mercoledì 3 ottobre 2018

Corriere 3.10.18
Decreto sicurezza
Uno strappo alle regole e le sue pericolose ricadute
di Luigi Ferrarella


I sospiri di sollievo che stanno accogliendo la versione definitiva della legge dell’ovvero, in uno dei punti qualificanti del cosiddetto «decreto sicurezza» fortemente voluto dal ministro leghista dell’Interno Matteo Salvini, rivelano l’acquiescenza con la quale ormai vengono accettati come normali, e persino quasi nemmeno più percepiti, i progressivi sbriciolamenti di mattoni dello stato di diritto, e gli ulteriori arretramenti di garanzie processuali che (come la presunzione di non colpevolezza sino a sentenza definitiva, o quantomeno sino a un primo significativo giudicato) si pensavano acquisite una volta per sempre.
Diversamente dalla prima versione, che dalla commissione di taluni reati da parte di richiedenti asilo voleva far discendere automaticamente la sospensione della domanda di protezione internazionale, ora il testo definitivo dispone che «la Commissione territoriale competente per il riconoscimento della protezione internazionale» (organo amministrativo nell’orbita del Viminale, composto da un viceprefetto, un funzionario di polizia, un rappresentante di un ente territoriale designato dalla Conferenza Stato-autonomie locali, e un delegato dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati) «provveda nell’immediatezza all’audizione dell’interessato e adotti contestuale decisione». Se sarà di diniego, determinerà l’immediato allontanamento del migrante dall’Italia, velando così di ipocrita ineffettività la pur teorica possibilità di far poi ricorso ai Tribunali italiani dall’altro capo del mondo.
La rinuncia al meccanismo di cieco automatismo, e l’esame invece caso per caso (con audizione della persona), sono certamente un passo avanti. Che però non cancella l’enormità del presupposto, che nella legge resta inalterato: e cioè il fatto che non una condanna definitiva (come avviene oggi), e neanche esclusivamente almeno una condanna di primo grado, ma già solo la semplice denuncia dello straniero alle Procure da parte delle forze dell’ordine potrà fargli rischiare di perdere la domanda di asilo per un catalogo di reati peraltro abbinato a una gassosa nozione di «pericolosità sociale»: catalogo già contemplato dalla legge in vigore in caso di verdetti definitivi, e ora ancor più ampliato dal decreto-sicurezza in maniera disomogenea, ad esempio con l’inserimento (accanto a reati gravi come violenze sessuali o traffico di droga) di un tipo di denunce tanto diffuso quanto per sua natura sempre bisognoso di verifiche come la «minaccia» o la «resistenza a pubblico ufficiale».
L’articolo 10 del decreto, infatti, vale «quando il richiedente asilo è sottoposto a procedimento penale ovvero è stato condannato anche con sentenza non definitiva». E ovvero, nelle leggi, non ha il significato esplicativo equivalente di ossia, di e cioè, ma quello disgiuntivo alternativo di oppure. Il testo del decreto dice quindi che, affinché il richiedente asilo incappi nel rischio dello stop immediato alla sua domanda legato a eventuali reati, i presupposti potranno essere due: o condanna in primo grado o sottoposizione a procedimento penale . E che dunque potrà bastare già la semplice denuncia. Il mero sospetto.
Nel decreto-Minniti si era iniziato a togliere ai richiedenti asilo il grado di appello contro i dinieghi dei giudici civili alla protezione, adesso nel decreto-Salvini si inizia a infrangere il tabù della presunzione di non colpevolezza sino a sentenza definitiva. Se le parole dei testi normativi hanno un senso, non è quindi miope il ministro dell’Interno quando ieri a Napoli vanta il decreto («Il richiedente asilo commette un reato? Immediata convocazione in Commissione, sospensione ed espulsione: questo accadrà!»): è miope chi non prende sul serio le ricadute (prima o poi anche sugli italiani) delle forzature di norme per ora sperimentate sugli stranieri.