il nuovo centro di gravità della politica tedesca, campioni dei valori liberali e dell’europeismo contro l’ondata populista, riferimento imprescindibile di ogni futura coalizione di governo. Perfino un analista prudente come Manfred Güllner, direttore del Forsa, predice che non è più lontano il giorno in cui la Germania avrà un cancelliere verde.
Come una vecchia rockstar che ritrova la ribalta per un concerto unico, in duetto con una giovane promessa musicale, Fischer è tornato nella sua città a dialogare sull’Europa con Annalena Baerbock, la metà dei suoi 70 anni, co-leader nazionale dei Grünen, affascinata ma per nulla intimidita dalla discussione con quello che Heinrich Böll definì «il migliore oratore della Repubblica». La sala è zeppa, saranno 400 persone. Lo slogan Joschka kommt, viene Joschka, funziona ancora. È un simbolico passaggio della torcia a una nuova generazione di dirigenti ecologisti, pragmatica, non ideologica e non segnata dalle cicatrici delle battaglie anti-atomiche e pacifiste, oltre che dai contrasti che furono la cifra dei fondatori.
«Nulla è più scontato — attacca l’ex ministro degli Esteri —. I valori fondamentali, la costruzione europea, la pace, la democrazia, lo Stato di diritto e quello sociale, la società aperta sono cose per le quali dobbiamo combattere e andare all’offensiva. I tempi comodi sono finiti. La buona notizia è che con questi temi possiamo anche vincere le elezioni». Gli Stati nazionali non sono la risposta alle sfide che abbiamo davanti, come i cambiamenti climatici, il terrorismo, le diseguaglianze: «Solo insieme possiamo affrontarle».
Baerbock declina in termini concreti: «In Europa dobbiamo essere solidali, nelle finanze come nelle politiche migratorie. La Germania, la più grande economia, ha una responsabilità speciale. Non dobbiamo aver paura di dire che l’Europa deve anche essere un’unione che trasferisce risorse». «Tutti i cancellieri tedeschi, da Schmidt, a Kohl a Schröder, hanno sempre messo sul tavolo più soldi per risolvere le impasse, com’era giusto anche nel nostro interesse», chiosa Fischer. Lei prosegue: «Dobbiamo agire a livello locale, dare protezione e sicurezza alle persone, con più politiche sociali ma anche con più agenti per le strade». Attenzione però, chi chiede solidarietà deve darla «e se il governo ungherese si rifiuta di accogliere anche un solo immigrato, il suo posto è davanti alla Corte di Giustizia».
Fischer dice che Helmut Kohl avrebbe agito diversamente nella crisi, trovando risposte europee, ma riconosce ad Angela Merkel il merito di aver tenuto insieme l’Eurozona, «nonostante le Cassandre dessero la moneta unica per morta». Ma alla cancelliera rimprovera il silenzio sulle proposte di riforma di Emmanuel Macron: «Non è solo un errore, ma un’idiozia non impegnare il governo tedesco in quel progetto».
Non sono d’accordo su tutto. A una domanda sulla nuova crisi dei missili che potrebbe aprirsi in Europa, dopo l’annuncio di Trump di voler uscire dal Trattato Inf, Baerbock è netta: «Dobbiamo dire chiaramente che non ci saranno mai più missili nucleari installati in Germania». Il vecchio leone è più cauto: «Bisogna porsi la domanda quando si sta al governo, da dove si guarda con occhi diversi. La Germania non sarà mai potenza nucleare, ma se i russi installassero nuovi ordigni puntati sull’Europa e noi dicessimo no a missili americani, ci resterebbe solo la garanzia francese. Sarebbe una decisione difficile, buona fortuna!».
Fischer parla anche del nostro Paese: «Dell’Italia non possiamo fare a meno, ma l’attuale governo non può agire in modo così irresponsabile. Il debito italiano non è colpa dell’euro. Roma sta sottovalutando il rischio di rimanere marginalizzata, pensando che gli altri possano aspettarla. Ci sono Paesi come Spagna e perfino il Portogallo, che potrebbero prendere il suo posto, quello che pure le spetta come Paese fondatore». «Perché non torna a far politica?», chiede un giovane. «Ogni cosa ha il suo tempo. Il mio è passato. Ci sono nuove forze e grandi competenze fra i Verdi».
Il concerto è durato oltre due ore. Gli organizzatori offrono regali. Ad Annalena un libro. A Joschka una reliquia: una maglietta mai indossata, di quelle che si vendevano ai congressi dei Grünen negli anni Ottanta. Sopra c’è la frase che lo rese celebre, pronunciata in un dibattito al Bundestag: «Signor presidente, con tutto il rispetto, lei è uno stronzo». Per un attimo gli occhi azzurri di Fischer brillano di malizia, proprio come allora.

