Corriere La Lettura 21.10.18
Incognita India sospesa tra Usa e Cina
di Danilo Taino
Non
sottovalutate le Maldive. Narendra Modi, il primo ministro indiano, non
l’ha fatto e in settembre si è guadagnato una vittoria politica che non
si aspettava. Perché, in una certa schizofrenia da globalizzazione,
l’arcipelago delle meraviglie marine ha una posizione geostrategica che
lo mette nelle mappe degli strateghi militari prima ancora che in quelle
dei vacanzieri. Può essere un vantaggio. O una maledizione.
È che
le Maldive sono sulle linee navali più importanti per il commercio
indiano, e non solo per quello. Inoltre, la loro distanza minima
dall’India (per la precisione dall’isola più meridionale dell’arcipelago
Lakshadweep, ex Laccadive), è inferiore a cento miglia marine: se una
potenza straniera piantasse una base militare lì, a Delhi correrebbero
brividi lungo la spina dorsale del governo. In effetti, l’ipotesi che
una potenza straniera mettesse le sue navi da guerra nelle Maldive era,
fino a un paio di mesi fa, concreta.
Le relazioni tra Delhi e
Malé, la capitale dell’arcipelago, sono state buone fino al 2012, quando
il primo presidente eletto nelle Maldive, Mohamed Nasheed, fu deposto
da un colpo di Stato. Il successore, Abdulla Yameen, che nel 2013 vinse
elezioni molto contestate, dichiarò a parole l’amicizia con l’India ma
in pratica spostò la collocazione politica del Paese in direzione della
Cina. Dopo la sua salita al potere, Pechino ha fatto numerosi prestiti
alle isole minori dell’arcipelago, ha firmato un trattato commerciale e
ha costruito un ponte di due chilometri tra la capitale e l’aeroporto.
Giusto per fare capire di che muscoli dispone, nell’estate del 2017 ha
anche ormeggiato in un porto dell’arcipelago una nave militare. Nel
governo di Modi, a Delhi, l’irritazione e l’allarme erano alti. E sono
diventati pressioni per intervenire direttamente quando, lo scorso
febbraio, Yameen ha decretato uno stato di emergenza e sospeso i diritti
costituzionali per 45 giorni. L’ostilità del governo di Malé nei
confronti dell’India a quel punto era palese. Modi ha avuto il sangue
freddo di non intervenire, pur considerando le Maldive nella zona
d’influenza indiana. E la pazienza ha pagato. In settembre, Yameen è
stato spazzato via alle elezioni da un’opposizione unita attorno a
Ibrahim Mohamed Solih, il quale, come primo atto, ha telefonato al
premier indiano per riaffermare l’amicizia. Il vecchio equilibrio sembra
ripristinato.
La vicenda può sembrare secondaria, lontana. In
realtà, racconta molto di quello che sta succedendo nell’Oceano Indiano,
di quella che è la strategia di espansione cinese sulle rotte che
collegano l’Asia al Canale di Suez e poi all’Europa e di come in questo
nuovo Grande Gioco asiatico l’India sia protagonista. È uno scacchiere
in cui sono in movimento diplomazie, militari, alleanze economiche. È la
regione dei monsoni, come ha scritto Robert Kaplan, nella quale si
deciderà molto del futuro ordine internazionale. Gli Stati Uniti, che a
capire la politica asiatica faticano da sempre, hanno deciso di aprire
con decisione all’India, la democrazia più popolosa del mondo, durante
l’amministrazione di George Bush junior. Barack Obama ha poi
incrementato l’attenzione e i rapporti. Donald Trump dice oggi di
adorare Narendra Modi e gli indiani. Non è sempre stato così.
Dall’indipendenza della Gran Bretagna nel 1947, Delhi ha avuto una
relazione profonda con l’Unione Sovietica: pur mettendosi alla guida del
movimento dei Non Allineati, Jawaharlal Nehru, il primo premier
dell’India indipendente, preferì il rapporto con il mondo socialista a
quello con il sistema capitalista. E l’America reciprocò: la scelta di
Washington di appoggiare, in funzione anticinese, il Pakistan annichilì
le possibilità di amicizia tra Delhi e Washington. Tutto è cambiato con
la caduta dell’Unione Sovietica: il riavvicinamento tra Stati Uniti e
India non poteva non avvenire. Oggi è diventato più importante che mai.
Il
problema è che il Grande Gioco è estremamente complicato in una fase di
scontro aperto tra Pechino e Washington. Anche per Modi. Da un lato,
Delhi osserva con una dose notevole di apprensione l’espansione che
Pechino conduce nelle sue vicinanze attraverso la Belt and Road
Initiative, la cosiddetta Nuova Via della Seta sulla quale il leader
cinese Xi Jinping ha deciso di investire mille miliardi di dollari e
molto capitale politico. Nell’Oceano Indiano la Cina sta cercando di
costruire basi logistiche strategiche. Una è l’ampliamento del porto di
Gwadar, terminal sull’Oceano del Corridoio Cina-Pakistan in costruzione.
Permetterà a una parte delle esportazioni cinesi di prendere la via del
mare senza dovere passare dagli Stretti di Malacca, a rischio
potenziale di blocco in caso di conflitto con gli Stati Uniti: Gwadar,
sulla costa pakistana, è in una posizione strategica, sulla via delle
forniture di petrolio dal Golfo Persico all’India e all’Asia. Un secondo
corridoio è previsto andare dalla Cina in Myanmar, fino a Kyaukpyu, sul
Golfo del Bengala: acque di cui Delhi è gelosissima. Pechino ha poi
acquisito la gestione per 99 anni del porto di Hambanthota, nello Sri
Lanka meridionale, isola praticamente confinante con l’India. Se avesse
messo una base logistica anche nelle Maldive, l’accerchiamento del
subcontinente indiano sarebbe stato completo.
