Corriere 8.10.18
L’anomalia italiana
La sinistra e il popolo «tradito»
di Ernesto Galli della Loggia
L’avanzata
populista-sovranista caratterizza da tempo l’intero scenario
continentale ma in Europa occidentale solo l’Italia vede un governo di
questo tipo. Solo in Italia una forte maggioranza dell’elettorato
appoggia questo orientamento.
È un caso? Non credo. È piuttosto
una conseguenza — avanzo questa ipotesi — dell’assenza specialmente a
sinistra, nel corso dell’esperienza storica repubblicana, di un partito
espressione autentica degli strati popolari, che poi qui da noi sono
stati sempre quanto mai contigui e intrecciati a una frastagliata e
vasta piccola borghesia. Espressione non solo e non tanto delle
rivendicazioni materiali di questi strati sociali ma soprattutto di un
humus culturale, di una mentalità, se vogliamo pure di certi pregiudizi,
di un linguaggio, di un semplice senso delle cose, che potessero dirsi
davvero di tono popolare. Popolare e perciò nazionale. Ci è mancato
insomma quel tipo di partito che altrove nell’Europa occidentale è stato
e continua ad essere per molti aspetti incarnato, pur tra non poche
difficoltà, dai partiti della socialdemocrazia classica in stretta
unione con le centrali sindacali.
In Italia, invece, come si sa,
al posto di un tale partito c’è stato il Partito comunista. Ora il
Partito comunista non è mai stato e non ha mai voluto essere un partito
popolare tipo il Partito laburista o la Spd tedesca.
partiti cioè
nati e in certa misura rimasti in prevalenza culturalmente e
antropologicamente popolari e nazionali (spesso guidati non a caso anche
da leader usciti dagli strati popolari). Il Partito comunista è sempre
stato una cosa diversa. Esso nacque come partito di avanguardie
rivoluzionarie perlopiù intellettuali, le quali verso il popolo come
tale e verso il suo universo nutrivano una notevole diffidenza. Nei
confronti della stessa classe operaia quelle avanguardie si ponevano in
un ruolo superiore di guida, autoassegnandosi il compito di correggere
in senso rivoluzionario la spontanea, presunta tendenza popolare alle
rivendicazioni, definite sprezzantemente «corporative» (leggi più alti
salari e migliori condizioni di vita).
Certo, il Pci di Togliatti è
poi stato un’altra cosa. Per decenni la sua storia è stata anche una
storia, e come!, di rivendicazioni «corporative». Ma fino all’ultimo,
diciamo fino a Berlinguer , c’è stata sempre nei dirigenti e nei quadri
del Pci, l’idea che in realtà quelle rivendicazioni dovessero servire a
un fine storico ben più importante: al «superamento del capitalismo»,
alla trasformazione della società, come minimo ad un grande incontro
epocale con «i cattolici». Proprio perché funzionali a un simile
obiettivo politico trascendente, le rivendicazioni «corporative»
potevano/dovevano essere, diciamo così, gestite «politicamente»: cioè
accentuate o smorzate a seconda delle circostanze in vista del fine
generale. E anche il «nazional-popolare» predicato dal Pci è stato in
grandissima parte solo una facciata per nascondere l’antioccidentalismo
filosovietico.
Le rivendicazioni «corporative», poi, furono sempre
gestite da una leadership per mezzo secolo rappresentata in grande
maggioranza da intellettuali (nella direzione del Pci le personalità di
origine operaia o popolare sono state sempre rarissime), con i gusti, le
frequentazioni, gli abiti di vita, tipici degli intellettuali (causa
non ultima, peraltro, dell’influenza esercitata da quel partito sulla
cultura italiana). In Italia perfino la Cgil è stata affidata per anni a
un raffinato intellettuale come Bruno Trentin, i cui diari testimoniano
il vero e proprio disgusto che gli destavano le pratiche quotidiane e
le vicende minute della litigiosa vita sindacale.
L’avversione
profonda del Partito comunista verso ogni elemento genuinamente
popolaresco, verso le inevitabili incoerenze, umoralità generose,
velleità e spontaneismi, spesso propri di tale elemento si è espresso in
una sua caratteristica storica precisa: nella diffidenza venata di
disprezzo che il Pci ha sempre nutrito verso la tradizione del
socialismo italiano, considerata il riassunto delle cose negative appena
dette. Diffidenza presente fin dalle origini nel dna comunista e che
non è venuta mai meno. Fino alla logica conseguenza che, quando dopo
l’89 il nome «comunista» è divenuto impresentabile, il Pci ha preferito
cambiarlo chiamandosi «di sinistra» e poi «democratico», ma dio ne
scampi, giammai socialista o socialdemocratico.
A ben vedere, poi,
neppure la Democrazia cristiana – che pure traeva origine da
un’esperienza che non aveva esitato a definirsi «popolare» (quella del
Partito fondato da don Sturzo) – ha rappresentato un’esperienza in cui
l’autentico elemento popolare italiano abbia potuto davvero riconoscersi
antropologicamente e culturalmente, non bastando certo a questo scopo
la comune fede cattolica. Non da ultimo, infine, perché anche in questo
caso come nel caso del Pci la base non ha mai avuto di fatto molta voce
in capitolo nella scelta né dei vertici né della piattaforma politica
del partito.
Dunque nel corso della prima Repubblica l’elemento
popolare-piccolo borghese è stato in realtà più che altro l’oggetto di
un vasto disciplinamento socio-ideologico ad opera dei due partiti
maggiori. Di fatto esso non ha maturato un’educazione politica fondata
in qualche misura sulla sua identità, non è stato il centro motore in
prima persona di un’esperienza politica. Molto probabilmente non poteva
essere che così a causa di motivi storici legati all’arretratezza del
Paese, ma il fatto che le cose siano andate così ha avuto l’effetto che
quando i maestri si sono allontanati dall’aula, allora la classe ha
cominciato a fare per conto proprio, con una buona dose d’improntitudine
e d’improvvisazione. E di aggressività, proprio come succede alle
scolaresche lasciate a se stesse. Ha cominciato a guardare con simpatia a
leader politici che si muovevano e parlavano come lei, che sbagliavano i
congiuntivi e indossavano la felpa al pari di lei, che ostentavano di
ragionare e mostravano di reagire come lei. Che non si vergognavano –
anzi! – di essere e soprattutto di apparire «popolo» e piccola borghesia
come lei.
Fuor di metafora, scomparsi il Partito comunista e la
Democrazia cristiana ed evaporatasi in pochi anni la loro lezione, si è
aperto nel Paese un gigantesco vuoto di direzione politico-culturale.
Nel quale il «popolo piccolo borghese» (ormai è un tutt’uno) ha avuto
modo in certo di autonomizzarsi e di prendersi quel ruolo di
protagonismo che l’antica costellazione del partitismo italiano, specie
quello di sinistra, gli aveva sostanzialmente negato e al quale non si è
mai curato di prepararlo affidandosi al più alla cooptazione dall’alto.
I
«barbari» della cui invasione qualcuno oggi parla non sono affatto
tali, dunque. In realtà essi sono stati qui con noi da sempre. Erano il
pubblico dei «nostri» comizi, gli iscritti dei «nostri» bei partiti,
quasi sempre anche i «nostri» elettori. Solo che abbiamo dimenticato di
mandarli a delle buone scuole, di impartirgli lezioni di buona politica,
di ascoltare ciò che avevano da dire, di prepararli alla vita. E così è
finita che appena ci siamo distratti loro hanno deciso di fare da soli.