Repubblica 25.10.18
Germania
Se il modello Merkel è alle corde
di Tonia Mastrobuoni


Il ritorno alle radici predicato da una fetta sempre più consistente della Cdu e della Spd sta diventando il veleno più potente contro Angela Merkel e la sua "smobilitazione asimmetrica", la sua reticenza proverbiale a prendere posizioni ultimative su qualsiasi argomento. Il suo sfinente tatticismo in questi tredici anni le ha consentito di mangiarsi qualsiasi alleato o avversario.
Cannibalizzando la Spd, i liberali e persino i verdi, arricchendo la sua politica degli argomenti vincenti degli avversari senza complessi ideologici, la cancelliera ha vinto sempre, in un mondo post-muro di Berlino, secolarizzato, in cui il posizionamento pragmatico sembrava la dote più importante.
Nell’era delle "vocazioni maggioritarie", Merkel l’ha sfiorata almeno una volta, nel 2013, e ha continuato a cibarsi di ambientalismo e temi sociali; è stata attenta alle ragioni dell’industria e a quelle dei profughi, occupando il centro della scena politica tedesca per anni, senza rivali. Adesso, con l’ascesa dei populismi e con la polarizzazione della politica, il suo modello rischia di finire alle corde. Il clamoroso successo dei Verdi, con i loro temi forti, e i malumori del suo partito e della Spd che cercano di spostarsi rispettivamente a destra e a sinistra proprio per scollarsi dai posizionamenti pragmatici e riconquistare una posizione ferma nel panorama politico, sono le tendenze più pericolose, per la cancelliera proteiforme. A Berlino gira voce che Merkel si sarebbe già pentita di essersi ricandidata alla cancelleria. Mentre "l’onda verde" che sta montando in Germania rischia di assestarle un duro colpo anche alle elezioni in Assia di domenica prossima, si moltiplicano gli scenari catastrofici sui mesi a venire. Ma è utile anche ricordare che Merkel è stata data per morta o candidata all’Onu o all’Ue o ad altre fantasiose cariche un milione di volte in questi ultimi anni, e i suoi collaboratori più stretti continuano a insistere che «se ha preso un impegno, lo onora fino in fondo». Qualsiasi altra carica sarebbe una diminutio, rispetto al suo ruolo attuale di «donna più potente del mondo», aggiungono. Bisognerà vedere, tuttavia, se i due partiti che la sostengono, Cdu e Spd, e che sono precipitati in una mostruosa crisi di consensi, le consentiranno di guidare il governo di Grande coalizione fino alla scadenza.
Dopo l’exploit della Baviera, anche in Assia il partito ambientalista è schizzato al secondo posto raggiungendo nei sondaggi la Spd. E la Cdu si è talmente indebolita da mettere in dubbio la riconferma di un fedelissimo di Merkel, il governatore uscente Volker Bouffier. Tra i maggiorenti della Cdu si stanno moltiplicando dunque le richieste di una verifica già a dicembre, quando Merkel ha annunciato di volersi ricandidare per la presidenza della Cdu. Se Bouffier dovesse cadere, la ribellione nella Cdu potrebbe emergere alla luce del sole. E costringere Merkel a cedere lo scettro di capo del partito. Intanto.
L’altra spina nel fianco della cancelliera sono i socialdemocratici, finiti in una spirale discendente apparentemente inarrestabile. Alcuni esponenti di primo piano hanno chiesto che la verifica della Grande coalizione prevista per il 2019 si trasformi in un divorzio, anche anticipato, se il partito dovesse naufragare anche in Assia. Il passaggio all’opposizione che era stato sventolato come una promessa da Martin Schulz subito dopo le elezioni, è rimasto il sogno segreto di molti. E adesso comincia a essere il cavallo di battaglia di chi è convinto che soltanto un ritorno alle radici e il divincolamento dalla morsa soffocante dell’ipercentrismo merkeliano possano frenare l’emorragia di voti.

