Corriere 7.10.18
Santa sede e diplomazia
Vaticano-Cina, i dubbi Usa
di Massimo Franco
C’è
un convitato di pietra al tavolo dove si è siglata l’intesa tra
Vaticano e Cina: è l’America di Trump. Washington teme che l’accordo
possa causare un arretramento dei diritti umani a Pechino.
Q uando
il 22 settembre Cina e Santa Sede hanno firmato a Pechino un accordo
storico per la nomina dei vescovi cattolici, entrambe le delegazioni
sapevano che al lungo tavolo sedeva un convitato di pietra. Uno
spettatore invisibile quanto ingombrante; e decisamente ostile a un atto
di distensione ritenuto un arretramento sul piano dei diritti umani e
della libertà religiosa: gli Stati Uniti. Si racconta che
l’accelerazione impressa a settembre sia nata anche dal timore che da
Washington potessero ostacolare la trattativa sul filo di lana. Sarebbe
stato uno smacco sul piano interno per il presidente Xi Jinping. Per
questo il ministero degli Esteri cinese avrebbe deciso di indicare una
delle prime date offerte dalla Santa Sede.
D’altronde, anche
Francesco e il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, avevano
colto segnali che suggerivano di fare presto. In Vaticano si racconta
che gli incontri riservati tra alcuni ecclesiastici impegnati nelle
trattative e emissari statunitensi confermavano le forti perplessità
dell’amministrazione di Donald Trump. Il 17 settembre, un articolo della
Catholic News Agency aveva ricordato il ruolo dell’ex cardinale
americano Theodore McCarrick, degradato dal Papa per abusi sessuali,
nella diplomazia informale verso la Cina per circa vent’anni: compresa
una visita nel 2016. Alla Segreteria di Stato l’hanno interpretato come
un modo per delegittimare l’intesa in arrivo, proiettando
sull’operazione l’ombra di un alto prelato macchiato dalla pedofilia.
In
più, le critiche aspre all’accordo arrivate dal cardinale emerito di
Hong Kong, Joseph Zen, hanno riproposto la frattura dolorosa tra la
«Chiesa patriottica» autorizzata dal governo cinese, e quella
«sotterranea» perseguitata dal regime comunista per decenni: una
frattura che l’accordo mira a sanare una volta per tutte. Anche perché,
in assenza dell’intesa, Pechino avrebbe continuato a nominare vescovi di
suo gradimento, senza curarsi delle proteste vaticane. E si sarebbe
consumato uno scisma di fatto. La presenza, per la prima volta, di due
vescovi della Cina, Yang Xiaoting e Guo Jincai, al Sinodo dei giovani
che si è tenuto a Roma in questi giorni, è stato un fatto storico e il
segno della riconciliazione tra i «due cattolicesimi» dell’Impero di
mezzo: tanto più o forse nonostante i due ecclesiastici appartengano
alla Chiesa patriottica e non a quella clandestina.
Ma non ha
placato le tensioni con una parte dell’episcopato e con Washington. E ha
acuito il nervosismo di Taiwan, minuscolo bastione di una minoranza
cattolica anticomunista ai margini della Cina di Xi Jinping, sempre più
preoccupato dalla prospettiva di relazioni diplomatiche a sue spese tra
Pechino e Vaticano. Il portavoce papale Gregory Burke ha insistito sul
carattere pastorale dell’intesa, per spazzare via le riserve. E
Francesco ha sottolineato la continuità tra la strategia di Giovanni
Paolo II e di Benedetto XVI, e la propria. Vero, eppure controverso. E
non solo perché un numero speciale di Civiltà Cattolica di prossima
pubblicazione esalta le intese raggiunte. Il fatto che il contenuto
dell’accordo rimanga segreto lo rende sospetto; idem la sua
provvisorietà, perché sembra che la durata sarà di due anni, e dunque è
teoricamente reversibile. Il Vaticano lo ha accettato ugualmente,
conscio dei problemi che la legittimazione del capo di una Chiesa
«straniera», novità assoluta, crea nel partito comunista cinese. La tesi
è che «un brutto accordo è meglio di nessun accordo».
È
significativo che la delegazione vaticana sia stata prelevata
all’aeroporto di Pechino, e riportata lì dopo i lavori, senza permettere
un prolungamento della visita e un contatto con le diocesi in
territorio cinese. «Sappiamo che dovremo combattere centimetro dopo
centimetro», ammettono i protagonisti vaticani della trattativa. «Non ci
permettono neanche di creare un ufficio religioso informale». E da
fuori, gli Usa affidano il disappunto al silenzio ufficiale. Il rischio
che intravedono è permettere al regime di Pechino di ignorare le
pressioni internazionali sulla violazione dei diritti umani; e di
continuare a colpire gli islamici cinesi della minoranza degli Uiguri,
nell’ovest del Paese, o la comunità protestante, facendosi scudo
dell’autorità morale della Santa Sede. A Washington, il mistero sul
contenuto dell’intesa viene considerato un favore ai cinesi, e
un’incognita per il futuro della Chiesa sotterranea. Ha colpito che
Francesco, tornando dai Paesi baltici, abbia detto in aereo di avere
considerato «un segnale di Dio» le lettere di solidarietà arrivategli da
vescovi cinesi «patriottici» quando è scoppiato il caso di monsignor
Carlo Viganò, l’ex nunzio che ha accusato il Papa di avere insabbiato
gli abusi di McCarrick. A questo si aggiungono gli attacchi frontali del
cardinale Zen sulla presunta «svendita» della Chiesa sotterranea. Il
«partito cinese» della Santa Sede lo considera uno strumento nelle mani
di quanti, negli Usa, non vogliono che l’intesa marci. In Vaticano si
parla di corposi finanziamenti che avrebbe ricevuto dalla destra
statunitense. In America, invece, Zen è considerato il portavoce di
timori diffusi e condivisi dagli episcopati.
Insomma, anche la
questione cinese promette di diventare uno degli elementi di scontro
nella Chiesa di Jorge Mario Bergoglio. Eppure, qualcosa è cambiato. Un
tempo, mezzo secolo fa, in Cina si distribuivano i «libretti rossi» con
le massime ideologiche del comunismo di Mao Zedong. Stavolta, alla fine
delle trattative, la delegazione vaticana si è vista consegnare dei
sacchetti rossi con dentro un’elegante confezione di moon-cakes, i
«dolci della luna» della festa di metà autunno. Ma gli otto
ecclesiastici vaticani spediti a Pechino sapevano che quel gesto di
gentilezza suggella un’intesa percepita come una sfida vinta ma non
finita. Anche se archivia un altro detrito, forse il più pesante, della
guerra fredda.