domenica 7 ottobre 2018

Corriere La Lettura 7.10.18
I bambini di Asperger, Marsilio editore
Asperger aiutò i nazisti ma anche la psichiatria
È giusto denunciare, come fa Edith Sheffer, la complicità del medico austriaco con le pratiche eugenetiche del Terzo Reich. Ma bisogna
riconoscere che i suoi studi sull’autismo si sono dimostrati validi
Non si possono ridurre le scienze della mente al contesto storico in cui nascono né condannarle in blocco come figlie di un atteggiamento autoritario che schiaccia l’individuo verso una supposta norma
di Giancarlo Dimaggio


Rivedremo Kevin Spacey recitare? Ci sarà un altro Frank Underwood, genio perverso? Difficile. Spacey, molestatore seriale, è ormai persona non gradita. Questo sminuisce il suo talento? No. Vedremo ancora Hans Asperger nelle classificazioni delle malattie mentali? Per un po’ sì, anche se è già relegato nelle note. Poi scomparirà, superato dalla scienza. Espulso con disonore?
Chi era Asperger? Psichiatra infantile, operò a Vienna sotto il nazismo. Descrisse lo «psicopatico autistico»: da lui viene l’eponimo per gli autistici ad alto funzionamento, con intelligenza preservata, a volte con aree di funzionamento eccezionale. Faticano a capire i pensieri e le emozioni degli altri, sono quindi carenti nella cosiddetta «teoria della mente». Una ricerca di Livia Colle, dell’Università di Torino, con una autorità del campo, Simon Baron-Cohen, mostra che adulti con la sindrome di Asperger non riconoscono bene le emozioni negative nelle facce. Il loro comportamento è stereotipato, ripetitivo, trascurano le relazioni sociali, mancano di reciprocità e simpatia per chi soffre, monologano più che conversare. Faticano a cambiare rotta una volta iniziato un comportamento.
La psichiatria cancella Asperger: l’eponimo è sparito dal Dsm 5 (il manuale diagnostico più diffuso) ed è marginale nell’Icd 11 (la classificazione internazionale delle malattie dell’Organizzazione mondiale della sanità). Si parla ora di disturbi dello spettro autistico, problemi simili a livelli differenti di gravità e funzionamento.
Asperger è stato solo uno psicopatologo acuto, superato dal progresso? Purtroppo no. Edith Sheffer nel libro I bambini di Asperger (Marsilio) ne mostra il lato oscuro, ci accompagna nell’abisso: ha contribuito a usare diagnosi di autismo e disabilità per sostenere l’eugenetica nazista. È stato complice dell’orribile Erwin Jekelius, direttore della «Clinica di pedagogia curativa Spiegelgrund». Si intuisce che cosa vi accadesse? Riporto dal libro di Sheffer, in memoria della piccola Ulrike Mayerhofer, diagnosticata come «gravemente autistica, praticamente inaccessibile dall’esterno». Trasferita allo Spiegelgrund, venne richiesto di sopprimerla. Un mese e mezzo dopo morì, ufficialmente di polmonite.
Sheffer narra di decine di bambini disabili, prima etichettati, poi mandati a morire. Asperger era lì, operava dietro le quinte, mai esplicitamente nazista, sicuramente coinvolto. Dovevo verificare. Scopro che Herwig Czech, dell’Università di Vienna, si è occupato dello stesso argomento, in contemporanea a Sheffer, sulla prestigiosa rivista «Molecolar Autism». E conferma che Asperger contribuì alla soppressione di bambini «inadeguati», devianti dall’ideale ariano.
Sheffer e Czech riscrivono una pagina di storia. Che conclusioni ne traggono? Divergenti. Sheffer ha un approccio antidiagnostico, che non condivido. Riduce le osservazioni di Asperger al contesto — oggettivamente mostruoso — nel quale le formulò. Non possiamo accettare il termine «psicopatia autistica», che implica una devianza sociale, ma la descrizione della sindrome era valida. Oggi la si considera la forma meno grave dello spettro autistico, il Dsm 5 parla di Livello 1, ovvero lieve, ma comunque bisognoso di supporto.
Sheffer nega invece il valore scientifico di quelle osservazioni che, secondo lei, nate nella cultura nazista, riprendono vigore in una società votata «all’ansia di integrazione in un mondo perfezionista». Psichiatri e psicologi che trattano le persone con autismo sarebbero guidati dall’«obiettivo di inculcargli sentimenti, pensieri e interazioni con il mondo… C’è chi parla di “curare” o “guarire” i bambini». Vede un mondo volto a etichettare e di conseguenza a stigmatizzare.
Czech, al contrario, sostiene che le osservazioni scientifiche di Asperger erano valide, non contaminate dalla complicità col nazismo. La documentazione storica di Sheffer è preziosa, le sue deduzioni e conclusioni no. Intanto due autori che peraltro cita, Frankl e Weiss, ebrei, formularono le stesse osservazioni negli stessi luoghi di Asperger, prima di lui, e lo ispirarono. In modo più compassionevole, ma descrivevano gli stessi fenomeni e i loro occhi non erano offuscati dal delirio razziale. Poi, chi ha davvero creato problemi a persone affette da autismo è Bruno Bettelheim, peraltro sopravvissuto a Dachau e noto per avere maltrattato bambini. S’inventò di sana pianta che l’autismo era causato dalle «madri frigorifero». Le ricadute di questa assurdità sulle famiglie sono state tremende. Le sue teorie erano insensate, anche se le formulò un ebreo scampato all’Olocausto, perché era uno scienziato scadente.
Ridurre le scienze della mente al contesto storico è rischioso. Così come lo è considerare le diagnosi formulate da psichiatri e psicologi come figlie di una cultura che schiaccia l’individuo verso una supposta norma. Sheffer, lo riconosco, segnala alcuni problemi reali: la diagnosi può essere usata per dare più medicine o diventare uno strumento al servizio dello stigma. Chi fa il mio lavoro può adottare una posizione paternalistica e trincerarsi dietro etichette per risparmiarsi la fatica di capire, empatizzare e curare: «È psicotico, autistico, non perdiamo tempo, un po’ di farmaci e via». È un fatto, come nota Sheffer, che la diagnosi di disturbo da deficit di attenzione e iperattività abbia portato all’aumento ingiustificato di prescrizioni di Ritalin.
Ma dare nomi alle malattie è inevitabile. La mente umana funziona classificando: si legga Kant e l’ornitorinco di Umberto Eco. Raggruppare concetti, oggetti, uomini in categorie è necessario per trasmettere conoscenza. Con la diagnosi identifichiamo fenomeni ricorrenti e così passiamo il sapere acquisito alle generazioni future. Poi, il terapeuta saggio conosce categorie, ma cura individui. Questo facciamo, e oggi usiamo la formula: «persona affetta da… autismo, schizofrenia» e non più «autistico» o «schizofrenico».
Temple Grandin è la protagonista del libro di Oliver Sacks Un antropologo su Marte. Affetta da autismo ad alto funzionamento, ha inventato la macchina degli abbracci che calmava le mucche che allevava. Intervistata, non ha problemi a riconoscere di essere affetta da autismo. Ci tiene solo a essere considerata prima allevatrice di bestiame e poi affetta da autismo. La diagnosi non le ha peggiorato la vita. Rivedremo House of Cards sapendo che Spacey ha compiuto azioni esecrabili, ma resta un attore ineguagliabile. Leggeremo gli scritti di Asperger sapendo che osservazioni più accurate hanno superato le sue, e che lui ha anche agito servendo il male. Psichiatri e psicologi potranno sbagliare, ma in gran parte faranno diagnosi per capire. Al fine di curare meglio.

Corriere 7.10.18
Le 10 scritture (più una) che nessuno capisce
Tavolette, iscrizioni, incisioni sono state trovate in tutto il mondo, ma le forme per trascrivere le parole pronunciate sono nate da quarreo focolai; Cina, Egitto, Mesoamerica, Mesopotamia. Alcune restano un rompicapo
Un bando eeuropeo per studiare  le origini dell’alfabeto e della comunicazione non verbale
di Silvia Ferrara