Repubblica 25.10.18
Khashoggi, i sicari venuti dal medioevo
di Bernardo Valli


È un delitto medievale. Un principe ordina a un manipolo di sicari di uccidere un oppositore che dall’estero con i suoi scritti polemici lo infastidisce e ferisce il suo prestigio. Potremmo leggere la vicenda su un vecchio libro di storia. Alcuni strumenti usati dai sicari ( sarebbe stata trovata una sega per tagliare le ossa del cadavere) risalgono a tempi antichi. L’assassinio di stile medievale compiuto sotto i riflettori del XXI secolo ha avuto subito ripercussioni internazionali. La brutalità vi ha contribuito. Le notizie veloci, non sempre precise, hanno disegnato un delitto con inevitabili aspetti e conseguenze politiche. Ben aldilà del fatto di sangue.
Sono entrati in gioco gli equilibri mediorientali, ed anche l’alleanza tra Riad e Washington, e l’inimicizia tra Turchia e Arabia Saudita. Gli alleati americani sono rimasti perplessi dall’uccisione del giornalista. Non era un cittadino degli Stati Uniti, ma vi risiedeva legalmente ed esercitava la professione scrivendo sul Washington Post. La Turchia, avversaria dell’Arabia Saudita, chiede che giustizia sia fatta a Istanbul luogo dove è avvenuto il reato. Anche se il teatro è stato un consolato straniero, quindi fuori dalla giurisdizione turca. Il fatto che come mandante sia stato indicato il principe ereditario della monarchia saudita ha accentuato l’attenzione dei governi non solo mediorientali. L’Arabia Saudita trae la sua forza e prestigio dall’avere sul suo territorio i luoghi santi dell’Islam, e dal poter disporre di un mare di miliardi provenienti dal petrolio di cui è ricco il suo deserto.
Mohammed Bin Salman appena trentenne regna, con illimitati poteri, al posto del padre che a 83 anni non ha sempre l’energia necessaria. Questa sua posizione intimidisce. Non tutti osano indicarlo come colui che ha incaricato quindici uomini di fiducia di raggiungere su due aerei privati Istanbul e di uccidere il giornalista Jamal Khashoggi di passaggio in quella città. Non tutti se la sentono di accusarlo di essere il mandante, anche se i partecipanti alla spedizione sul Bosforo sono suoi uomini di fiducia.
Mohammed Bin Salman è spesso citato con le sole iniziali, Mbs, ed è cosi che risulta nelle didascalie delle fotografie d’attualità, diffuse in questi giorni, nelle quali stringe la mano del figlio di Jamal Khashoggi. Il mandante dell’assassinio conforta il figlio della vittima? La messa in scena è azzardata: dovrebbe dissipare i sospetti sul principe che proclama la sua innocenza confortando pubblicamente il giovane Khashoggi. Ma dall’espressione smarrita, spaurita dell’orfano non sembra che il gesto abbia avuto questo effetto.
Nel ricostruire con chiarezza quel che è accaduto nel consolato saudita, Erdogan, il presidente turco, non ha mai pronunciato il nome di Mbs, ma ha denunciato «l’assassinio politico». Ha espresso anche il desiderio di celebrare il processo a Istanbul, nonostante l’extraterritorialità della rappresentanza diplomatica in cui è avvenuto il delitto. Il processo avrebbe in tal caso come imputato, sia pure assente, il principe ereditario saudita. Una bella rivincita per Erdogan, in patria persecutore di giornalisti, liquidatore di giornali non graditi, e all’improvviso difensore di un giornalista straniero martire. Il suo desiderio non sarà comunque esaudito. La monarchia saudita non si farà processare dai turchi.
Dopo avere mentito al mondo intero, l’Arabia Saudita ha riconosciuto di avere assassinato il suo suddito Jamal Khashoggi il 2 ottobre scorso, ma non ha nemmeno preso in considerazione la colpevolezza del principe ereditario. La vittima, che si è recata ignara nel consolato di Istanbul per compiere una pratica amministrativa (riguardante un divorzio), aveva 59 anni e apparteneva a una famiglia rispettabile e conosciuta. Il nonno era stato il medico di Ibn Saud, il fondatore dell’Arabia Saudita, e lui, Jamal, in polemica col potere, era espatriato negli Stati Uniti, dove scriveva editoriali sul Washington Post, che non erano graditi al potente principe ereditario. Forse lo erano, graditi, a una parte della numerosa famiglia reale ( centinaia di principi), ma non alla maggioranza, e comunque non a quella che appoggia il trentenne Mbs.
Venuti a conoscenza dell’imminente visita di Khashoggi al consolato di Istanbul, gli insofferenti alle sue critiche sulla stampa americana, hanno organizzato la spedizione. Il meccanismo dell’omicidio non è ancora conosciuto nei particolari. La versione saudita sostiene che l’interrogatorio è degenerato. Ma l’invio di quindici uomini da Riad, che nell’attesa di incontrare la vittima ispezionano luoghi deserti in Turchia, probabilmente per seppellirvi il giornalista, accende qualche dubbio sulla versione di un incidente durante un colloquio.
Alcuni aspetti del delitto rivelano l’arroganza di un regime che nonostante la rapida modernizzazione in tanti campi, resta ancorato alla certezza di usufruire di un’impunità illimitata. Il giovane principe ha promosso riforme importanti nella società, ma al tempo stesso si è impegnato in imprese militari, come quella nello Yemen, condotte con spietatezza e con un grande impiego di mezzi. I maggiori costruttori d’armi hanno come cliente l’Arabia Saudita, la quale dispone dei miliardi del petrolio. Da qui la convinzione del giovane principe di poter usufruire della collaborazione, della complicità delle grandi potenze interessate ai suoi petrodollari. La generosità con i paesi arabi più poveri, dovrebbe favorire la comprensione per la sua alleanza, di fatto, con Israele, nella tenzone con l’Iran. I petrodollari fanno, almeno per il momento, vacillare il prestigio della monarchia saudita, e in particolare quella del giovane principe.

