mercoledì 3 ottobre 2018

Corriere 3.10.18
Mimì Capatosta che batteva moneta «Amo più la giustizia della legalità»
La solidarietà della sua gente e il ruolo della compagna etiope, anche lei indagata
dall’inviato Goffredo Buccini


Riace (Reggio Calabria) Non affannatevi a salvarlo o a crocifiggerlo, «Mimì Capatosta» ha già confessato. Nelle intercettazioni: «Se queste leggi sono balorde io ci vado contro!». E persino nelle interviste: «Che volete? Sono innamorato più della giustizia che della legalità». Così, per merito o per colpa sua, questo paesino di mille e cinquecento anime di cui oltre quattrocento immigrati, che prima del suo pirotecnico sindaco s’era trovato sui giornali solo nel 1972 per via dei Bronzi e pareva destinato all’estinzione, è stato scaraventato sul palcoscenico del mondo quale «modello d’accoglienza alla Riace»; e adesso che il miele è diventato fiele si scopre catapultato dentro quesiti filosofici, se il diritto sia forma o sia sostanza, e domande più terrene, se il fine giustifichi sempre i mezzi. Perché, intendiamoci: se i mezzi sono apparsi ai giudici così discutibili da infliggergli ieri all’alba gli arresti domiciliari nella casa di famiglia, nessuno, nemmeno tra i suoi rari nemici, pensa che il fine di Domenico Lucano (il copyright di Mimì Capatosta è di Tiziana Barillà e del suo bel libro) sia stato men che buono.
Inno alla bontà
«Da ragazzino si toglieva la giacca per coprire chi aveva freddo», dice Pietro Zucco, che ci è cresciuto insieme e che pure gli rimproverava cattive compagnie negli ultimi tempi. Tutto, in verità, qui a Riace, un pugno di case arroccate otto chilometri sopra la famigerata statale 106, è un inno alla bontà, talmente insistito da assordare: i murales del Bene, con il Che e Peppino Impastato a braccetto; i laboratori di artigianato solidale coi tessuti e le ceramiche delle mamme migranti; i «bonus» con cui il sindaco batteva moneta come un monarca stampando i visi degli eroi antimafia su banconote da Monopoli che si cambiavano uno a uno con l’euro nelle botteghe (poi ripagate da Mimì coi contributi dello Stato); il Villaggio Globale dove i migranti hanno trovato casa riempiendo le case abbandonate dai riacesi; quei graffiti che ricordano Libano e Sudan, Etiopia ed Eritrea e le mille terre d’origine di questo nuovo popolo che adesso piange il suo protettore, già parlandone al passato.
Come Aywa che, picchiando i pugni a terra, dice che «era un padre, a Rosarno mi avevano sparato e lui mi ha salvato». Come Rosy, del Camerun, che trema: «Se finisce male lui, finiamo male noi. Lui non c’è, noi non ci siamo più». O come Chimene, che stringe il suo piccolo Gabriel febbricitante e strilla che adesso in farmacia non le danno più le medicine, ora che i bonus sono diventati carta straccia: e che le mura della repubblica del Bene sembrano vacillare. Mimì s’era inventato qualcosa, piaccia o meno. E questo qualcosa, oggi che è in disgrazia, spacca l’Italia, perché spacca l’idea stessa delle migrazioni, avendo il sindaco provato a farne una risorsa invece che un problema. A modo suo. Da capatosta, rosso da ragazzino (Lotta Continua), rosso adesso (Potere al Popolo) ma di quel rosso virato sull’evangelico che manda in bestia i teocon. Quando Salvini gli ha detto che era «uno zero», lui ha mormorato ai suoi: «Sono contento, mi sento uno zero tra gli zero del mondo».
La difesa dei fratelli
Davanti alla casa di famiglia di via Milano s’affacciano i fratelli, protettivi. Sandro, più esplicito, dice che quest’inchiesta è «tutta una caz...». Giuseppe, più diplomatico, dice che «il modello Riace è nel mirino, mio fratello ne é il simbolo. Era pure andato a farsi interrogare, è molto amareggiato. Tende a dare fiducia, è una ciminiera di idee, magari qualche sbaglio ci sta, ma l’arresto... si è giocato anche la famiglia per stare accanto agli immigrati». Non è un mistero, la moglie separata di Mimì vive lontano coi figli. E non è un mistero nemmeno che accanto a lui sia apparsa una giovane signora etiope, Lemlem Tesfahun, con lui finita sotto indagine. In paese la chiamano «la Lady», le maldicenze si spingono fino a mormorare di chissà quali sue spese disinvolte. Non è maldicenza ma atto giudiziario però il matrimonio fasullo che lei, coperta da Mimì, avrebbe fatto con suo fratello per farlo venire in Italia. Il sindaco, per amore dei suoi ultimi, s’era trasformato in sensale? «Si sposa! Il matrimonio te lo faccio immediatamente... con un cittadino italiano!», lo sentono dire nelle microspie. Un metodo? La via breve per la cittadinanza e per la salvezza, la via sicura per la dannazione di un amministratore.
E ancora la sua gente lo difende. Anche chi è danneggiato dall’utopia di quest’uomo incontenibile, che «si è inventato l’accoglienza prima degli Sprar». Anche chi sta proprio dall’altra parte. Fernando il fruttivendolo dice «sono fascista» e fa il saluto romano: «Ho tremila euro di bonus che mi devono pagare», mormora, «io davo frutta e verdura vere alle signore immigrate». Preoccupato? «No, ho fiducia nel sindaco, hanno fatto male ad arrestarlo, qualcuno mi pagherà». I bonus sono diventati carta straccia quando la prefettura ha stretto i cordoni dei finanziamenti (dopo accertamenti contraddittori sul sistema Riace). Mimì allora ha appeso la sciarpa tricolore a un chiodo del Villaggio Globale e s’è messo a fare sciopero della fame. Era agosto. Già si capiva che le cose si stavano mettendo male, i laboratori erano chiusi da un pezzo, il lavoro una mezza chimera.
Il clima cambiato
Eppure fino a sera salgono quassù ex sindaci d’ogni colore politico a portare solidarietà, sabato prossimo faranno una manifestazione. «Il clima era già cambiato con Minniti», dice Domenico Vestito, sindaco di Marina di Gioiosa finché non gli hanno sciolto il Comune per mafia, «mi aspettavo che succedesse». «In Calabria se uno fa una cosa buona arriva la ‘ndrangheta o la repressione», sbotta ribelle Ilario Ammendolia, ex sindaco di Caulonia, un figlio coinvolto nell’inchiesta: «Pure io mi aspettavo che succedesse». Tutti se l’aspettavano. Tranne Mimì, forse. «Sono un fuorilegge!», proclamava nelle intercettazioni. Ma la legge da cui si chiamava fuori, per lui, doveva valere meno dei soldi del Monopoli.