Perché il mistero ci affascina? Forse perché lancia una sfida alla nostra creatività, mette alla prova intuito, dedizione, metodo. Cruciverba, gialli, complotti, amori irrisolti: stregano perché sono elusivi. Ci ricordano che l’impulso a svelare la realtà è da sempre un gioco a metà, una tensione destinata a lasciare in sospeso. Il mistero è parte della vita anche nelle piccole cose, quelle che diamo per scontate, come le parole di questo testo, leggibili apparentemente senza sforzo.
La scrittura è forse la più rivoluzionaria invenzione dell’uomo. Eppure le sue origini restano misteriose. Fino a un paio di generazioni fa, l’idea prevalente era di un’unica invenzione, avvenuta in Mesopotamia, seimila anni fa: da qui si sarebbe diffusa la scrittura. Oggi, invece, ipotizziamo quattro invenzioni (in Cina, Egitto, Mesoamerica e Mesopotamia), anche se altri focolai creativi sono possibili (la Valle dell’Indo o l’Isola di Pasqua). Dunque le scintille sono state molteplici, ma dove, quando e perché si siano accese rimane una questione insoluta. Non tutte le scritture poi sono state decifrate, e non tutte le lingue che esse registrano identificate. Oggi contiamo quasi una dozzina di casi irrisolti, alcuni dei quali forse non sono definibili nemmeno come scrittura (come i «segni» neolitici della cultura Vinca). Tra gli esempi indiscussi, invece, quattro provengono dal Mare Egeo (Creta e Cipro) e rappresentano i più antichi testi scritti in Europa. Le prime scritture del Vecchio continente sono dunque le meno comprensibili.
Leggere e decifrare sono azioni molto diverse. L’una implica assegnare a specifiche lettere suoni già conosciuti, nell’istante in cui i segni colpiscono la nostra retina. L’altra implica assegnare valori fonetici a una scrittura non nota, riconoscerne la struttura interna e identificarne la lingua. Può richiedere una vita intera. La scienza della decifrazione ha, però, un futuro se prospettive multidisciplinari (machine learning, data science, analisi paleografica, linguistica, archeologica) agiscono in sinergia. Nel giro intorno al mondo delle scritture indecifrate, e del potenziale di decifrazione, partiamo dall’Europa. E da un codice medievale. Poi, rotta verso est.
Manoscritto Voynich
Un libro di 200 pagine, che nessuno ha mai letto. Datato con il carbonio 14 al XV secolo, prende il nome da un mercante di libri polacco che lo comprò nel 1912 a Frascati. Diventato un fenomeno di culto, il libro è minuziosamente illustrato con immagini fantastiche: fiori e piante chimeriche, silhouette di donne svestite, tripudi di diagrammi alchemici. La cosa più strana però è la scrittura, con i suoi caratteri sinuosi e arzigogolati, mai visti in nessun altro testo. Diversamente dalle scritture descritte qui, che sono tutti sillabari, il sistema Voynich è un alfabeto (i segni sono una trentina). Tecniche di machine learning hanno festeggiato il decoding: ma la strada è ancora lunga («la Lettura» #339 del 27 maggio).
Geroglifico cretese
È la scrittura più antica del continente. Il suo nome è ispirato al geroglifico egiziano, ma impropriamente, perché né discendenza diretta, né somiglianza grafica li legano. I «minoici», popolazione così chiamata dal re Minosse all’inizio del secondo millennio a.C., creano un sistema di scrittura nuovo, i cui segni iconici — il termine «pittografico» è impreciso — sono mani, occhi, animali, utensili che registrano sillabe e logogrammi (parole intere). Gli artigiani incidono sigilli di pietra con sequenze brevi, gli scribi iscrivono barre e noduli di argilla. Così si controllavano gli import/export dei palazzi.
Lineare A
Quasi contemporanea al geroglifico cretese, la Lineare A segna l’apogeo dei palazzi monumentali minoici. Dalla Lineare A, che troviamo principalmente su tavolette di argilla, deriva la Lineare B, unico sillabario egeo decifrato, 50 anni fa, dall’architetto inglese e poliglotta Michael Ventris. La Lineare B registra una forma di greco molto antico, di 500 anni antecedente l’Iliade. Ventris l’ha decrittata avvalendosi solo dell’analisi statistica delle frequenze dei segni. Le due scritture lineari si somigliano, ma i valori fonetici della Lineare B non ci aiutano a identificare la lingua della Lineare A (diffidate di chi dice il contrario). Si tratta di un classico caso di scrittura leggibile e di lingua, forse, sconosciuta.
Cipro-minoico
Sull’isola di Cipro, quasi 4 mila anni fa viene adottata una scrittura sillabica, chiamata cipro-minoico, discendente dalla Lineare A. Benché ancora indecifrata, studi recenti regalano molti indizi. Il cipro-minoico compare su una varietà di oggetti, tra cui sfere di argilla che recano, probabilmente, nomi di individui di alto rango. A che cosa servivano? Una teoria è che fossero usate nei sorteggi: Cipro nel II millennio a.C. era uno snodo vitale per il commercio del rame (in latino cuprum) e molte «biglie» sono state trovate in laboratori industriali vicino ai santuari. Forse i sorteggi assegnavano i compiti agli addetti alla lavorazione del rame e ai riti religiosi.
Disco di Festo
Il Disco di Festo, famigerato tra gli esperti, mitizzato dai cretesi, riconoscibile come la gondola a Venezia o il Colosseo a Roma, non solo è preda del marketing, ma soprattutto parte di un’idea stessa di «grecità», anche se con la lingua greca ha poco a che fare. Contemporaneo della Lineare A, è il primo oggetto della storia stampato a caratteri mobili, una specie di «modello Gutenberg» dell’antichità. Un esemplare unico: 244 segni, tutti iconici, nessun indizio per decrittarlo. «Se Minosse in persona mi desse la chiave in sogno, nessuno mi crederebbe», diceva ironicamente uno dei padri decifratori della Lineare B. Chi pensa sia un falso sbaglia, ma è pur sempre un enigma senza soluzione.
Sillabario di Biblo
Semi-sconosciuto, dalla città sulla costa libanese che ha regalato al mondo la parola «libro» (byblos in greco), il Sillabario di Biblo, datato alla stessa fase delle scritture egee, è attestato su una manciata di tavolette di bronzo, spatule di metallo e stele di pietra. Alcuni segni sembrano derivare da una forma corsiva di egiziano, altri richiamano l’alfabeto fenicio più tardo. Che il Sillabario possa essere un trait d’union tra queste scritture è possibile, come è attendibile che la lingua registrata sia un dialetto semitico nord-occidentale (come il fenicio). Le ultime ricerche continuano a pronunciarsi poco su una potenziale decifrazione, soprattutto perché le iscrizioni sono poche (una decina) e i testi scarni.
Proto-elamita
Ci spostiamo a est e torniamo indietro di quasi due millenni (3200-2900 a.C.), nella regione sud-ovest dell’Iran odierno, dove troviamo la scrittura indecifrata più antica del mondo: migliaia di tavolette di argilla iscritte in un sistema relativamente simile al cuneiforme di primissima generazione, con caratteri lineari. Siamo agli albori della scrittura in tutta la Mezzaluna fertile, quando annotazioni e liste d’inventario vengono usate per il management agricolo; alcuni testi sono però molto più lunghi. Quindi di che cosa scrivevano nell’Elam? Per scoprirlo, un gruppo di ricerca di Oxford sta digitalizzando le iscrizioni con immagini ad altissima risoluzione (Rti) e trascrizione online. Nel definire i caratteri e le sequenze, il progetto ha evidenziato che gli scribi di 4 mila anni fa facevano anche errori di ortografia.
Harappan
Ancora più a est, nel III-II millennio a.C. (2600-1900 a.C.), troviamo la civiltà lungo la Valle dell’Indo, detta Harappan (uno dei suoi siti più importanti è Mohenjo-Daro, in Pakistan); le prime iscrizioni di questa zona sono molto brevi, con segni iconici, tanto che gli studiosi oggi dibattono se in realtà non rappresentino un sistema non-linguistico (icone araldiche ed emblemi, tra cui l’«unicorno») impresso su sigilli e amuleti. Analisi statistiche sembrano confutare questa ipotesi: le sequenze si comportano come parole, non con la distribuzione random o rigida di disegnini sparsi. È probabile che la lingua codificata sia un dialetto dravidico preistorico, ma prima la struttura interna della scrittura deve essere definita, anche applicando tecniche di machine learning.
Rongorongo
La scrittura può nascere anche in luoghi inaspettati, come in mezzo al Pacifico. Qui, gli abitanti dell’Isola di Pasqua concepiscono tre secoli fa e senza influenze esterne il Rongorongo, che nella lingua di Rapa Nui significa «recitare recitare». Esistono meno di 40 iscrizioni su tavolette di legno, materiale sfruttato fino alla deforestazione dell’isola. Centinaia di segni minuscoli e compatti, forse sillabici. Il Rongorongo è così poco studiato che non esiste un catalogo di tutte le iscrizioni, né un repertorio definitivo dei suoi segni. Le possibilità di decifrazione potrebbero aumentare, però, perché i testi sono corposi, e il repertorio grafico è facile da definire.
Epi-olmeco
La scrittura Maya fa da padrona per tutta l’epoca preispanica in America centrale, ma è la scrittura epi-olmeca (o istmiana, dall’istmo di Tehuantepec) a segnarne il vero inizio, mille anni prima, dal 500 a.C. circa. Simili al sillabario Maya, quasi del tutto decifrato e in costante perfezionamento, l’epi-olmeco e il suo cognato zapoteco sono dei grattacapo. Nei pochi testi fruibili troviamo indicazioni legate a calendari e computi, generi che nel periodo Maya classico sono diffusissimi. Un aspetto molto intrigante sta nel fatto che l’epi-olmeca è una scrittura complessa, che codifica testi lunghi: questo presuppone antecedenti, a noi oggi invisibili, meno articolati. Insomma, non si vede ancora il vero incipit delle scritture americane.
Il QR illeggibile
Chiudiamo con un «segno» moderno, ma di lettura difficile quanto le scritture antiche descritte sopra. Leggere è un’azione innaturale, frutto di trasmissione culturale e non dell’evoluzione dell’uomo. È troppo recente l’invenzione della scrittura, per esser parte dell’hard-disk del cervello. Nel corso dei millenni, i neuroni hanno quindi riciclato aree cerebrali preposte a captare altro: il solco laterale occipito-temporale sinistro, che riconosce forme e contorni degli oggetti, sembra essersi riqualificato per distinguere anche le forme dei segni. Anche questi ultimi si sono a loro volta adattati alla nostra percezione del mondo, semplificandosi in contorni, linee, segmenti. Per questo motivo un codice QR viene identificato subito da un smartphone, ma elude, come un cruciverba impossibile, la nostra retina.

Il Sole Domenica 7.8.18
Linguistica. Le controverse tesi dello studioso in un testo chiaro e aggiornato
Iniziazione a Chomsky in tre brevi saggi
di Lorenzo Tomasin


Un libro come Il mistero del linguaggio, in cui Matteo Greco ha raccolto e Andrea Moro ha ottimamente introdotto tre brevi saggi recenti, di taglio divulgativo e per varie ragioni ricapitolativi della riflessione di Noam Chomsky, ha una grande utilità: esso offre con chiarezza e con esemplare onestà il punto della situazione su alcune questioni capitali che, note nei loro lineamenti generali, rischiano di confondere le idee di chi si avventuri nello sconfinato edificio della linguistica attuale. Provo, in estrema sintesi, ad estrarre alcuni dei concetti che mi paiono portanti in un volume che, come spesso i libri migliori, è breve ma difficilissimo da riassumere. Ometto di qui in avanti formule tipo «secondo Chomsky» o «secondo l’attuale visione di Chomsky», dando per scontato la natura controversa, e spesso frutto di revisioni anche drastiche, di molti assunti.
La varietà delle lingue umane ha una radice comune nella facoltà di linguaggio. Essa è condivisa da tutti gli uomini ed è sostanzialmente immutata da quando homo sapiens ha sviluppato l’attuale struttura cerebrale. Ogni essere umano (a parte casi patologici, interessanti per cercare verifiche) può apprendere qualsiasi lingua, in particolare nella forma dell’apprendimento spontaneo infantile. In compenso, nessun animale può apprenderne alcuna. Si tratta dunque d’una proprietà esclusiva della specie umana necessariamente radicata nel suo patrimonio genetico (e solo nel suo) e quindi nelle sue strutture fisiche (cioè nelle reti neurali cerebrali). Essa è indipendente sia dai caratteri specifici di questa o quella lingua, che non influiscono su tempi o modi dell’apprendimento dell’infante, sia dalla lingua dei genitori biologici. Tale proprietà si sarebbe manifestata in homo sapiens per effetto d’una mutazione piuttosto repentina, non tràmite un processo evolutivo lungo. Lo suggerirebbe, tra l’altro, il fatto che non esisterebbero in natura “mezze sintassi” o abbozzi evolutivi del linguaggio, né tra gli animali – i cui sistemi di comunicazione non hanno la possibilità computazionale dalla produttività illimitata che presiede alla sintassi –, né tra gli uomini. Il linguaggio così inteso va quindi riguardato come un peculiare sistema di organizzazione del pensiero. Idea centrale della teoria è che esso sarebbe fatto primariamente per pensare e solo secondariamente per comunicare. Esso nascerebbe dentro la mente e solo in un secondo momento verrebbe esternalizzato, di solito attraverso il suono, ma non necessariamente (si pensi alle lingue dei segni). Anche alcuni uccelli, in effetti, «cantano» in modo fisicamente e neurologicamente molto simile a come gli uomini emettono la voce, ma non possiedono sintassi, cioè la possibilità di formare un numero potenzialmente infinito di frasi con un numero finito di elementi.
Il fatto che sul piano dell’organizzazione logica, quindi sulla sintassi, si basi il concetto di linguaggio così concepito, comporta che la sintassi sia centrale nello studio delle proprietà generali del linguaggio, anche se non automaticamente di quelle specifiche delle lingue che parliamo e scriviamo da svariati millenni.
L’evoluzione biologica e la storia (delle lingue, che è in fondo la storia tout court) non vanno assolutamente confuse. Le lingue – snodo fondamentale – non si sarebbero mai evolute nel senso che questo termine ha in biologia: cioè non avrebbero mai prodotto modifiche geneticamente trasmesse nella specie umana. Tutta la loro storia si svolge a valle di un passaggio evolutivo già avvenuto, una volta per tutte, decine di migliaia di anni fa. Da allora – cioè in tutta la storia di tutte le lingue che conosciamo – per il linguaggio nihil sub sole novi: per cui occuparsi delle proprietà del linguaggio intese nel senso appena esposto significa indagare, di fatto, le potenzialità presenti – pur se non necessariamente espresse – in un ominide preistorico come in un postino newyorkese. Dal punto di vista appena chiarito, essi parlano la stessa lingua (o meglio: lo stesso linguaggio), con differenze superficiali che non interessano – ovviamente – chi s’incarichi d’indagare le proprietà generali della facoltà di linguaggio. Tutta la vicenda delle lingue si svolge dunque a valle di un passaggio evolutivo da cui la storia umana resta, di fatto, del tutto esclusa.
La teoria sintattica che va sotto il nome di Grammatica universale si rivela dunque al lettore di queste pagine come un generoso tentativo di indagare il funzionamento stesso di una parte (anzi di più parti tra loro collegate) del cervello umano e di quella che chiamiamo la mente. Il che dà un contributo importante, ma certo non risolutivo, a chi voglia rispondere a domande come: perché parliamo come parliamo?, oppure: perché scriviamo come scriviamo?
È chiaro che la linguistica intesa come studio del(la facoltà di) linguaggio e la linguistica come studio delle lingue sono due nozioni distinte, e pur indubbiamente collegate dal fatto di chinarsi concretamente sugli stessi oggetti, cioè sui prodotti linguistici. Sebbene le tappe che hanno portato allo stadio teorico qui descritto siano state segnate da contrasti talora feroci – come spesso capita, ma con il sovrappiù di asprezze dottrinali che speriamo solo novecenteschi –, si può finalmente confidare nel tramonto di una fase della linguistica iniziata forse al principio del secolo scorso, in cui si è assistito da un lato a una corsa per affermare che vi sono teorie linguistiche «più linguistiche» di altre, e dall’altro ad escludere progressivamente dalla «vera linguistica» (variamente intesa dagli adepti delle diverse obbedienze) ciò che «linguistica» non è o non sarebbe, pur applicandosi, fatalmente, allo studio delle lingue.
In altri scritti, Chomsky ha suggerito che l’ipotetico scienziato che giungesse da un altro mondo (magari, aggiungo, con un manuale di grammatica generativa sotto il braccio) potrebbe tornarsene a casa riferendo che sulla Terra vive una specie dotata di un linguaggio che, non ostanti minime differenze locali, è riconducibile a un’unica grammatica. L’immagine è provocatoria e sanamente urticante, come càpita ai paradossi ben formulati. Un altro scienziato extraterrestre, a dire il vero, potrebbe riferire anche che il pianeta è caratterizzato da un’unica forma di vita, descrivibile secondo i principi generalissimi della genetica, che si manifesta in una varietà solo apparente. Un resoconto se si vuole corretto, anche se un po’ riduttivo e, forse, insoddisfacente almeno per una parte degli organismi biologici (o se si preferisce addirittura degli ammassi di protoni, neutroni, elettroni) che leggono queste righe, immersi in quella che a loro appare – ma davvero si tratta d’un fenomeno marginale e secondario? – la decisiva varietà della storia e della vita.
Il mistero del linguaggio. Nuove prospettive
Noam Chomsky a cura di Matteo Greco.
Introduzione di Andrea Moro, Milano, Raffaello Cortina, pagg. 128, € 11.
In libreria dal 27 settembre.