Repubblica 25.10.18
Riad e il giornalista ucciso
Un assassinio che ricorda Matteotti
di Alexander Stille


L’interrogativo ricorrente nei giorni successivi all’omicidio di Jamal Khashoggi compiuto a Istanbul da agenti sauditi riguarda il principe Mohammed Bin Salman: con quale brutalità ha autorizzato un atto così orribile in maniera tanto rozza e spudorata? La risposta a mio avviso è che le dittature sono di per sé ottuse. I dittatori creano e abitano una bolla di adulazione e impunità che, se costretti ad agire al di fuori di essa, li conduce a enormi errori di valutazione. L’assassinio di Khashoggi presenta sorprendenti analogie con quello dell’esponente socialista Giacomo Matteotti per mano di squadristi fascisti agli ordini di Benito Mussolini. Nel pomeriggio del 10 giugno 1924, a Roma, Matteotti fu prelevato con la forza da un gruppo di fascisti e caricato su un’auto. Due mesi dopo, il suo cadavere in decomposizione fu rinvenuto a una ventina di chilometri di distanza. Poco prima di essere rapito, Matteotti aveva denunciato in un appassionato discorso i brogli e le violenze compiuti dai fascisti durante le elezioni parlamentari di due mesi prima. L’assassinio di un illustre oppositore del fascismo sconvolse l’Italia e il mondo intero. Prima della scomparsa e dell’omicidio di Matteotti gli alleati democratici dell’Italia erano stati disposti a credere che, nonostante l’ascesa violenta, Mussolini intendesse rispettare le regole della democrazia parlamentare. Ma una prima indagine relativamente indipendente collegò gli assassini all’ufficio di Mussolini. Cesare Rossi, uno dei suoi più stretti collaboratori, era a capo di ?eka Fascista, la polizia politica ispirata alla ?eka, equivalente bolscevico del Kgb. Matteotti fu ucciso prima di denunciare in Parlamento un episodio di corruzione legato alla concessione petrolifera assegnata dal governo alla società americana Sinclair Oil. Mussolini ottenne che l’indagine fosse trasferita a investigatori più collaborativi, i quali conclusero che si era trattato di omicidio preterintenzionale. Col passare del tempo, complici l’esitazione della classe politica italiana, il tornaconto dei governi stranieri e la connivenza della stampa internazionale, Mussolini riuscì a sopravvivere. Rossi fuggì a Parigi e, per non diventare il capro espiatorio dell’omicidio Matteotti, offrì al New York Times documenti che provavano il coinvolgimento di Mussolini. Ma il giornale rifiutò l’offerta, sia perché Rossi chiedeva in cambio 15.000 dollari, sia perché i giornalisti erano restii ad accettare l’idea che Mussolini si fosse macchiato di un omicidio politico. Rossi raggiunse un accordo con il New York World, e il giornalista Arnaldo Cortesi, sostenitore del fascismo, scrisse per il New York Times un lungo articolo mirato a scagionare Mussolini e a screditare Rossi. Tutto questo può servire a spiegare il motivo per cui i sauditi hanno avuto la tracotanza di assassinare Khashoggi a Istanbul. Il Congresso americano e la stampa globale devono evitare di ripetere gli errori commessi ai tempi del caso Matteotti. Un giornalista di mezza età con la pancetta non si mette a fare a cazzotti con 15 agenti sauditi e all’interrogatorio di un dissidente politico non ci si portano dietro un anatomopatologo e una sega chirurgica. La tesi secondo cui Khashoggi è stato ucciso accidentalmente potrebbe essere confermata da un’autopsia. Il rifiuto dei sauditi di consegnarne il cadavere equivale all’ammissione di omicidio premeditato. © 2018 The New York Times Traduzione di Emilia Benghi

Repubblica 25.10.18
Scontri al confine bosniaco
Il muro croato per fermare i migranti
di Andrea Tarquini


