Corriere 3.10.18
Il libro, l’elenco
E lo Stato si piegò alla razza
L’espulsione dei dipendenti pubblici ebrei nel 1938 fu la tomba del diritto
Hanno un nome gli statali ebrei buttati fuori dal lavoro nel ’38
Memoria Ottant’anni dopo, un libro di Giorgio Fabre e Annalisa Capristo con l’elenco delle persone cacciate (il Mulino)
di Gian Antonio Stella
Pace
Raffaele, usciere. Minerbi Fernando, magistrato. Haim Massimiliano,
operaio giornaliero. De Angelis Guido, vicedirettore del Tesoro.
Luzzatto Mario, archivista. Foà Giovanna, professoressa. E via così…
Hanno finalmente un nome gli ebrei che, sulla base delle leggi razziali
del 1938, furono buttati fuori dallo Stato italiano per il quale
lavoravano e nel quale credevano spesso con mal riposta devozione.
Ottant’anni hanno dovuto aspettare perché fosse loro riconosciuto il
primo dei diritti umani: la dignità di un nome. Una identità.
Quella
che i nazisti cancellarono tatuando sulla pelle dei deportati un
numero. Come quello impresso sul braccio della senatrice a vita Liliana
Segre: n. 75190.
Nomi recuperati uno ad uno, con infinita,
minuziosa, infaticabile pazienza da Annalisa Capristo e Giorgio Fabre,
che firmano Il registro. La cacciata degli ebrei dallo Stato italiano
nei protocolli della Corte dei Conti 1938-1943 (in libreria per il
Mulino dall’11 ottobre). Un volume nel quale tutti quei nomi, recuperati
appunto sui registri dei decreti di cessazione e di liquidazione di
tutti i dipendenti pubblici ebrei, «ci si fanno davanti», come scrive
Adriano Prosperi nella postfazione, «riscattati dal silenzio».
All’esterno,
scrivono i due storici, «quei grandi volumi di protocollo “in folio”
sembrano normali registri tipici dell’epoca, magari solo molto
voluminosi e poco maneggevoli. Ma basta aprirne uno e, a seguire, gli
altri, e con un colpo d’occhio viene fuori immediata la grande e cupa
sorpresa. Le pagine — molte pagine, talvolta, per intero — sono
costellate di righe rosse, in corrispondenza di alcuni dei nomi presenti
nel registro. Le righe rosse sottolineano le parole “Razza Ebraica”,
“Ebreo”, “Ebrea”».
Nomi, storie, tragedie. Come quella
dell’impiegata del ministero delle Comunicazioni Lidia Della Riccia, che
il 18 novembre di quell’autunno nero scrive, «orfana e sola», a
Vittorio Emanuele III una lettera gonfia di delusione e di sconcerto.
Dove spiega non solo di esser stata battezzata, ma di essere entrata di
ruolo con un decreto del 20 settembre 1938 e a partire dal 28 ottobre
1938. Cioè «dopo» l’inizio dell’offensiva razziale fascista: «Ero felice
di essermi assicurata (…) un posto che mi avrebbe permesso di lavorare
onestamente tutta la vita, quando le recenti disposizioni di legge in
materia di appartenenti alla razza ebraica sono venute a togliermi quel
posto così faticosamente guadagnato ed a respingermi nella miseria non
avendo io diritto, data la mia limitata anzianità di servizio, a
pensione o a indennità di alcuna specie».
E parlando di miseria la
poveretta non esagerava. Le leggi sul lavoro, spiegano gli autori della
ricerca, «spaccarono la comunità ebraica in due o addirittura in più
segmenti, per cui una piccola parte comunque rimase protetta, e un’altra
fu tremendamente impoverita». Qualcuno, in qualche modo, se la cavò.
Come Paolo Vita Finzi che aveva 21 anni di servizio, era console a
Sydney, sede disagiata per l’enorme distanza da casa, e «passò da uno
stipendio medio di 21.262 lire a 8.141 di pensione», ma «probabilmente
riuscì a vivere dignitosamente perché rimase all’estero, a Buenos
Aires». A migliaia di chilometri da Roma e dalle persecuzioni
antiebraiche in arrivo.
Molto peggio andò ad altri. Come il
commissario Guido Cammeo che, vedovo con sette figli, venne espulso
dalla polizia e dal ministero dell’Interno il 5 settembre 1938, il
giorno stesso della firma apposta dal re alla prima delle leggi
fasciste. Non vedeva l’ora, Benito Mussolini che firmò il decreto, di
buttar fuori quel funzionario con una pensione di 11.840 lire, la metà
di quanto guadagnava prima. Non vedeva l’ora.
Figlio del rabbino
di Modena, Guido Cammeo aveva agli occhi del Duce due colpe
imperdonabili. La prima: nel 1923, a dispetto del regime già al potere,
era stato assolto nel processo (aveva rifiutato l’amnistia: voleva il
giudizio in tribunale) per una sparatoria nel 1921, a Modena, in cui
erano morti otto fascisti (tra cui un ebreo, Duilio Sinigaglia) che
«intendevano assaltare la Camera del Lavoro». La seconda colpa: era
ebreo.
Reintegrato in servizio dopo l’assoluzione, per Cammeo era
«iniziato un calvario in varie prefetture d’Italia: dopo qualche tempo
che arrivava in una nuova sede, qualcuno capiva chi era e incominciava
una sarabanda contro di lui e doveva venir trasferito». L’espulsione,
corredata da un «ritocco» alle date (anche l’infamia ci tiene ai timbri
in regola), fu insomma per il Duce il coronamento di una vendetta.
Covata per anni.
«Il totale minimo dei dipendenti statali “in
pianta stabile” licenziati perché “di razza ebraica”», spiega nella
prefazione Michele Sarfatti, «fu di oltre 720. Assieme ad essi furono
estromessi coloro che avevano (anche allora) un rapporto di tipo
precario o che rientravano in situazioni normative complesse». Una
umanità di «maestre, operai della Zecca, chimici, ragionieri, professori
universitari, direttori di carceri, insegnanti di violino…» senza
differenze di classe. Tutti «collettivamente e più o meno
simultaneamente licenziati, esonerati, allontanati, espulsi, estromessi,
reietti, banditi; insomma, dissolti». Dissolti mentre, «parallelamente,
altrettanti dipendenti, nati di “razza giusta”, vennero assunti o
fecero uno scatto di carriera». Magari compiaciuti della «botta di
fortuna».
Il registro , scrive Prosperi, «non è un libro su
Mussolini o su qualcuna delle sue vittime, è un libro su come muore uno
Stato. (…) Basta sfogliare gli atti amministrativi scoperti e pubblicati
in questo volume per vedere come, pagina dopo pagina e persona dopo
persona, lo Stato cancelli la legge e faccia straccio delle regole con
le quali era costruito il reticolo di rapporti che lo costituivano».
Derubando i dissolti, a capriccio, anche delle liquidazioni e delle
pensioni cui avevano, per legge, diritto.
Questo furono allora «lo
Stato, i suoi ministeri, la sua magistratura contabile: tanti corvi dal
solenne aspetto impegnati a saccheggiare quel che spettava ai
“liquidati” sotto il segno dell’arbitrio e della prepotenza». A ottobre,
pochi giorni dopo le leggi razziali, riaprirono le scuole. Con «vuoti
fra i banchi degli allievi e nelle file del corpo docente». Eppure,
accusa Prosperi, «Non ci furono reazioni. Chi mancava era entrato
nell’ombra di percorsi privati, silenziosi e sofferti. Tra compagni e
colleghi fu pronunziata a bassa voce la parola “ebreo”. E tutto finì lì»
.