il manifesto 7.10.18
Non Una Di Meno: stato di agitazione permanente
Incontro nazionale a Bologna. «Questo è un movimento maturo, che riconosce la violenza maschile come strutturale, capace di ricollegare i nessi tra sfruttamento, sessismo e razzismo, e che punta a una liberazione di tutte le soggettività oppresse. I migranti, e ancora di più se donne, lesbiche, trans e queer, sono oggi i più colpiti dalla torsione nazionalista e neoconservatrice che sta investendo l'Italia e il mondo»
di Shendi Veli


BOLOGNA Numeri importanti che mostrano come, a due anni dalla sua nascita, la marea non accenni a ritirarsi. Tra le numerose presenze: la rete dei centri anti-violenza DiRe, la Casa internazionale delle Donne di Roma, collettivi femministi e lgbtq, sindacati di base, ma anche tante donne e uomini di tutte le età, che hanno aderito al movimento.
MOLTI I TEMI EMERSI; dopo un’estate tetra in cui femminicidi, aggressioni a migranti, omossessuali, e forme di vita non conformi, hanno segnato le pagine della cronaca, è stata ribadita l’urgenza di costruire una risposta trasversale alle politiche fasciste di questo governo che danno inevitabilmente l’imprinting ai provvedimenti legislativi. Come il disegno di legge firmato dal senatore leghista Pillon, tra i promotori del Family Day.
TRA LE COMUNICAZIONI più forti della giornata, la decostruzione delle politiche securitarie e l’antirazzismo, considerati il recente Decreto Sicurezza e l’arresto del sindaco di Riace. «Questo è un movimento maturo, che riconosce la violenza maschile come strutturale, capace di ricollegare i nessi tra sfruttamento, sessismo e razzismo, e che punta a una liberazione di tutte le soggettività oppresse. I migranti, e ancora di più se donne, lesbiche, trans e queer, sono oggi i più colpiti dalla torsione nazionalista e neoconservatrice che sta investendo l’Italia e il mondo» dice Beatrice, del nodo bolognese di Non Una di Meno.
ALTRA QUESTIONE affrontata dagli interventi è stata la critica alla proposta gialloverde di reddito di cittadinanza.
Uno degli slogan principali del movimento fin dai suoi primi passi è stato il «reddito di autodeterminazione», forma di sostegno universale e slegato dalla famiglia che garantisca alle donne l’indipendenza economica, base dell’emancipazione materiale e affettiva. Nel pomeriggio l’incontro si è articolato in cinque tavoli di lavoro: Strategie contro la violenza di genere, diviso in tre sottogruppi, Educazione, Norme anti-femministe e Spazi femministi. Gli altri workshop sono stati dedicati al Lavoro e Welfare, a Immigrazione e antirazzismo, a Corpi, ambiente e territori (campagna Rigeneriamoci), e infine a Salute e autodeterminazione.
ALLA PRESENZA DELL’ATTIVISTA Marta Dillon che ha portato i saluti delle compagne argentine, frequenti i riferimenti alla dimensione transnazionale del movimento, elemento innovativo che pone il femminismo al cuore della fase politica globale, come alternativa concreta al riemergere di sovranismi e confini. Una esigenza condivisa visto l’incontro del movimento femminista spagnolo, e – sempre ieri – l’imponente assemblea internazionale a Francoforte a cui hanno partecipato delegate dell’Ypg curdo e del movimento zapatista.
Oggi, nella riunione conclusiva, verranno discussi i report dei vari assi tematici, e si andrà verso il lancio di una grande manifestazione nazionale il 24 novembre.
Intanto è stato proclamato uno stato di agitazione permanente che seguendo varie tappe andrà a costruire la data dell’8 Marzo, collocandosi dentro lo sciopero femminista globale.

il manifesto 7.10.18
Il Pd di Verona sfiducia la capogruppo pro-life
Mozione contro l'aborto. «L’aborto non è un diritto, è un abominevole delitto. Fosse per me la legge 194 non dovrebbe esistere. Sono contrario all’aborto, come il ministro Fontana»
di Giulia Siviero


VERONA Edizione del Il voto del consiglio comunale di Verona sulla mozione che proclama ufficialmente la città «a favore della vita» e che finanzia progetti e associazioni cattoliche esplicitamente contrarie al diritto di interrompere una gravidanza ha portato a diversi rovesciamenti politici e simbolici. Le reazioni si sono moltiplicate su due linee: quella di merito per l’approvazione della mozione stessa e quella del voto favorevole della capogruppo del Pd Carla Padovani. Sulla pagina Facebook del consigliere di maggioranza Andrea Bacciga è stata ad esempio pubblicata una foto dove accanto al sindaco Federico Sboarina e al consigliere della Lega Alberto Zelger (che quella mozione l’ha proposta) compare proprio la capogruppo del Pd. La didascalia dice: «Impresentabili».
E ancora: «Se essere impresentabile significa essere per la Vita e non per la morte, sono fiero di esserlo». Mentre la maggioranza collocava dunque dalla propria parte la capogruppo dell’opposizione, i consiglieri e le consigliere del Pd la sfiduciavano, chiedendone formalmente anche le dimissioni, forti delle posizioni che contro il suo voto sono state espresse anche a livello nazionale all’interno del partito. E mentre le «donne democratiche» di Verona tenevano una conferenza a favore della 194, le donne della maggioranza si sono ritrovate per spiegare che «nessuno ha messo in discussione la legge o ne ha chiesto l’abrogazione» La mozione, hanno detto, chiede che «venga effettivamente rispettata la legge 194» che all’articolo 1 dice che stato, regioni ed enti locali devono promuovere iniziative necessarie per evitare che la legge stessa diventi uno «strumento per il controllo delle nascite».
Alberto Zelger, invece, intervistato su Radio 24, ha espresso con più sincerità il movente della sua mozione: «L’aborto non è un diritto, è un abominevole delitto». Ha citato la Russia di Putin «dove gli aborti sono scesi da quattro milioni l’anno a due con i sussidi» e ha spiegato che, fosse per lui, «la 194 non dovrebbe esistere. Sono contrario all’aborto, del tutto in linea con la posizione del ministro Fontana (vicesindaco a Verona fino a qualche settimana fa, ndr). Significa uccidere un bambino nella pancia della mamma».
Il movimento Non Una Di Meno Verona (che alle mozioni e all’amministrazione di estrema destra ha fatto opposizione sia in aula che fuori, organizzando insieme ad altre realtà «resistenti» spazi politici femministi, antifascisti e antirazzisti) ha invece preso posizione soprattutto sul merito della mozione denunciando l’appropriazione della parola «vita» da parte dei movimenti cattolici «che incontrano su queste tematiche l’estrema destra perché entrambi portano avanti discorsi identitari e colonialisti sul corpo delle donne». La legalizzazione aborto, hanno precisato sempre le attiviste, «ha dimostrato con i fatti e con i numeri di non essere mai stata un mezzo per il controllo delle nascite: i dati del ministero della Salute parlano di una riduzione del 54,2 per cento delle Ivg dal 1983 ad oggi».
L’articolo 1 della legge, infine, «non affida alcun mandato all’associazionismo, tanto meno a quello di stampo cattolico. Se si vogliono evitare gravidanze indesiderate si sostenga l’educazione sessuale nelle scuole, si potenzino i consultori e si faciliti l’accesso alle misure contraccettive».
Nelle prossime settimane al consiglio comunale di Verona potrebbe essere presentata un’altra mozione che interessa particolarmente ai cosiddetti «pro-vita»: la sepoltura automatica di un feto senza prendere in considerazione né il desiderio né la volontà della donna coinvolta.