BERLINO, GERMANIAEsplode di nuovo, questa volta al confine tra Bosnia-Erzegovina e Croazia, l’emergenza delle ondate migratorie. Ieri almeno duecento migranti, provenienti in maggioranza da Afghanistan, Iran, Pakistan e Nordafrica, hanno sfondato il primo cordone di sicurezza di polizia e guardia di frontiera bosniache e secondo alcune fonti anche croate nel punto di passaggio di Malijevac, presso la città di Velika Kladusa.
Violenti scontri hanno opposto per ore migranti e forze di sicurezza bosniaci, poi solo un secondo cordone di agenti e militari ha bloccato i duecento.
Ma altre migliaia, diecimila circa secondo fonti attendibili di entrambe le ex repubbliche jugoslave, premono alla frontiera. Ieri sera il governo di Zagabria, la capitale croata, ha eretto barriere protettive per tentare di sigillare il confine. Ma i migranti appaiono decisi a continuare nei loro tentativi di entrare dalla Bosnia nel territorio della Ue. E restano al confine, gridando combattivi in inglese il loro slogan: "Open borders, open borders!", cioè frontiere aperte.
Secondo fonti ufficiali di Zagabria, non c’è stato alcun intervento diretto e nessun corpo a corpo tra migranti e forze croate, ma polizia e guardia di frontiera, erette le barriere, sono pronte a tutto. E giornalisti e fotoreporter dell’agenzia britannica Reuters hanno riferito e documentato che le forze croate hanno reagito, per fermare l’ingresso illegale, caricando e sparando lacrimogeni. Diversi sono i feriti.
Da entrambe le parti, compresi tre agenti croati, sempre secondo le agenzie internazionali. Da quando l’Ungheria nel 2015 ha deciso di sigillare il suo confine con la Serbia (frontiera della Ue e dello spazio Schengen) i migranti tentano numerosi di entrare nella Ue attraverso la Bosnia e la Croazia. La situazione può precipitare in ogni momento. I migranti ammassati in Bosnia sopravvivono in rifugi di fortuna. Il Paese, tra i piú poveri in Europa, non ha i mezzi per organizzare centri di raccolta. E in Bosnia come in Kosovo, a maggioranza musulmana, cresce il timore che l’Isis rafforzi intanto la sua propaganda islamista puntando sui seri problemi sociali, specie dei giovani, e cerchi di continuare a reclutare foreign fighters.

Repubblica 25.10.18
Il reportage
Nelle vie di Glasgow
Le nuove suffragette partono dalla Scozia
In sciopero da 48 ore, si battono per la parità di stipendi tra uomo e donna E promettono di dare battaglia dentro e fuori i confini nazionali
di Antonella Guerrera


GLASGOW Una cosa simile, Glasgow l’ha già vista un secolo fa. Nel 1914 l’opaca città scozzese divenne la più sovrappopolata del Regno Unito con 70mila arrivi in tre anni, dalle campagne verso le fabbriche. Non c’erano case a sufficienza. Allora i proprietari dei pochi alloggi decisero di approfittarne e gonfiare a dismisura i prezzi degli affitti. Ma visto che era tempo di guerra mondiale e molti uomini non potevano scioperare, ci pensarono le donne, che a quei tempi stavano a casa, a protestare contro gli sfratti. Si unirono, si opposero con ogni mezzo agli speculatori. Dopo mesi di battaglia, vinsero.
Vinceranno anche questa volta le donne di Glasgow? «Non lo sappiamo», ammette Vivienne Lamb, 67 anni, capelli bianchi e candidi intorno alla sciarpa e agli occhi azzurri, che picchetta al freddo l’ingresso della rossa Mitchell Library, la biblioteca dove lavora da anni come donna delle pulizie. Di fianco una ex chiesa diventata ristorante indiano. «Ma era l’unica opzione rimasta», aggiunge la compagna di protesta, Annette Thompson, sua supervisor di due anni più giovane, «Siamo discriminate da decenni. Ci siamo stufate».
Le donne di Glasgow hanno organizzato una delle proteste più grandi di sempre sull’equità salariale nel Regno Unito, imitate anche dalle donne islandesi.
L’hashtag #GlasgowWomenStrike ("sciopero delle donne di Glasgow") è stato in cima alle tendenze di Twitter per tutto il giorno oltre Manica. In quasi diecimila hanno partecipato a uno sciopero di 48 ore e a picchetti davanti a fabbriche, parcheggi, società di catering: chiusi tutti gli asili, tutte le scuole primarie e disagi ai servizi di istituzioni cittadine, scuole superiori, musei e centri commerciali. Perché a dire basta sono state le donne, spesso di mezza età, impiegate nei lavori peggio pagati, come badanti, assistenza a domicilio, addette alle pulizie e al catering. A loro, si sono uniti moltissimi uomini, soprattutto operatori ecologici, che ora rischiano una denuncia per interruzione di pubblico servizio. «Non potevamo fare altrimenti», spiega Aaron Blackman, 44 anni, che lavora al centro di cultura Glasgow Life, «anche se guadagniamo di più, sono le nostre mogli, figlie, sorelle. Come possiamo lasciarle sole?». Già. Non è una guerra tra poveri, vista anche la sincera solidarietà dei maschi, però la protesta è stata covata da una disparità tra sessi proprio nelle fasce più umili o con salari medio-bassi: le donne addette alle pulizie, catering, a badare vecchi e malati nelle loro case lamentano di guadagnare fino a 3 euro l’ora in meno rispetto agli uomini nettubini. La rabbia degli ultimi giorni nasce da una legge di 12 anni fa. Al potere c’erano i laburisti che approvarono una normativa per appianare la discriminazione sessuale.
Paradossalmente, però, nonostante il leader laburista Corbyn ieri si sia schierato con le donne definendole "eroine silenziose", l’effetto è stato l’opposto, per varie ragioni.
Innanzitutto, il complicato sistema di bonus e ripartizioni favoriva per esempio i lavori con turni continuativi, come quelli dei netturbini (quasi tutti uomini), a discapito delle donne badanti o impiegate in mensa e pulizie che hanno orari più frastagliati e che impongono spostamenti non retribuiti. Inoltre, come compensazione dopo alcune sentenze, agli uomini sono state praticamente risarcite per anni le limature dei loro stipendi, mentre alle donne vengono pagate raramente le festività lavorate.
«Abbiamo vinto tante battaglie nel corso degli anni ma la leader del consiglio comunale Susan Aitken non ci sostiene», dice Shawna, 66 anni, che picchetta il parcheggio Cadogan in pieno centro, «nel frattempo molte compagne sono morte senza giustizia». La battaglia continua.
Per risarcire le donne di oltre dieci anni di discriminazioni salariali, servirebbero tra 500 milioni e un miliardo di pound.
Una cifra che affonderebbe le finanze di Glasgow. Qualche consigliere comunale ha già individuato immobili e asset da vendere. Altri hanno pensato di vendere il Cristo di San Juan de la Cruz, il capolavoro di Salvador Dalí conservato alla Kelvingrove Art Gallery. La leader Aitken avverte: «Tutto quello che volete, ma Dalí non si tocca».