Si tratta di
sviluppi che Delhi ha osservato con preoccupazione. La sua rivalità con
la Cina ha diverse dimensioni. I due Paesi continuano ad avere dispute
territoriali nell’India del Nord che di tanto in tanto precipitano in
scaramucce. Gli stretti rapporti tra Pechino e il Pakistan, avversario
storico di Delhi, tengono sul chi vive i governi indiani. L’espansione
cinese un po’ in tutta l’Asia e soprattutto nell’Oceano Indiano sono in
testa alla lista delle sfide di cui si occupa l’esercito di Delhi. E, in
generale, più aumenta l’influenza cinese nella regione, meno spazio c’è
per la crescita dell’influenza indiana: un gioco di rivalità tra le due
potenze.
In questo quadro, Modi ha cercato e stabilito alleanze
asiatiche, la più importante con il Giappone. Continua invece a essere
restio a entrare in un rapporto strategico pieno con Washington: le
mosse talvolta erratiche di Donald Trump sono un freno serio a una
collaborazione in funzione anticinese. L’America First del presidente
degli Stati Uniti solleva perplessità e dubbi anche a Delhi. Se da un
lato la scelta di Trump di limitare l’espansione geopolitica della Cina
va nella direzione degli interessi indiani, il governo di Modi e i suoi
strateghi si chiedono che cosa farebbe Washington se le tensioni tra
India e Cina sui confini himalayani diventassero un vero scontro, oppure
se focolai di tensione si accendessero nell’Oceano Indiano. Difficile
essere certi di un sostegno forte.
La politica commerciale della
Casa Bianca, inoltre, non sempre è vista favorevolmente a Delhi, la cui
economia per continuare a crescere ha bisogno di confini aperti. Di
recente, Trump ha sostenuto che l’India vuole un accordo bilaterale
sugli scambi con gli Stati Uniti, «per farmi felice». Ha però definito
Delhi «il re delle tariffe», per fare capire che ogni accordo sarà
costoso per gli indiani. La geopolitica prende molto spesso un posto di
seconda fila, nel mondo del presidente americano, rispetto al gusto di
una buona sfida a due, anche con Paesi amici e strategicamente
importanti.
Modi l’ha capito. L’imprevedibilità di Washington
ovviamente ha conseguenze. L’India ha annunciato che continuerà a
comprare petrolio iraniano (benché in misura minore) anche dopo che le
sanzioni americane contro Teheran entreranno in vigore in novembre. E ha
confermato l’acquisto, per 5,4 miliardi di dollari, di sistemi di
difesa S-400 dalla Russia, anch’essi soggetti a sanzioni da parte di
Washington. Trump ha detto che la sua reazione a queste due decisioni
indiane arriverà più presto di quanto si possa prevedere. Su un altro
versante, i dubbi sulla disponibilità di Washington a intervenire al
fianco dell’India in un eventuale conflitto regionale hanno spinto verso
un ammorbidimento dell’atteggiamento indiano verso Pechino. Con i
cinesi che ricambiano. Modi sa che, senza l’appoggio americano, uno
scontro diretto con la Cina lascerebbe il suo Paese a pezzi. Pechino,
che fino a poco tempo fa ignorava Delhi, la prende in maggiore
considerazione oggi che la crescita economica indiana ha superato per
dinamismo quella cinese.
Non si può dire che Modi e Xi siano
finiti uno nelle braccia dell’altro: tra i due leader, però, sono in
atto prove di disgelo sin dal loro incontro «informale» a Wuhan (Cina)
la primavera scorsa. Il Grande Gioco si svilupperà sui tempi lunghi. E
l’India è destinata ad avere un ruolo sempre maggiore. Nei palazzi del
potere di Delhi, alla Borsa di Mumbai, nelle società hi-tech di
Bangalore, il benchmark del successo è da anni il tasso di crescita
rispetto a quello della Cina. Un fatto di rivalità ancestrale.
L’orgoglio nazionale, spesso frustrato in passato, è stato massaggiato
nei giorni scorsi quando il Fondo monetario internazionale ha previsto
che la crescita indiana sarà del 7,3% nel 2018 e del 7,4% nel 2019, in
entrambi gli anni più alta di quella dell’economia cinese. Il tasso di
sviluppo, però, non ha solo un effetto sull’autostima degli indiani.
Essere la potenza più dinamica della regione ha un valore politico nei
confronti dei vicini, aiuta a tenerli legati, offre loro un interscambio
maggiore e prospettive economiche.
Se questa ottima crescita avrà
un effetto anche sugli umori degli indiani non è però certo. L’anno
prossimo si terranno le elezioni generali e una riconferma di Modi, del
suo Bjp e delle buone, anche se condizionate, relazioni con Washington
al momento è probabile ma non scontata. Non perché l’altro partito
nazionale sia tornato forte: il Congresso, di base meno aperto
all’America, candiderà Rahul Gandhi, figlio di Sonia e Rajiv, nipote di
Indira, pronipote di Nehru, continuando la storia della dinastia;
probabilmente aumenterà i consensi rispetto al disastro del 2014 ma al
momento le previsioni danno vincente l’alleanza che sostiene l’attuale
primo ministro, attorno alla maggioranza assoluta dei seggi nel Lok
Sabha, la camera bassa. A decidere il vincitore saranno i temi sociali e
le divisioni ideologiche ed etniche esaltate dal nazionalismo indù di
Modi. Le dinamiche degli equilibri regionali e globali non influiranno
in misura decisiva sul risultato. Risultato che, però, influirà sulle
dinamiche geopolitiche. Ed è bene sapere che, ultimamente, l’elettore
indiano spesso sorprende.