Repubblica 7.10.18
La mozione di Verona votata con la Lega
Il Pd si divide sull’espulsione della consigliera anti aborto
La sfiducia del gruppo dem: Padovani non ci rappresenta più. E c’è chi chiede di cacciarla
di Giampaolo Visetti


VERONA Sfiduciata da capogruppo in consiglio comunale, ma non espulsa dal Pd. Carla Padovani non si è dimessa, ma il caso aborto a Verona divide i dem e conferma che il centrosinistra resta spiazzato dall’offensiva di Lega e destra contro diritti e valori riconosciuti dallo Stato. Dopo la sorpresa del sì « di coscienza » alla mozione che ha dato una prima spallata politica alla legge 194, a 40 anni dal referendum sull’interruzione volontaria di gravidanza nella città del ministro leghista della Famiglia Lorenzo Fontana, il Pd è lacerato tra chi pretende la linea dura e chi non accetta la logica dell’epurazione. A prevalere, per ora, la mediazione: Padovani non può più rappresentare il Pd a Verona, ma il partito resta «plurale » e capace di accogliere sensibilità diverse, in particolare su temi etici ad alta sensibilità. «Devo riflettere – ripete la capogruppo Pd – ogni scelta è prematura e so che nel partito molti condividono la mia opinione » . E c’è chi la difende apertamente come l’ex deputato Beppe Fioroni: «Inammissibile tornare al Pds » . Sulla stessa linea l’ex sottosegretario Antonello Giacomelli: « Il problema sarebbe forse che una consigliera difende il valore della maternità? Poteva evitare il voto con i leghisti, sì, ma serve più riflessione nei giudizi. Il crinale è delicato ».
I tre colleghi consiglieri comunali di Verona, Elisa La Paglia, Stefano Vallani e Federico Benini, ieri hanno comunque tolto la fiducia a Padovani. « Il suo sì al documento antiaborto – dicono – è incompatibile con il ruolo di capogruppo di una forza che vuole e sconfiggere i beceri populismi».
Passa così la linea prudente dei vertici nazionali e regionali, spaventati dalla prospettiva di una frattura con il mondo cattolico. «Padovani è caduta in una trappola – dice il segretario dem del Veneto, Alessandro Bisato – ma le dimissioni dal partito sono un’altra cosa. Con lei occorre un chiarimento serio, ma i provvedimenti coercitivi non si fanno d’impeto » . È la linea del segretario nazionale Maurizio Martina: « La posizione del Pd sulla 194 a tutela delle donne è chiara e inequivocabile. Noi la difenderemo senza se e senza ma, in ogni sede e sempre».
Social e militanti Pd - tra gli altri gli iscritti di Tor Bella Monaca a Roma - invocano però la " cacciata" dell’esponente veronese, accusata di «fare da spalla a leghismo ed estremismo di destra per opportunità personali » . Nel mirino i fondi pubblici, previsti dalla mozione, ad associazioni antiabortiste che sostengono lei, oltre che l’ideatore del documento, Alberto Zelger, e il ministro Fontana. La divisione Pd favorisce così la nuova offensiva di Lega e destra che invitano «tutti i Comuni italiani a fare come Verona». «L’aborto non è un diritto – ha detto Zelger - ma un abominevole delitto. Il mio esempio è la Russia che ha dimezzato gli aborti » . All’attacco anche il sindaco Federico Sboarina: « La mozione non è contro la 194, ma a sostegno di associazioni che la applicano, aiutando le donne a superare le cause anche economiche che inducono l’aborto».
A unire nell’imbarazzo Pd e destra, le nuove dichiarazioni di Zelger, ex vicesindaco "fontaniano", sui gay: «Sono una sciagura per la conservazione della specie. Se mettete in una città una popolazione omossessuale in cent’anni è estinta. Il sesso omosex poi fa male alla salute e in Usa è la causa del 70% dell’Aids». Indignate le associazioni gay, che hanno ricordato il dolore e la violenza causati anche in Italia « dalla riaccesa intolleranza omofoba » . Proprio a Zelger, l’altra sera, la capogruppo Pd Padovani ha garantito il suo appoggio.

Repubblica 7.10.18
La mozione di Verona votata con la Lega
Il Pd si divide sull’espulsione della consigliera anti aborto
La sfiducia del gruppo dem: Padovani non ci rappresenta più. E c’è chi chiede di cacciarla
di Giampaolo Visetti


VERONA Sfiduciata da capogruppo in consiglio comunale, ma non espulsa dal Pd. Carla Padovani non si è dimessa, ma il caso aborto a Verona divide i dem e conferma che il centrosinistra resta spiazzato dall’offensiva di Lega e destra contro diritti e valori riconosciuti dallo Stato. Dopo la sorpresa del sì « di coscienza » alla mozione che ha dato una prima spallata politica alla legge 194, a 40 anni dal referendum sull’interruzione volontaria di gravidanza nella città del ministro leghista della Famiglia Lorenzo Fontana, il Pd è lacerato tra chi pretende la linea dura e chi non accetta la logica dell’epurazione. A prevalere, per ora, la mediazione: Padovani non può più rappresentare il Pd a Verona, ma il partito resta «plurale » e capace di accogliere sensibilità diverse, in particolare su temi etici ad alta sensibilità. «Devo riflettere – ripete la capogruppo Pd – ogni scelta è prematura e so che nel partito molti condividono la mia opinione » . E c’è chi la difende apertamente come l’ex deputato Beppe Fioroni: «Inammissibile tornare al Pds » . Sulla stessa linea l’ex sottosegretario Antonello Giacomelli: « Il problema sarebbe forse che una consigliera difende il valore della maternità? Poteva evitare il voto con i leghisti, sì, ma serve più riflessione nei giudizi. Il crinale è delicato ».
I tre colleghi consiglieri comunali di Verona, Elisa La Paglia, Stefano Vallani e Federico Benini, ieri hanno comunque tolto la fiducia a Padovani. « Il suo sì al documento antiaborto – dicono – è incompatibile con il ruolo di capogruppo di una forza che vuole e sconfiggere i beceri populismi».
Passa così la linea prudente dei vertici nazionali e regionali, spaventati dalla prospettiva di una frattura con il mondo cattolico. «Padovani è caduta in una trappola – dice il segretario dem del Veneto, Alessandro Bisato – ma le dimissioni dal partito sono un’altra cosa. Con lei occorre un chiarimento serio, ma i provvedimenti coercitivi non si fanno d’impeto » . È la linea del segretario nazionale Maurizio Martina: « La posizione del Pd sulla 194 a tutela delle donne è chiara e inequivocabile. Noi la difenderemo senza se e senza ma, in ogni sede e sempre».
Social e militanti Pd - tra gli altri gli iscritti di Tor Bella Monaca a Roma - invocano però la " cacciata" dell’esponente veronese, accusata di «fare da spalla a leghismo ed estremismo di destra per opportunità personali » . Nel mirino i fondi pubblici, previsti dalla mozione, ad associazioni antiabortiste che sostengono lei, oltre che l’ideatore del documento, Alberto Zelger, e il ministro Fontana. La divisione Pd favorisce così la nuova offensiva di Lega e destra che invitano «tutti i Comuni italiani a fare come Verona». «L’aborto non è un diritto – ha detto Zelger - ma un abominevole delitto. Il mio esempio è la Russia che ha dimezzato gli aborti » . All’attacco anche il sindaco Federico Sboarina: « La mozione non è contro la 194, ma a sostegno di associazioni che la applicano, aiutando le donne a superare le cause anche economiche che inducono l’aborto».
A unire nell’imbarazzo Pd e destra, le nuove dichiarazioni di Zelger, ex vicesindaco "fontaniano", sui gay: «Sono una sciagura per la conservazione della specie. Se mettete in una città una popolazione omossessuale in cent’anni è estinta. Il sesso omosex poi fa male alla salute e in Usa è la causa del 70% dell’Aids». Indignate le associazioni gay, che hanno ricordato il dolore e la violenza causati anche in Italia « dalla riaccesa intolleranza omofoba » . Proprio a Zelger, l’altra sera, la capogruppo Pd Padovani ha garantito il suo appoggio.

il manifesto 7.10.18
Potere al popolo si scinde sullo statuto. Rifondazione se ne va
Sinistra. Oggi il voto on line. Ma il Prc non partecipa. Sullo sfondo lo scontro sulle europee
di Adriana Pollice


NAPOLI È cominciato ieri il voto on line tra gli oltre 9.300 tesserati per stabilire lo statuto di Potere al popolo. Continueranno fino a martedì ma una delle due proposte è rimasta senza i suoi estensori.
Venerdì sera, infatti, una nota dei dirigenti di Rifondazione comunista, capitanati dal segretario Maurizio Acerbo, ha sancito la rottura a poche ore dall’inizio del voto: «È stata rifiutata la pubblicazione sul sito del testo di presentazione dello “Statuto per tutte e tutti” – scrivono -, creando un’evidente e inaccettabile condizione di disparità tra i due statuti di fronte alle/agli aderenti. Inoltre sul sito vi è una ricostruzione falsa del coordinamento di lunedì scorso, che attribuisce a noi (che abbiamo sempre chiesto un solo statuto emendabile) la responsabilità di andare al voto su due statuti contrapposti. È davvero troppo».
L’indicazione per gli iscritti di Rifondazione è «di non partecipare a una consultazione per la quale mancano i requisiti minimi di agibilità democratica».
Lo scontro tra le due anime di Pap (da un lato l’Ex Opg Je so’ pazzo ed Eurostop, dall’altro appunto il Prc), sintetizzato nei due statuti contrapposti, si è fatto sempre più aspro fino alla rottura.
L’Ex Opg spiega: «Le assemblee territoriali hanno votato emendamenti ai due testi, inseriti nelle versioni definitive, ognuna con un suo preambolo. Venerdì Rifondazione ha chiesto di inserire una premessa differente, che era un’accusa nei nostri confronti più che una dichiarazione di intenti».
Questo ha creato l’inciampo che ha provocato la frattura, che però aleggiava da tempo.
«Scissione prima di iniziare, bene ma non benissimo» è uno dei commenti sui social del Prc, dove si è infiammato il dibattito tra chi ha applaudito, preferendo un percorso autonomo, e chi invece ha accusato la dirigenza di aver preso la decisione senza aver consultato la base.
Nella rottura hanno pesato due fattori.
Il primo è indicato in uno dei commenti al post di Acerbo: «Ma non era più semplice spiegare a tutti i compagni che la vera battaglia è quella sulle europee del 2019, far votare se andare con de Magistris o con il simbolo di Potere al popolo, dire che se c’è l’accordo con l’Altra Europa non si devono prendere migliaia di firme anche in Valle D’Aosta e in Molise, dire che visto che c’è uno sbarramento al 4% è importante, al fine della sopravvivenza, unirsi per passarlo?».
Il Prc vorrebbe un movimento che contiene realtà organizzate differenti, con un loro peso individuale e una dirigenza che orienta le scelte in base alla delega, in vista di un cartello elettorale (il Quarto polo) per le europee, mentre l’Ex Opg ed Eurostop spingono per un soggetto politico unitario e autonomo con una base che decide a maggioranza se e come arrivare alle elezioni.
L’altro punto è stato sollevato da Contropiano (sito di informazione di Eurostop): «Oggi (ieri, ndr) a Firenze si riuniscono 200 dirigenti di Rifondazione che da mesi sparano contro la segreteria del partito, “colpevole” di aver accettato il percorso di Potere al popolo (almeno fino a venerdì) e di non aver imposto dentro Pap la linea della costruzione di un non meglio precisato “Quarto polo della sinistra”. Non ci sembra una coincidenza che la decisione di ritirare la propria bozza di statuto sia arrivata alla vigilia di tale appuntamento».
Ieri pomeriggio Salvatore Prinzi, a nome dell’Ex Opg, ha pubblicato una lunga ricostruzione dei fatti, accusando il Prc di aver sabotato il percorso di Pap.
Sulla rottura spiega: «Hanno fatto i conti e non gli tornano, rischiano di perdere di brutto. Meglio buttare la palla in tribuna. Se votano in pochi, dicono che hanno vinto perché l’astensione è tutta loro! Se invece votano in tanti, diranno che il gioco era falsato perché non hanno gareggiato. E quindi, se il gioco è falsato, non ci riconosciamo in Pap, non firmiamo lo statuto dal notaio, Pap non nasce e quindi vi fottete anche se siete migliaia».