Il Fatto 25.10.18
“Scusi, siamo pieni”: così Laterza mollò Pirandello
 Il Nobel e il fondatore – Luigi Pirandello, poco prima del successo con “Il fu Mattia Pascal”, scrisse a Giovanni Laterza, che si rifiutò di pubblicarlo
di Giorgio Nisini


Si inaugura oggi alle 12, nel museo letterario Spazio900 della Biblioteca nazionale centrale di Roma, la mostra “La casa editrice Laterza e i grandi scrittori del Novecento”. Oltre a prime edizioni, riviste e giornali, sono esposte alcune lettere, per lo più inedite, tra Laterza e alcuni grandi autori. Riportiamo il carteggio tra Luigi Pirandello e Giovanni Laterza.

Egregi signori,
avrei pronto per la stampa un nuovo volume di dieci novelle sul genere delle mie Bianche e nere – cioè, alcune d’argomento drammatico, altre d’argomento comico, tutte però d’un sapore schiettamente umoristico. Formerebbero un volume di 300 o 320 pagine, al massimo. Sareste Voi disposti ad accettarlo? e a quali condizioni? Potrei impegnarmi ad ottenere gratis una bella copertina illustrata. Con osservanza.
P.s. – fino a tutto settembre il mio indirizzo è: Girgenti (Sicilia) – poi: Roma, via San Martino al Macao n. 11
Luigi Pirandello, Girgenti, 15 agosto 1904

Chiarissimo Signor Professor Luigi Pirandello,
Causa una grande quantità d’impegni non possiamo assumere altri lavori. Ci rincresce di non poter approfittare della Sua pregiata offerta e prendiamo l’occasione per ossequiarla distintamente. Devotissimi.
Giovanni Laterza, 22 agosto 1904