Repubblica 7.10.18
Il balcone peronista dei grillini
di Piero Ignazi


L’aplomb e la compostezza formale di Luigi Di Maio che per anni hanno levigato l’abrasività delle intemerate di Beppe Grillo sono stati gettati alle ortiche, anzi, buttati giù da un balcone, la settimana scorsa. I festeggiamenti per l’approvazione del reddito di cittadinanza segnano una svolta nella cultura politica, nel modo d’essere e di porsi, dei pentastellati. Se comunque andiamo nel merito della questione, un provvedimento contro la povertà non può che essere ben visto da tutti, e soprattutto da chi si professa di sinistra. Basti ricordare il mitico pamphlet di Ernesto Rossi, Abolire la Miseria, pubblicato per la prima volta nel 1945. Ovviamente vi sono molti modi di combattere la povertà, dalla visione caritatevole del conservatorismo compassionevole di stampo britannico, poi ripreso dai neocons anglosassoni negli anni Ottanta del secolo scorso, a quello religioso, cattolico in particolare, di empatia per i poveri e gli ultimi. Questi sentimenti di buon cuore volevano attenuare l’indigenza grazie ad istituzioni volontarie affidate alla generosità dei ricchi. A costoro non passava nemmeno per l’anticamera del cervello che tutti gli uomini e le donne avessero diritto in quanto persone ad una vita dignitosa, e quindi che la collettività nel suo insieme vi dovesse provvedere. Solo una concezione repubblicana-socialista dei diritti ha rovesciato quell’impostazione. Ben vengano quindi, in linea di principio, misure come quelle promosse da Di Maio — che in realtà non sono altro che una versione del Reddito di Inclusione più generosa e anche più pasticciata tanto che si configura come una sorta di "reddito etico", per cui solo un certo utilizzo è giusto: il pane sì, le rose no.
Dov’è allora il problema? Nella forma, che spesso rivela più della sostanza. In estrema sintesi, il problema sta nel "balcone", nella esibizione con cui i pentastellati hanno festeggiato l’approvazione del loro disegno di legge.
Chi governa, per il ruolo istituzionale che ricopre non può assumere posture da demagoghi piazzaioli.
Juan Perón, l’affossatore dell’economia e poi della democrazia argentina, arringava le folle dalla Casa Rosada per magnificare le proprie iniziative e farsi applaudire dai sostenitori. Quello che importava era il sostegno dei descamisados, non certo delle regole democratiche; e nemmeno delle contingenze economiche: di fronte alla svalutazione dei 4/5 della moneta nazionale per le dissennatamente generose politiche economico-sociali, Perón si rivolgeva alla piazza dicendo «forse voi comprate il cibo con dollari e non con i pesos?». Oggi si direbbe, i mercati se ne faranno una ragione.
L’Argentina venne mandata in miseria grazie a quel rapporto diretto, caldo, immediato tra il leader e la folla. Il balcone di Palazzo Chigi che si indirizza esaltato ai militanti osannanti non è così lontano da quell’esempio. Il palazzo del governo non può trasformarsi in un palco tribunizio a disposizione dei ministri di turno. È il luogo dove si devono curare gli interessi nazionali, non di una parte. L’esultanza che debordava da quella sede istituzionale indica quanto meno una sbavatura giovanilista di persone inesperte, e forse inadatte, a ricoprire ruoli governativi: un peccato di gioventù, insomma. Oppure, al peggio, lo scivolamento verso una deriva populista i cui geni sono rimasti inattivi per molto tempo nel corpo pentastellato e che ora si rivitalizzano mutando la natura del partito da post-materialista e innovativo a giustizialista e plebiscitario.

il manifesto 7.10.18
Rom ed ebrei, la memoria delle memorie
Oggi si tiene la marcia della Pace Perugia Assisi, è un’occasione ideale per chiedere il cambio della titolazione ’giornata della memoria’ in ’giornata delle memorie’ e per chiedere la prossima attribuzione del Nobel per la pace a Rom e Sinti
di Moni Ovadia


L’Italia ha il suo primo monumento dedicato allo sterminio dei Rom e dei Sinti. Finalmente! È il secondo in Europa, a memoria del Samudaripen il genocidio del “popolo di genti libere” perpetrato dai nazifascisti perché colpevole solo di non avere confini, polizie, burocrazie e di essere pacifico.Venerdì scorso a Lanciano, città medaglia d’oro alla resistenza antifascista, alla presenza del suo sindaco e del sindaco di Laterza (per l’occasione le città si sono gemellate) è stata scoperta una statua dello scultore Tonino Santeusanio che ritrae una donna rom con fra le braccia la sua creatura e con la gonna impigliata nel filo spinato nell’atto di liberarla da quella sinistra materia concepita per richiudere segregare e ferire.
Quando in Germania a Berlino furono ritrovati i sotterranei della Gestapo, in cui venivano rinchiuse le vittime dei nazisti per essere, interrogate, essere torturate e massacrate, le odierne autorità tedesche definirono quel luogo: Kontaminierte Ort, spazio contaminato. Oggi è giusto per contrasto definire Lanciano e Laterza città sacre perché con il riconoscimento a Rom e Sinti della titolarità di vittime del nazifascismo si attribuisce loro piena dignità di cittadini italiani e d’Europa, si inizia il cammino finale per cessare ogni forma di oppressione e di discriminazione nei loro confronti che infettano il nostro corpo nazionale ed europeo con la ferita purulenta dell’intolleranza e dell’odio. Il processo per arrivare alla creazione del memoriale è stato attivato dal professor Santino Alexian Spinelli, docente di cultura Romanì, musicista ed militante per i diritti ed esponente internazionale di primo piano del suo popolo, che risiede con la sua famiglia a Lanciano, da sempre impegnato nella lotta per il pieno riconoscimento dei diritti della sua gente.
Erano presenti alla manifestazione il senatore Luigi Manconi direttore dell’Unar, intellettuale che declina il suo ruolo nelle istituzioni con un diuturno impegno per i discriminati, il giornalista e scrittore Gad Lerner, Djiana Pavlovic, attrice, scrittrice e attivista, Gennaro Spinelli, padre di Santino che fu internato all’età di cinque anni, rappresentanti delle associazioni e delle istituzioni europee Rom e sinti, esponenti dell’Anpi, studenti e molti molti cittadini. Un momento particolarmente intenso e significativo è stata la lettura della lettera della senatrice a vita Liliana Segre inviata per l’occasione. Le nitide e forti parole di Liliana Segre hanno fra l’altro sottolineato il colpevole ritardo con cui il nostro paese ancora non riconosce pienamente il terribile calvario e sterminio di Rom e Sinti.
In una giornata di grande significato civile, politico e sociale per la cultura della memoria si è segnalata l’assenza delle istituzioni comunitarie ebraiche. Ho ragione di ritenere che ciò sia dovuto alla presenza di Gad Lerner e mia che siamo guardati con ostilità per le nostre prese di posizione critiche nei confronti delle politiche del governo israeliano e per il sostegno ai pieni diritti del popolo palestinese. La mia opinione, a titolo strettamente personale, è che le comunità ebraiche dovrebbero cessare di comportarsi come rappresentanze del governo d’Israele, dovrebbero astenersi dall’infangare con la ridicola e infame accusa di antisemitismo lanciata all’indirizzo di chiunque non sia in linea con Nethanyahu ed essere sempre in prima linea con gli oppressi di ogni dove.
Oggi si tiene la marcia della Pace Perugia Assisi, è un’occasione ideale per chiedere il cambio della titolazione ’giornata della memoria’ in ’giornata delle memorie’ e per chiedere la prossima attribuzione del Nobel per la pace a Rom e Sinti.

il manifesto 7.10.18
In Romania referendum contro i matrimoni gay
Romania. Ben tre milioni di cittadini hanno firmato una petizione con la richiesta di emendare la carta costituzionale


In Romania alle 07.00, ora locale (le 06.00 italiane) si sono aperte le urne per un referendum su una modifica costituzionale mirante a definire unilateralmente il matrimonio una ‘unione tra un uomo e una donna’ e non più ‘unione tra coniugi’, la definizione attualmente vigente nella costituzione romena. L’obiettivo è impedire ogni ipotesi di matrimoni gay. La consultazione è prevista per la durata di due giorni, con le urne che si chiuderanno sia oggi che domani alle 21 locali (20 italiane).
Su iniziativa di una organizzazione conservatrice, ben tre milioni di cittadini hanno firmato una petizione con la richiesta di emendare la Costituzione contro il matrimonio omosessuale. Tre milioni di firmatari che hanno avuto un peso significativo nel vuoto della crisi romena. Tanto che il referendum è stato approvato nelle scorse settimane dal Senato romeno, e successivamente la Corte costituzionale ha dato il suo via libera.
Per la validità della consultazione è richiesta una affluenza alle urne di almeno il 30%.

La Stampa 7.10.18
La sinistra orfana di Lula tenta l’argine all’ultradestra
di Emiliano Guanella


Con tutto quello che è successo negli ultimi quattro anni a Dilma e a Lula è già un miracolo se arriviamo al ballottaggio». Nessuno lo dice a voce alta, ma molti nella sinistra brasiliana lo pensano, in un’elezione che potrebbe segnare per la prima volta dal ritorno della democrazia il trionfo di un candidato di estrema destra nostalgico della dittatura militare. Data per assodata la leadership in solitaria di Jair Bolsonaro, la grande incognita del voto di oggi è se l’ex capitano dell’esercito vincerà subito o dovrà andare al ballottaggio, presumibilmente con Fernando Haddad, l’uomo scelto dagli «orfani di Lula» dopo il definitivo diniego alla partecipazione dell’ex presidente, oggi in carcere per corruzione. Tenere fino all’ultimo accesa la speranza di avere Lula candidato è stata una strategia azzeccata per recuperare voti, soprattutto nelle regioni povere del Nord-Est, fra milioni di famiglie che hanno ricevuto con i governi di sinistra assegni sociali, case ad edilizia popolare, accesso alla salute e all’educazione. Haddad era, per loro, semisconosciuto, tanto che i primi spot di campagna scherzavano sulla pronuncia corretta del suo cognome.
E se qualcuno, all’inizio, ha pensato addirittura che si trattasse del figlio biologico di Lula, al partito gliel’hanno fatto credere volentieri pur di assicurarsi quei voti. Non sono riusciti, però a catturarli tutti perché molti nel frattempo si sono spostati sull’altro candidato progressista, il socialista Ciro Gomes. Secondo gli analisti, i voti confluiranno al secondo turno contro Bolsonaro, ma non è detto che basti. Il Pt (il Partito dei lavoratori) dovrebbe riuscire a confermarsi come il primo o secondo partito in Parlamento (oggi si vota anche per il legislativo e per i governi statali) con una cinquantina di deputati. Ma il difficile inizia domani. Se andrà al ballottaggio, Haddad dovrà cambiare radicalmente strategia e puntare ad un fronte democratico contro l’autoritarismo di Bolsonaro. Se non mette da parte Lula, l’ex presidente rischia di diventare una zavorra e questo gioco di equilibrismo politico non è facile in un Brasile completamente polarizzato. Se c’è una cosa che è emersa chiaramente in questa convulsa campagna elettorale è che l’anti-«lulismo» è forte quanto, o forse ancora di più, che il «lulismo» viscerale. Buona parte degli elettori di Bolsonaro, esclusi quelli a favore delle sue posizioni razziste, militaresche e omofobe, lo appoggiano sostanzialmente perché lo considerano l’unico in grado di bloccare il fantasma del ritorno di Lula. Non c’è da stupirsi considerando che da tempo i grandi media non fanno che ripetere quanto il Pt sia stato il partito più corrotto di tutti i tempi, sulla base dell’inchiesta per la corruzione nella Petrobras.
A scuola da Bannon
Il sentimento anti-Pt nato con le manifestazioni di piazza del 2013 è cresciuto con l’impeachment di Dilma Roussef e l’arresto di Lula ed ora si è gettato nelle mani energiche di Bolsonaro. Chi pensava, come ai piani alti della potente Tv Globo, che alla fine l’avrebbe spuntata un centrodestra più moderato è rimasto deluso. Bolsonaro è arrivato a coprire un vuoto lasciato dalla politica tradizionale e ha sbaragliato tutte le carte; un miracolo politico brasiliano, sulla scia dei nuovi leader populisti globali di destra, da Trump in poi. Due mesi fa ha mandato suo figlio Eduardo da Steve Bannon in cerca di consigli preziosi per la campagna elettorale. Qualche dritta gli è stata sicuramente utile; come ha fatto Trump con la Fox News, Bolsonaro ha già scelto come canale di riferimento, la Tv Record di Edir Macedo, il boss dell’Universale del Regno di Dio, la più ricca della chiese evangeliche, con milioni di fedeli. Mercoledì Macedo gli ha dichiarato il suo appoggio, il giorno dopo Bolsonaro, convalescente dopo l’aggressione subita un mese fa, non si è presentato per ragioni mediche all’ultimo dibattito fra i candidati alla Tv Globo, ma alla stessa ora è andata in onda una sua intervista concessa ad un giornalista compiacente della Record.
Mentre la sinistra si lecca le ferite e spera di iniziare una nuova campagna, la nuova destra, spinta dalle inchieste giudiziarie e sorretta dall’alta finanza, dai militari e dalle chiese evangeliche, sente che può vincere subito. Chiudendo una partita iniziata quattro anni fa fra la piazza e le aule di giustizia.

Corriere 7.10.18
Santa sede e diplomazia
Vaticano-Cina, i dubbi Usa
di Massimo Franco


C’è un convitato di pietra al tavolo dove si è siglata l’intesa tra Vaticano e Cina: è l’America di Trump. Washington teme che l’accordo possa causare un arretramento dei diritti umani a Pechino.
Q uando il 22 settembre Cina e Santa Sede hanno firmato a Pechino un accordo storico per la nomina dei vescovi cattolici, entrambe le delegazioni sapevano che al lungo tavolo sedeva un convitato di pietra. Uno spettatore invisibile quanto ingombrante; e decisamente ostile a un atto di distensione ritenuto un arretramento sul piano dei diritti umani e della libertà religiosa: gli Stati Uniti. Si racconta che l’accelerazione impressa a settembre sia nata anche dal timore che da Washington potessero ostacolare la trattativa sul filo di lana. Sarebbe stato uno smacco sul piano interno per il presidente Xi Jinping. Per questo il ministero degli Esteri cinese avrebbe deciso di indicare una delle prime date offerte dalla Santa Sede.
D’altronde, anche Francesco e il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, avevano colto segnali che suggerivano di fare presto. In Vaticano si racconta che gli incontri riservati tra alcuni ecclesiastici impegnati nelle trattative e emissari statunitensi confermavano le forti perplessità dell’amministrazione di Donald Trump. Il 17 settembre, un articolo della Catholic News Agency aveva ricordato il ruolo dell’ex cardinale americano Theodore McCarrick, degradato dal Papa per abusi sessuali, nella diplomazia informale verso la Cina per circa vent’anni: compresa una visita nel 2016. Alla Segreteria di Stato l’hanno interpretato come un modo per delegittimare l’intesa in arrivo, proiettando sull’operazione l’ombra di un alto prelato macchiato dalla pedofilia.
In più, le critiche aspre all’accordo arrivate dal cardinale emerito di Hong Kong, Joseph Zen, hanno riproposto la frattura dolorosa tra la «Chiesa patriottica» autorizzata dal governo cinese, e quella «sotterranea» perseguitata dal regime comunista per decenni: una frattura che l’accordo mira a sanare una volta per tutte. Anche perché, in assenza dell’intesa, Pechino avrebbe continuato a nominare vescovi di suo gradimento, senza curarsi delle proteste vaticane. E si sarebbe consumato uno scisma di fatto. La presenza, per la prima volta, di due vescovi della Cina, Yang Xiaoting e Guo Jincai, al Sinodo dei giovani che si è tenuto a Roma in questi giorni, è stato un fatto storico e il segno della riconciliazione tra i «due cattolicesimi» dell’Impero di mezzo: tanto più o forse nonostante i due ecclesiastici appartengano alla Chiesa patriottica e non a quella clandestina.
Ma non ha placato le tensioni con una parte dell’episcopato e con Washington. E ha acuito il nervosismo di Taiwan, minuscolo bastione di una minoranza cattolica anticomunista ai margini della Cina di Xi Jinping, sempre più preoccupato dalla prospettiva di relazioni diplomatiche a sue spese tra Pechino e Vaticano. Il portavoce papale Gregory Burke ha insistito sul carattere pastorale dell’intesa, per spazzare via le riserve. E Francesco ha sottolineato la continuità tra la strategia di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, e la propria. Vero, eppure controverso. E non solo perché un numero speciale di Civiltà Cattolica di prossima pubblicazione esalta le intese raggiunte. Il fatto che il contenuto dell’accordo rimanga segreto lo rende sospetto; idem la sua provvisorietà, perché sembra che la durata sarà di due anni, e dunque è teoricamente reversibile. Il Vaticano lo ha accettato ugualmente, conscio dei problemi che la legittimazione del capo di una Chiesa «straniera», novità assoluta, crea nel partito comunista cinese. La tesi è che «un brutto accordo è meglio di nessun accordo».
È significativo che la delegazione vaticana sia stata prelevata all’aeroporto di Pechino, e riportata lì dopo i lavori, senza permettere un prolungamento della visita e un contatto con le diocesi in territorio cinese. «Sappiamo che dovremo combattere centimetro dopo centimetro», ammettono i protagonisti vaticani della trattativa. «Non ci permettono neanche di creare un ufficio religioso informale». E da fuori, gli Usa affidano il disappunto al silenzio ufficiale. Il rischio che intravedono è permettere al regime di Pechino di ignorare le pressioni internazionali sulla violazione dei diritti umani; e di continuare a colpire gli islamici cinesi della minoranza degli Uiguri, nell’ovest del Paese, o la comunità protestante, facendosi scudo dell’autorità morale della Santa Sede. A Washington, il mistero sul contenuto dell’intesa viene considerato un favore ai cinesi, e un’incognita per il futuro della Chiesa sotterranea. Ha colpito che Francesco, tornando dai Paesi baltici, abbia detto in aereo di avere considerato «un segnale di Dio» le lettere di solidarietà arrivategli da vescovi cinesi «patriottici» quando è scoppiato il caso di monsignor Carlo Viganò, l’ex nunzio che ha accusato il Papa di avere insabbiato gli abusi di McCarrick. A questo si aggiungono gli attacchi frontali del cardinale Zen sulla presunta «svendita» della Chiesa sotterranea. Il «partito cinese» della Santa Sede lo considera uno strumento nelle mani di quanti, negli Usa, non vogliono che l’intesa marci. In Vaticano si parla di corposi finanziamenti che avrebbe ricevuto dalla destra statunitense. In America, invece, Zen è considerato il portavoce di timori diffusi e condivisi dagli episcopati.
Insomma, anche la questione cinese promette di diventare uno degli elementi di scontro nella Chiesa di Jorge Mario Bergoglio. Eppure, qualcosa è cambiato. Un tempo, mezzo secolo fa, in Cina si distribuivano i «libretti rossi» con le massime ideologiche del comunismo di Mao Zedong. Stavolta, alla fine delle trattative, la delegazione vaticana si è vista consegnare dei sacchetti rossi con dentro un’elegante confezione di moon-cakes, i «dolci della luna» della festa di metà autunno. Ma gli otto ecclesiastici vaticani spediti a Pechino sapevano che quel gesto di gentilezza suggella un’intesa percepita come una sfida vinta ma non finita. Anche se archivia un altro detrito, forse il più pesante, della guerra fredda.

Corriere La Lettura 7.10.18
Lenin bloccato sul più bello. Il sogno americano della Russia
Storia controfattuale. Cosa sarebbe successo se la rivoluzione d’Otofe fosse fallita e l’Urss non fosse mai nata
Proponiamo tre altre ipotesi di situazioni importanti nelle quali gli eventi avrebbero potuto prendere un corso differente
di Antonio Carioti


Dimenticate Ottobre, il film del regista russo Sergej Ejzenštein, con l’epica scena dei bolscevichi che, agguerriti e disciplinati, danno l’assalto al Palazzo d’Inverno. È la sequenza che viene mostrata di solito in televisione ogni volta che si parla della rivoluzione russa, anche se non si tratta di un documento storico, ma di una pregevole finzione cinematografica.
La presa del potere da parte di Lenin a Pietrogrado, nell’autunno del 1917, non fu per nulla epica, anzi ebbe caratteri tragicomici. Le milizie bolsceviche, male armate e peggio addestrate, agirono nell’indifferenza quasi completa della popolazione, mentre banche, negozi e teatri restavano aperti. Non mosse un dito la stessa guarnigione della capitale e l’occupazione dei punti strategici avvenne senza spargimento di sangue: «Fu più simile a un cambio della guardia che a un’insurrezione», commentò il testimone oculare Nikolaj Suchanov.
Il fatto è che ormai il primo ministro Aleksandr Kerenskij, spodestato dai bolscevichi, era inviso un po’ a tutti: alle sinistre perché voleva continuare la guerra ai tedeschi con pose napoleoniche, alle destre perché aveva destituito il comandante supremo dell’esercito, Lavr Kornilov, che nutriva ambizioni golpiste.
Kerenskij lasciò Pietrogrado in giornata, sperando di trovare militari disposti a combattere per lui, ma a un certo punto la sollevazione parve bloccarsi: il governo, asserragliato nel Palazzo d’Inverno (ex dimora dello zar destituito mesi prima), non voleva arrendersi e i bolscevichi esitavano ad assalirne la sede, temendo un resistenza risoluta da parte dei cosacchi, degli allievi ufficiali e delle donne in uniforme del battaglione femminile che la presidiavano. Grande era la confusione, con gente che entrava e usciva dall’edificio, veniva arrestata, intavolava trattative, sparava. I rappresentanti dell’amministrazione cittadina cercarono anche d’improvvisare una mediazione.
In questa fase Sergio Romano colloca l’ipotesi controfattuale che costituisce il nucleo del suo libro Il giorno in cui fallì la rivoluzione (Solferino). Basta immaginare una maggiore fermezza da parte del governo, la messa in fuga o la cattura delle prime guardie rosse penetrate nel Palazzo d’Inverno. E diventa plausibile un rovesciamento dell’inerzia che fino allora aveva favorito Lenin, con la demoralizzazione e la dispersione dei suoi seguaci, il ritorno in gioco di Kornilov quale tutore armato della patria e dell’ex ministro degli Esteri liberale Pavel Miljukov come garante di un’evoluzione della Russia verso il modello occidentale, anzi verso una sorta di «sogno americano».
Lenin ebbe la fortuna di vedere i suoi avversari screditarsi uno per volta e seppe approfittarne con grande abilità: prima cadde Miljukov, poi Kornilov, poi il governo Kerenskij, quindi il Partito socialista rivoluzionario, rappresentante dei contadini. Romano ipotizza invece una coalizione di quelle forze, sulla quale i bolscevichi non sarebbero stati in grado di prevalere. Così può cambiare la storia, che ai posteri sembra scolpita nel marmo, ma è una trama sottile, sempre esposta al vento dell’imponderabile.
Ovviamente per noi è assai difficile fare congetture su che cosa sarebbe avvenuto nel Novecento senza l’Unione Sovietica e il movimento comunista internazionale. Di certo l’assetto geopolitico dell’Est europeo sarebbe stato diverso, forse più equilibrato, se la Russia non avesse concluso la pace separata con la Germania voluta da Lenin nel 1918 e avesse potuto sedersi da potenza vincitrice, benché malconcia, al tavolo della conferenza di Parigi dopo la resa dei tedeschi.
D’altronde le stesse conseguenze per l’Italia sarebbero state incalcolabili. Che indirizzo avrebbe preso il socialismo di casa nostra senza il richiamo della rivoluzione d’Ottobre? Si sarebbe imposta la dittatura fascista, se le camicie nere non avessero potuto giocare con profitto la carta della lotta al bolscevismo? Impossibile dare risposte precise, ma certo non sono interrogativi privi d’interesse.