Il 15 agosto del 1904 Luigi Pirandello scrive una lettera alla casa editrice Laterza per proporre la pubblicazione di una sua raccolta di novelle. È una lettera molto breve, dal rapido tratto commerciale, in cui la principale preoccupazione dell’autore non è tanto quella di fornire informazioni sul carattere letterario della raccolta, di cui non viene citato neanche il titolo – forse si tratta di una prima versione del futuro Erma bifronte, apparso nel 1906 per Treves – quanto il suo risvolto editoriale: numero e tipologia dei testi, sviluppo del volume in pagine, possibilità di “ottenere gratis una bella copertina illustrata”. La lettera, che per oltre cento anni è stata conservata nell’archivio epistolare della casa editrice barese, e che viene qui presentata per la prima volta insieme alla riposta di rifiuto di Giovanni Laterza, testimonia un particolare momento nella vita di Pirandello: i mesi che precedono il suo primo grande successo letterario, ottenuto grazie alla pubblicazione de Il fu Mattia Pascal. Ma come mai Pirandello si era rivolto a una casa editrice come Laterza? Il rifiuto laconico e insindacabile del giovane editore barese, documentato dalla lettera di risposta del 22 agosto dello stesso anno, era in fondo del tutto in linea con le direttive di Benedetto Croce, che già nel 1902 lo aveva esortato a non “accettare libri di romanzi, novelle e letteratura amena”.
Un’indicazione che se da un lato fu determinante nel definire l’impianto storico, filosofico e critico-saggistico della casa editrice – nata nel 1901 come sviluppo di un’attività tipografica e libraria di famiglia – dall’altro non impedì alcune sporadiche e interessanti eccezioni. Furono queste che probabilmente colsero l’attenzione di Pirandello: una raccolta di novelle di Salvatore Di Giacomo (Nella vita, 1903), una collage di storie “per giovinette” di Rosa De Leonardis (Occhi sereni, 1903), i racconti giovanili di Maksim Gor’kij (I vagabondi, 1903), un romanzo di Filippo Abignente (La moglie, 1904), o ancora – ma siamo ormai nei due decenni successivi – la riedizione postuma dell’opera di Alfredo Oriani (Gelosia, Vortice, Olocausto ecc.). Deroghe, appunto, destinate a rimanere confinate fuori collana e limitate ai primi anni di vita della casa editrice, ma che lasciano intuire un rapporto tra i Laterza e gli scrittori del Novecento molto più intenso e articolato di quanto si potrebbe immaginare.
A fare luce su questo rapporto prova adesso una mostra organizzata dalla Biblioteca nazionale centrale di Roma e da Laterza. Partendo dal prezioso e quasi del tutto inedito archivio epistolare della casa editrice, il percorso espositivo ripercorre le varie tappe e le varie angolazioni con cui i Laterza si sono confrontati con gli ambienti letterari del proprio tempo: dai carteggi con alcuni protagonisti del mondo culturale d’inizio secolo (Sibilla Aleramo, Massimo Bontempelli, Ada Negri, Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini ecc.), fino all’esperienza paradigmatica di Vito Laterza, che nel clima post-crociano del secondo dopoguerra, seppe imprimere un profondo e originale rinnovamento alla casa editrice grazie anche a un dialogo costante con scrittori di varia generazione e provenienza, da Carlo Levi a Corrado Alvaro, da Cesare Zavattini a Carlo Bernari, da Romano Bilenchi fino agli autori coinvolti nella collana “Libri del tempo”, tra cui Bianciardi, Cassola, Brancati, Anna Maria Ortese e Leonardo Sciascia.

Il Fatto 25.10.18
Il conformismo degli intellettuali durante la Grande Guerra
A parte rare eccezioni, come Zweig, poeti e filosofi gareggiarono nell’incitamento all’odio
di Paolo Isotta


Fra poco cadrà il centenario della fine dell’immane massacro militare della Prima guerra mondiale: il 4 novembre capitolò l’Impero austro-ungarico, l’11 quello germanico. L’incredibile rimonta di Vittorio Veneto si dovette a un genio militare napoletano, Armando Diaz, visto che fino a quel momento lo stratega di fiducia dei Savoia, il piemontese Cadorna, aveva concepito la guerra solo come una macelleria fine a se stessa; in questo la classe militare inglese e francese non fu da meno. E sarebbe bene, per non dimenticare – sempre che a qualcuno l’insegnamento della storia oggi interessi – che si rivedessero tre meravigliosi films che denunciano in modo tragico e spietato la macelleria: Per il re e per la patria di Losey, Orizzonti di gloria di Kubrick e Uomini contro di Rosi: il suo più bello, insieme con Le mani sulla città.
Dal momento che nel mio scorso articolo ho raccontato per brevi tratti dell’estate da me trascorsa con Stefan Zweig, debbo tornare al Mondo di ieri. I capitoli centrali di queste Memorie – Memorie dello spirito europeo stesso – sono dedicati ai prodromi della guerra e ai suoi anni. La definizione di “guerra civile europea”, ripresa con tanta fortuna da Ernst Nolte, si deve a Zweig. I grandiosi capitoli vanno ricordati anche in relazione al tema del comportamento degli “intellettuali”: la vergogna suscitò nel corso del conflitto, pagine alte e dolenti, più che indignate, del nostro Maestro, e a sua volta suscitò un celebre libro del 1927, Il tradimento dei chierici, nel quale Julien Benda stigmatizza il ruolo degli uomini di cultura, traditori della loro missione: comprendere e far comprendere, giusta l’etimo intelligere.
Zweig ben conosce i poderosi interessi economici che, nella loro crescente e vertiginosa accumulazione, sono la “struttura” dello scoppio della guerra. Ma egli ha chiara la coscienza che a un certo punto la faccenda sfuggì di mano alle stesse diplomazie che la trattarono. L’Italia, non interventista, avrebbe dovuto restare neutrale, e le trattative condotte da Giolitti – chiamato “traditore” dai forsennati – ci avrebbero garantito di più di quel che miseramente ottenemmo col Trattato del Trianon. Gl’interessi di pochi, in primis i Savoia, ci spinsero nel conflitto. E qui non si può che ricordare la sentenza di Sofocle, il dio fa prima uscire di senno coloro che vuol distruggere. Vale anche per tutto il corso del conflitto.
I più alti spiriti europei che per tutta la guerra si adoperarono per la pace immediata sono, oltre il pontefice Benedetto XV, Zweig e Romain Rolland, un grande storico della musica e romanziere francese. Vennero equamente definiti “traditori” dal proprio paese, e andarono vicino all’impiccagione; allo stesso modo che il Papa era il nemico principale di tutti gli schieramenti e il messaggio sull’inutile strage venne censurato in ogni nazione belligerante. Zweig, da un lato, Rolland, dall’altro, si trovarono soli quando tentarono di far firmare un manifesto incitante alla pace. Fra i pochi fratelli spirituali da loro trovati, Benedetto Croce. Non uno aderì; e i poeti, i romanzieri, i filosofi, gareggiarono nell’infamia, nell’incitamento all’odio, nell’inneggiare alla guerra come “sola igiene del mondo”.
La pagina più nera della vita di Gabriele D’Annunzio e di Thomas Mann è proprio qui. Ma se il sommo poeta italiano rischiò la vita e si riscattò coll’impresa pacifica del lancio dei manifestini su Vienna, poi con quella di Fiume, il grande romanziere di Lubecca lo supera in blateramento, e giunge a negare la stessa cultura latina: la base ideologica dell’incitamento all’odio. Mutato il vento, Mann ritrattò; ma continuò a detestare Zweig. La vicenda mostra una terribile verità: l’uomo di cultura, o intellettuale, è labile e dipendente dal potere, oggi persino più che sotto il despotismo di Augusto. È quasi solo servo: per sua natura. Dobbiamo venerare i pochi che non lo sono.