Il Sole Domenica 7.10.18
A colloquio con Pepe Mujica. Il modello sociale dell’ex presidente dell’Uruguay
Don Chisciotte truccato da Sancho Panza
di Roberto Da Rin


Lo si vede camminare in via Tadino, a Milano, come fosse un pensionato del quartiere. Arriva all’appuntamento in blue jeans, camicia bianca e giacca azzurra, sorridente e cortese. Pepe Mujica è stato presidente, tra il 2010 e il 2015, dell’Uruguay, un piccolo Paese sudamericano di 3,2 milioni di abitanti. Un presidente con mille anime, voci e colori. Ora è un giovane di 83 anni capace di sognare, un visionario che dice cose ispirate a un mondo migliore. Parla di felicità e induce a riflettere sull’inarrestabile corsa a un consumo inutile che ci distrae dalla vita, dall’amore, dalla condivisione.
Lo fa con la saggezza di chi ha vissuto in galera una delle stagioni più bella della vita, tra i 37 e i 50 anni. Quattordici, di cui 8 in isolamento, senza poter leggere. Era membro del Movimento di liberazione nazionale dei Tupamaros negli anni in cui le dittature militari latinoamericane torturavano e annichilivano. Decine di migliaia i morti.
Pepe ne è miracolosamente sopravvissuto e avrebbe potuto, legittimamente, serbare immensi rancori. Invece no, con leggerezza e autenticità sorride della pochezza delle società contemporanee.
Ricche solo apparentemente. In verità povere. Di umanità e di emozioni, incapaci di giocare con la vita.
Un antropologo uruguayano ha definito Mujica come un Don Chisciotte travestito da Sancho Panza. A lui piace l’idea, «è incredibile! È una delle migliori definizioni che mi abbiano dato».
Nel libro Una pecora nera al potere, Pepe Mujica, la politica della gente, scritto da Andres Danza ed Ernesto Tulbovitz, edito dal Gruppo Lumi, dice di non essere «povero», ma «parsimonioso» per mantenere la sua libertà. Per farlo «occorre camminare con un bagaglio leggero». Racconta di dedicarsi alle faccende di casa, lava i piatti, fa la spesa e dona la maggior parte del suo stipendio ai poveri. Abita in una casa di tre stanze.
Presidente, il suo disegno utopico non va controcorrente rispetto al flusso che pare travolgere le nostre società ripiegate su interessi meschini ? «Ci sono due livelli, uno collettivo, in cui credo sia necessario ripensare a tutto, ai modelli economici applicati, allo smantellamento di questo capitalismo fallimentare. Il secondo livello è invece quello che afferisce alle nostre vite, alle nostre scelte. Si può avere una quota di felicità qui e ora».
Sorride Pepe, con la bonarietà di chi dice una cosa semplice e la consapevolezza che sarà recepita da pochi. «La vita è una sola e se ne va in fretta. È pensabile che ci sia gente che fa 3 ore al giorno di spostamenti per raggiungere il posto di lavoro? Qual è la follia di un sistema economico che alimenta l’usa e getta ?»
In cima ai suoi pensieri resta la politica. «Ebbene sì, è una passione, non una professione. È una necessità antropologica della specie, siamo gregari e abbiamo bisogno di vivere in società. Se diventa un mestiere abbiamo perso tutti e tutto». L’Uruguay, stretto da due giganti, Argentina e Brasile, è un piccolo Paese che spesso patisce le scelte degli altri. Presidente Mujica, il pericolo di una chimera? «Gli sviluppi culturali più importanti dell’Umanità sono avvenuti in piccole comunità: la Grecia, le città del Rinascimento e alcuni angoli dell’Asia».
Tra lui e la maggioranza dei politici vi è una distanza siderale. Estraneità. «Mi ritrovo di più con alcuni scritti politici degli anni 40 che lasciavano pensare. Quella era modernità».
La conversazione con Pepe termina con un abbraccio e i pensieri rimandano ad Albert Camus che nel suo Lo Straniero scrive che «l’inevitabile può avere una via di uscita».

Il Sole Domenica 7.10.18
Karl Kraus. Con questo autore la tradizione della satira incontra quella del sublime, dando forma a una comicità apocalittica
Fenomenologia del filosofo-scrittore
di Alfonso Berardinelli


In questa grande epoca, Karl Kraus a cura di Irene Fantappiè, Marsilio, Venezia, pagg. 101, € 12

C’è, ci sarà mai, un posto per Karl Kraus nella letteratura, nella filosofia, nella sociologia del Novecento? Saremo mai capaci di imparare qualcosa da lui in una cultura dominata dalle specializzazioni e dalle professioni? Di che cosa era professionista Kraus?
Nato in Boemia nel 1874 in una famiglia dell’agiata borghesia ebraica, coetaneo di Rilke, Hofmannsthal e Thomas Mann, vissuto a Vienna fin dalla prima infanzia, una singolare vocazione di scrittore fece di Kraus il più famoso, odiato e amato polemista e critico sociale nella capitale dell’impero austroungarico. Un giornalista nemico del giornalismo, un borghese antiborghese, uno scrittore più che raffinato ma insofferente della raffinatezza puramente estetica, un moralista ostile al moralismo e un satirico dei linguaggi culturali in un centro della cultura europea come Vienna, nella quale la crisi della civiltà e dell’umanesimo borghesi produceva nuove forme artistiche, teoriche e filosofiche: la musica atonale di Schoenberg, la psicologia del profondo di Freud e più tardi l’analisi filosofico-linguistica di Wittgenstein (ammiratore di Kraus).
Nel 1899, a venticinque anni, dopo aver rifiutato di collaborare al più importante quotidiano viennese, la «Neue Freie Presse», Kraus decide di creare il proprio personale strumento di espressione letteraria e comunicazione pubblica, «Die Fackel» («La fiaccola»), scritta quasi interamente da lui e pubblicata a sue spese grazie al sostegno della famiglia. Figlio di un commerciante della carta, Kraus divenne con la sua rivista soprattutto un critico della carta quotidianamente stampata, del giornalismo, la forma scritta più frequentata e influente del Novecento. Così influente da fargli scrivere uno dei suoi più famosi aforismi: «In principio fu la stampa, poi comparve il mondo».
Scrivendo questo modesto articolo in lode di Kraus, devo essere consapevole di tradire Kraus partecipando alla sua “neutralizzazione” e riducendolo alla misura di un luogo comune e di una leggenda ormai ovvia. Il solo modo di evitare questo è leggere Kraus rischiando di condividere quello che scrive.
In Kraus la tradizione della satira incontra quella del sublime, dando forma a una comicità apocalittica. Il Novecento di Kraus si apre così, con la commedia che si trasforma in tragedia, perché una stupidità industrialmente iperprodotta produce piccoli orrori destinati a diventare grandi orrori. La Belle Époque partorì infatti nel 1914 la Grande guerra e la mancanza di immaginazione spalancò le porte a uno sterminio bellico inimmaginabile, o meglio colpevolmente non immaginato da coloro che lo provocarono e lo esaltarono, intellettuali e scrittori compresi.
L’estrema condensazione della scrittura di Kraus, ora lampante e ora labirintica, il fluviale virtuosismo dialettico del suo stile, la passione per la purezza e l’energia linguistica, la feroce gelosia con cui difese la propria autonomia e solitudine, mostrano che una rivista come la «Fackel» era stata inventata per difendere una verità circostanziale sempre da riformulare perché sempre a rischio. L’inconfondibile creatività polemica del linguaggio e del pensiero di Kraus rivela quanto in lui pensiero e linguaggio fossero una cosa sola. Per questo parafrasare Kraus è impossibile: è un filosofo-scrittore la cui filosofia non esisterebbe senza il suo modo di scrivere. La sua saggistica è aforistica e teatrale, gestuale e vocale, espone e coinvolge di continuo come attore la persona del suo autore.
Kraus si occupava di inezie con uno spirito profetico? Lo disse lui stesso: «Il mio rispetto per le cose irrilevanti sta assumendo proporzioni gigantesche». Veniva rimproverato per i suoi attacchi personali? E allora scrisse: «Non ho mai attaccato una persona per se stessa, neppure quando la nominavo. Se nomino qualcuno è solo perché il nome esalta l’effetto plastico della satira». Sul rapporto fra arte e borghesia: «L’idea di un’opera d’arte che nutre il filisteo mi fa orrore (...) Essere digerito dal borghese mi ripugna. Ma anche restargli sullo stomaco non mi attira. La cosa migliore è non servirgli a niente». Quanto alla letteratura, può bastare questo: «Ci sono due specie di scrittori. Quelli che lo sono e quelli che non lo sono». Questi ultimi «non hanno abbastanza carattere per non scrivere».
Ogni aspetto della vita quotidiana annunciava e rivelava per Kraus l’intero destino di una società: dalla morale sessuale alla pubblicità, dalle frasi fatte all’arte come ornamento, alla retorica del bene pubblico e della “necessità storica”. Forse il suo capolavoro saggistico è il monologo in pubblico In questa grande epoca, ora tradotto per la prima volta (con testo a fronte) da Irene Fantappiè, attualmente in Italia la più assidua e ispirata studiosa di Kraus. La sua introduzione si apre con queste parole: «La guerra si capisce solo comprendendo il modo in cui se ne parla. La guerra si evita solo smettendo di parlarne nel modo in cui al momento se ne parla». È questa la chiave delle «pagine irruenti, intricate, paradossali che Kraus legge il 19 novembre 1914 al Wiener Konzerthaus e pubblica un mese dopo sulla “Fackel” come pamphlet». Annunciano l’opera che avrebbe reso celebre Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità, una irrappresentabile opera teatrale, «dramma documentario» e «allegoria apocalittica» alla cui stesura l’autore lavorò dal 1915 al 1922. Nell’ibrido genere letterario praticato da Kraus, si tratta di un testo capitale del primo Novecento, da leggere accanto e a integrazione di opere come quelle di Proust, Joyce, Kafka, Eliot, Musil... Un testo sull’autodistruzione novecentesca della civiltà europea soffocata nella stretta tra frivolezza morale e violenza della tecnica.
Kraus è stato l’originale e consapevole epigono di una grande tradizione, quella del pessimismo culturale e sociale moderno, fra critica radicale illuminista e individualismo romantico. Il suo culto ossessivo della libertà di giudizio e la sua intolleranza per la commercializzazione dell’umano hanno fatto di lui uno dei prototipi del saggismo e pamphlettismo moderni dopo Kierkegaard, Baudelaire, Léon Bloy, Oscar Wilde. «Solo Baudelaire - secondo Benjamin - ha odiato come Kraus la saturazione del buon senso e il compromesso che gli intellettuali hanno concluso con esso» per avere un ruolo. Elias Canetti, che ventenne aveva assistito entusiasta alle sue letture pubbliche, lo descrive così: «Era l’uomo più severo e più grande che vivesse a Vienna (...) La ”Fackel” era come un tribunale in cui Kraus era l’unico accusatore e l’unico giudice (...) Tutto ciò che scriveva era esatto fino all’ultima virgola (...) chi avesse voluto trovare nella “Fackel” un errore di stampa avrebbe potuto rompersi il capo per settimane».
È ancora attuale Kraus? Direi che la sua attualità è a disposizione di chi la scopre. Dall’inizio del Novecento all’inizio del Duemila sono cambiate molte cose. Ma l’incapacità di immaginare quale futuro annuncia quello che siamo e che facciamo oggi, è rimasta la stessa.

Il Sole Domenica 7.10.18
Nelson Mandela. Nei 27 anni di carcere ha scritto alla famiglia, agli amici, allo Stato: un prezioso epistolario che ci restituisce l’autentico Madiba
Militanza vergata nelle lettere
di Tommaso Munari


Per prima cosa, sgombrate la mente. Cancellate l'immagine del volto di Nelson Mandela riprodotto su miliardi di t-shirt, mug, screensaver e ogni altra superficie, reale o virtuale, colonizzata dalla cultura di massa. Cancellate soprattutto l’immagine del volto di Morgan Freeman che lo ha impersonato in uno dei film più sottilmente reazionari di Clint Eastwood (Invictus, 2009). Cancellate le parole e le melodie delle canzoni che gli hanno dedicato gli Specials, gli U2, i Simple Minds e Tracy Chapman. Cancellate perfino le varie citazioni dei suoi discorsi estrapolate dal loro contesto e degradate a slogan dai politici di turno. Cancellate, insomma, l’icona, il simbolo Nelson Mandela.
Ora aprite le sue Lettere dal carcere, curate amorevolmente da Sahm Venter, ricercatrice della Fondazione Nelson Mandela con un passato di giornalista all’Associated Press, e pubblicate contemporaneamente in undici lingue nel centenario della nascita dell’ex presidente sudafricano. Avete sotto gli occhi il ritratto più intimo e autentico dell’uomo Nelson Rolihlahla Mandela («Dalibunga» per i suoi familiari), ripulito da patine, polvere e ogni altra incrostazione posteriore.
Come sempre i documenti, e in particolare le lettere, ci riportano a una sorta di grado zero della conoscenza. È un viaggio intellettuale disintossicante e spesso necessario, soprattutto se coinvolge figure storiche divenute oggetto di un culto della personalità.
Nel caso di Mandela questo viaggio comincia nel 1962. Il giovane esponente dell’African National Congress (Anc) è appena rientrato in patria da un Grand Tour dell’Africa, nel corso del quale ha visitato i nuovi Stati indipendenti, ha raccolto fondi per la causa dell’Anc e si è sottoposto a un addestramento militare. Dopo il massacro di Sharpeville (21 marzo 1960), infatti, Mandela si è persuaso che il solo mezzo per sconfiggere il regime di apartheid sia la lotta armata. Ma il 5 agosto 1962 viene arrestato nella cittadina di Cedara e il 7 novembre condannato per aver organizzato il grande sciopero del maggio 1961 ed essere uscito dal paese senza passaporto.
È l’inizio di una prigionia lunga 10052 giorni, trascorsi per la maggior parte nel carcere di massima sicurezza di Robben Island, al largo di Città del Capo. Ventisette anni e mezzo di reclusione in cui il suo solo contatto con il mondo, a parte le rare visite consentite, sono le lettere che invia e riceve. Lettere, per inciso, contingentate, censurate e spesso neppure recapitate.
I destinatari di Mandela sono essenzialmente tre: la famiglia, gli amici, lo Stato. Al primo gruppo appartengono le lettere ai figli Kgatho, Maki, Zeni e Zindzi e alla moglie Winnie, oggetto di un amore assoluto che cresce nutrendosi dell’assenza (e che forse per questo non sopravviverà alla scarcerazione di Mandela). Ma Winnie non è solo l’adorata compagna di vita, è anche un’indomita compagna di lotta («ogni tuo più piccolo osso, ogni etto di carne e ogni goc¬cia di sangue, il tuo intero organismo è stato ottenuto da un blocco di granito», 20 giugno 1970).
Le lettere ai figli e ai numerosi nipoti, incentrate sull’importanza della scuola e dell’istruzione, fanno pensare a quelle di Gramsci ai piccoli Delio e Julik. Due padri a cui la condizione di carcerati non impedì di alternare all’affetto la predica. Ma quanta dolcezza nella severità delle parole con le quali, dopo l’arresto di Winnie, Mandela prepara le figlie Zeni e Zindzi alla vita di solitudine che le attende, stimolando in loro l’orgoglio di avere una madre che combatte per il suo popolo!
Lo Stato è impersonato, di volta in volta, dall’ufficiale in comando a Robben Island, dal commissario per le Carceri, dal ministro della Giustizia e da altre figure istituzionali che incarnano il monopolio politico della minoranza boera. Ogni lettera destinata a loro è una lezione di rigore. Esemplari quelle del 23 ottobre 1967 e del 22 aprile 1969 in cui Mandela ripercorre la propria vicenda politica, riconfermando l’adesione al nazionalismo africano d’ispirazione socialista e la legittimità del ricorso alla violenza in determinate condizioni storiche, come dimostrava persino la recente guerra anglo-boera.
Gli amici sono invece attivisti e militanti anti-apartheid come il presidente dell’Anc in esilio Oliver Tambo (a cui Mandela scrive lettere in codice indirizzandole alla moglie Adelaide), la scrittrice di origini indiane Fatima Meer (autrice della prima biografia autorizzata di Mandela) e la parlamentare progressista Helen Suzman (una delle molte donne pubbliche sudafricane celebrate in questo epistolario). È nelle lettere agli amici con cui condivide l’esperienza della militanza che emerge con maggior chiarezza un dato della vita carceraria di Mandela da lui continuamente negato: il suo essere fatalmente rivolto al passato, al ricordo, nonostante il suo spirito disponga di «potenti ali» (31 gennaio 1970).
Ma l’aspetto più affascinante di questo epistolario è senza dubbio il suo plurilinguismo. La maggioranza delle lettere è scritta in inglese, un inglese terso e preciso come una lama (tradotto in un italiano talvolta zoppicante), di cui Mandela dimostra di conoscere anche la letteratura citando a memoria versi di Shakespeare, Wordsworth e Tennyson. Alcune sono scritte in afrikaans, la lingua della minoranza bianca che il prigioniero studia per poterla utilizzare come arma contro i suoi carcerieri. Altre in xhosa, la lingua materna a cui ricorre quando deve esprimere riconoscenza e affetto. E qua e là, a seconda dei destinatari, inserisce tessere in zulu, sesotho, setswana, gujarati…
Ma è una parola in lingua xhosa a ricorrere continuamente in questo prezioso epistolario: l’intraducibile nangamso, che esprime il senso di profonda gratitudine verso una persona che ha fatto per gli altri più di quanto fosse suo dovere. Una persona, per intenderci, come Nelson Mandela.
Lettere dal carcere Nelson Mandela
a cura di Sahm Venter, traduzione
di Seba Pezzani, Il Saggiatore,
Milano, pagg. 816, € 26

Il Sole Domenica 7.10.18
I nuovi confini della conoscenza
Nel fondo dei buchi neri la risposta ai misteri dell’universo
di Gian Francesco Giudice


«Vedere un mondo in un granello di sabbia e [...] tenere l'infinito nel palmo della mano». In questi versi William Blake, il visionario poeta dell’immaginazione, sembra aver colto il senso dei moderni sviluppi in fisica delle particelle elementari. Dentro un granello di sabbia o, più precisamente, dentro lo spazio di una frazione di miliardesimo del volume occupato da un singolo protone, i fisici vedono l’intero universo. Le leggi fondamentali della natura, che stiamo scoprendo nel mondo delle particelle elementari, ci offrono la chiave per capire il comportamento dell’intero universo e ricostruirne la storia indietro nel tempo. Stiamo vivendo un’epoca emozionante, in cui studi in fisica teorica, in cosmologia, risultati di esperimenti ai collisori ad alta energia e osservazioni astronomiche convergono con lo scopo comune di comprendere i principi che regolano l’universo.
I fondamenti delle leggi naturali non sono facilmente deducibili dall’osservazione del mondo percettibile, che è dominato dalla complessità di fenomeni emergenti. Questo l’aveva capito già Galileo quando, per ricavare la legge sulla caduta dei gravi, ideò esperimenti in cui si poteva isolare l’effetto dell’attrito dell’aria. La fisica moderna deve seguire lo stesso percorso e individuare fenomeni in cui i principi primi emergono al di sopra della complessità del visibile. Questo richiede lo studio di fenomeni estremi, che avvengono nel mondo dell’infintesimamente piccolo oppure in quello dell’infinitamente grande. Per questo si costruiscono grandi acceleratori di particelle o si intraprendono straordinarie missioni astronomiche. Esiste però in natura un sistema fisico assolutamente unico per esplorare i fondamenti delle leggi naturali. Un sistema che non richiede l’osservazione del mondo microscopico o dell’intero universo, ma dove tutte le condizioni fisiche sono estreme, dando luogo a fenomeni stupefacenti. Questo sistema fisico particolarissimo è il buco nero.
Un buco nero è una regione dello spazio-tempo dove la forza di gravità è così intensa da sopraffare qualsiasi altra forza in natura e non permettere a nessuna forma di materia o radiazione di sfuggire all’esterno. L’esistenza dei buchi neri come conseguenza della relatività generale fu scoperta da Karl Schwarzschild nel 1915, pochi mesi dopo la pubblicazione della teoria di Einstein. Tuttavia, le proprietà dei buchi neri apparirono immediatamente così sconcertanti che molti fisici dubitarono della loro reale esistenza. Lo stesso Einstein era convinto che i buchi neri non potessero realizzarsi in natura e che il risultato trovato da Schwarzschild fosse un puro esercizio matematico. Ma si sbagliava: i buchi neri esistono eccome nel nostro universo e producono alcuni tra i più straordinari fenomeni in natura.
Proprio cento anni dopo la teoria di Einstein, l’esperimento statunitense LIGO (coadiuvato dalla collaborazione VIRGO, con sede in Italia) ha identificato uno scontro tra due buchi neri a una distanza di un miliardo di anni luce da noi. In quello scontro tra due colossi del cielo, in un decimo di secondo, è stata prodotta un’energia enorme, maggiore di quella emessa da tutte le stelle dell’universo messe insieme. L’energia emessa nello scontro non era in forma di luce, che non può scappare dalla morsa gravitazionale del buco nero, ma era contenuta in una distorsione dello spazio-tempo prevista dalla teoria di Einstein: le cosiddette onde gravitazionali. L’osservazione di onde gravitazionali sta rivoluzionando il modo di guardare il cielo e aprendo nuovi orizzonti nello studio delle proprietà dei buchi neri.
Non solo per gli astronomi i buchi neri sono diventati osservati speciali. Da decenni i fisici teorici hanno capito come i buchi neri siano uno strumento unico per affrontare gli enigmi sulla gravità che ancora non sappiamo risolvere. Una svolta decisiva c’è stata negli anni settanta quando Stephen Hawking dimostrò che, a causa della meccanica quantistica, i buchi neri non sono davvero neri, ma emettono radiazione. Questa fu una scoperta sensazionale perché evidenziò come le proprietà dei buchi neri sono dettate da effetti quantistici, che di solito si manifestano solo nel mondo microscopico. In nessun altro sistema fisico meglio dei buchi neri, gravità e meccanica quantistica entrano in gioco insieme, offrendoci incredibili possibilità di nuove scoperte.
I buchi neri non hanno stimolato solo la fantasia e l’immaginazione dei fisici per più di un secolo, ma hanno ispirato anche scrittori e artisti. Esistono tantissimi libri di fantascienza, film, fumetti e videogiochi in cui le stranissime proprietà dei buchi neri servono per creare storie strabilianti e situazioni sorprendenti. Il film Interstellar ne è un esempio recente. I paradossi generati dai buchi neri sono assolutamente sbalorditivi. Divorando materia intorno a loro, i buchi neri succhiano informazione dall’universo. Ma l’informazione viene distrutta all’interno del buco nero? Hawking era convinto di sì e nel 1997 fece una scommessa con il fisico John Preskill. Sette anni più tardi ammise l’errore e pagò la posta in gioco (un’enciclopedia piena di informazione). Ma dove è contenuta l’informazione all’interno del buco nero, che è quasi completamente fatto di spazio vuoto? E cosa c’è al centro del buco nero, dove gravità e meccanica quantistica necessariamente si fondono in una teoria ancora sconosciuta? I fisici teorici sono convinti che lì, nel fondo del buco nero, si celino i misteri di una legge fondamentale che regola l’universo. La migliore scommessa è continuare a esplorare.
Direttore del Dipartimento di Fisica Teorica del CERN