Corriere 25.10.18
Domani con Amato e Napolitano
Incontro a Roma per ricordare Alfredo Reichlin
di Antonio Carioti


Ci sarà anche l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al seminario di studi Alfredo Reichlin tra storia e futuro che l’Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani organizza domani a Roma per ricordare il dirigente comunista (poi del Pds, dei Ds e del Pd) scomparso il 21 marzo dello scorso anno. D’altronde Napolitano e Reichlin, coetanei ed entrambi intellettuali di origine borghese, si possono considerare, anche se collocati su posizioni politiche diverse, due figure emblematiche del «partito nuovo» che il leader comunista Palmiro Togliatti volle costruire dopo la Liberazione, superando la visione chiusa e settaria ereditata dalla scissione di Livorno del 1921 e aprendo il Pci quanto più era possibile ad apporti di ambienti diversi dalla classe operaia che costituiva pur sempre il suo referente principale nella società italiana.
Appunto dagli anni del dopoguerra, che videro Reichlin, ex combattente partigiano nei Gap di Roma, impegnato nella vita politica della capitale, partono le relazioni iniziali di Mariuccia Salvati e Claudio Natoli che aprono il convegno, in programma dalle ore 10 alle 19 alla Sala Igea del Palazzo Mattei di Paganica, sotto la presidenza di Giuliano Amato, con testimonianze (oltre che di Napolitano) di Emanuele Macaluso, Paolo Franchi, Claudio Petruccioli.
Si parlerà poi dell’esperienza di Reichlin come segretario del Pci in Puglia, con le relazioni di Giuseppe Vacca e di Luigi Masella, e della sua attività di partito (fu anche direttore di «Rinascita» e dell’«Unità») con gli interventi di Alexander Höbel ed Ermanno Taviani.
Quindi, nella sessione pomeridiana, verrà approfondito il ruolo di Reichlin nei diversi passaggi che, dopo la caduta del Muro di Berlino nel novembre 1989, portarono dal Pci al Pds e poi al Pd: se ne occupano Roberto Gualtieri, Silvio Pons, Gregorio Sorgonà e Marco Di Maggio.
Sull’elaborazione di Reichlin in campo economico e sociale, che lo vide tra i più attenti osservatori delle trasformazioni vissute dall’Italia, s’incentrano le relazioni di Giuliano Amato, Salvatore Biasco e Pierluigi Ciocca. È prevista poi la proiezione di un brano dal video dello spettacolo di Luca Ronconi Il silenzio dei comunisti. Conclude i lavori del seminario un intervento di Franco Marcoaldi.

Il Fatto 25.10.18
Psicofarmaci, gli effetti collaterali: dalla psicosi alle idee di suicidio. Ecco quando assumerli (o no) danneggia il cervello
Nel libro "La sospensione degli psicofarmaci" il medico e ricercatore Peter R. Breggin spiega tutti gli scompensi che benzodiazepine, litio e stimolanti possono provocare. Fino a un malfunzionamento cronico del cervello
di Elisabetta Ambrosi

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