martedì 30 ottobre 2018

Corriere 30.10.18
Il rifiuto di Togliatti
Stalin gli offrì la guida del Cominform ma il segretario del Pci si tirò indietro
Una biografia di Gianluca Fiocco (Carocci) mette a fuoco le scelte più rilevantidel leader comunista. Le aperture alla Dc, i contrasti con Krusciov, la decisionedi approvare l’invasione sovietica dell’Ungheria e l’impiccagione di Imre Nagy
di Paolo Mieli


Un articolo dello scrittore Francesco Piccolo pubblicato su «la Lettura» del «Corriere della Sera» nel febbraio 2014 (intitolato Rivalutare Togliatti) ha offerto a Gianluca Fiocco lo spunto per un libro, Togliatti, il realismo della politica. Una biografia, pubblicato dall’editore Carocci. Dopo la fine dell’Urss e del Pci, scrive Fiocco, «la damnatio memoriae calata sull’intera parabola del comunismo novecentesco» ha condizionato pesantemente l’opinione nei confronti di Togliatti. Tant’è che spesso ai tempi della cosiddetta Seconda Repubblica si è levata la richiesta di eliminare intestazioni al segretario del Pci in molte vie e piazze d’Italia. Ma oggi le cose sembrano essere cambiate e quell’articolo di Piccolo scritto nel cinquantenario della sua morte ha segnato il «forse involontario» avvio di discussioni con «toni più pacati», ha contribuito a determinare un clima «più propizio a una valutazione equilibrata della sua figura e più atto a recepire le acquisizioni maturate in sede storiografica». Valutazione che rende oggi possibili giudizi più sfumati sui suoi rapporti con Gramsci, con Stalin, e sul suo intervento nella politica italiana del secondo dopoguerra. Fiocco non si propone di «rivalutare Togliatti», ma prova ad offrircene un quadro più sfaccettato. Vuole così spiegare che cosa rese possibile che al momento della sua morte (agosto 1964) gli italiani furono forse sorpresi da una manifestazione pubblica di cordoglio che non aveva precedenti. Non si è mai visto «niente di simile né a Roma né in Italia», scrisse sull’«Espresso» Manlio Cancogni: «Nemmeno per i funerali di Giuseppe Verdi».
L’autore ripercorre gli studi di Togliatti all’Università di Torino, l’incontro con Antonio Gramsci e i loro primi contrasti, l’esperienza de «L’Ordine Nuovo», la nascita nel 1921 del Pcd’I, il suo primo arresto, la vita a Mosca negli anni dell’Italia fascista. Poi il ritorno in Italia, la «svolta di Salerno», la fondazione della Repubblica, la sconfitta alle elezioni del 18 aprile 1948, l’attentato subito nel luglio di quello stesso 1948, il conflitto con il dittatore dell’Urss negli anni precedenti alla sua scomparsa (1953), la denuncia dei crimini di Stalin al XX Congresso del Pcus (1956), la reazione del Pci al primo centrosinistra (1963), la morte a Jalta e il memoriale che lasciò ai compagni (1964).
Fiocco non tace certo della compromissione di Togliatti con il regime staliniano. Ma si sofferma anche sulla sua complessità, da cui esce un’immagine più variegata. Un esempio? A fine agosto del 1950, Togliatti ebbe, com’è noto, un incidente automobilistico a Ivrea mentre stava andando in vacanza in Val d’Aosta. Batté fortemente il capo, ma in un primo tempo sembrò che si sarebbe rimesso in tempi relativamente rapidi. Ad ottobre, però, le sue condizioni di salute si aggravarono. Fu ipotizzato un ematoma o un tumore al cervello e si rese necessario un intervento d’urgenza. La vicenda, scrive Fiocco, «lasciò uno strascico di ombre e sospetti». Pietro Secchia riferì in seguito che fu lo stesso Togliatti a chiedergli di «condurre un’indagine accurata» su quel che gli era accaduto: «Un’indagine su tutti, nessuno escluso». Perché? Il sospetto era che la vettura su cui viaggiava Togliatti fosse stata sabotata e che perciò quel che era capitato ad Ivrea non fosse stato un «vero incidente». Sempre Secchia riferì che Mario Spallone, medico del segretario comunista, avanzò l’ipotesi che a danno del suo paziente fosse in corso un «avvelenamento». Fu in questo clima che Stalin invitò Togliatti a Mosca per ulteriori accertamenti clinici. Ma il capo del comunismo sovietico aveva in mente anche qualcosa d’altro.
Vediamo i fatti. Il segretario del Pci partì per Mosca il 17 dicembre. Appena giunse nella zona d’occupazione sovietica in Austria, sorprendentemente, ricevette la conferma che il progetto staliniano non si limitava alle cure mediche: il suo treno venne accolto da un picchetto d’onore e da quel momento «fu tutto un susseguirsi di attenzioni particolari, in genere riservate solo ai capi di Stato». Quando poi il convoglio entrò in territorio russo, Togliatti si accorse che «fin nelle stazioni più piccole erano in attesa soldati e delegazioni, ferme sotto la neve anche durante la notte, lì giunte per rendergli omaggio». Eccessivo per un viaggio di convalescenza di un leader pur importante qual era Togliatti. Il quale capì che cosa era stato progettato per lui appena giunse a Mosca, allorché Stalin in persona si recò a fargli visita e, dopo un brevissimo preambolo, gli propose di lasciare l’Italia e di trasferirsi a Praga per assumere la guida del Cominform. Togliatti provò a divincolarsi da quell’«offerta» e chiese che fosse convocato a Mosca un membro della segreteria del Pci il quale, sperava, avrebbe perorato la causa di una sua permanenza a Roma, ai vertici del Partito comunista italiano. Stalin ne convocò due, i più importanti: Secchia e Luigi Longo. I quali, in una riunione alla quale furono presenti anche Molotov e Malenkov, a sorpresa appoggiarono l’iniziativa del dittatore georgiano. E non avvenne solo questo. Secchia e Longo, rientrati in Italia, convocarono la direzione del Pci che quasi all’unanimità si schierò a favore del trasferimento del loro capo alla guida del Cominform. Si dissero contrari solo Umberto Terracini, Teresa Noce e Giuseppe Di Vittorio.
Togliatti fu costretto a far ricorso a tutta la sua sottigliezza per convincere Stalin a lasciarlo tornare a Roma — sia pure in via provvisoria — per affrontare le imminenti battaglie politiche (anche se probabilmente il capo del Partito comunista dell’Urss comprese però che la sua iniziativa era andata definitivamente in fumo). E Togliatti poté rientrare in Italia. La sua partenza da Mosca, racconta Fiocco, «avvenne di notte in una stazione ferroviaria deserta: nessun dirigente sovietico si recò a salutarlo e non vi fu neppure l’ombra degli onori ricevuti nel viaggio di andata». Passando per Praga, Togliatti ebbe un rapido incontro con Rudolf Slansky, il leader politico che di lì a breve sarebbe stato condannato a morte.
Tornato a casa, il segretario del Pci affrontò la preparazione dei lavori in vista del VII Congresso del suo partito che si sarebbe tenuto nell’aprile del 1951. E lo fece in maniera imprevista: andò a presiedere il congresso della federazione comunista milanese «roccaforte operaista», scrive Fiocco, «dove le idee del partito nuovo non erano penetrate a fondo come in altri luoghi». Il clima della guerra fredda e le dure vertenze sindacali avevano provocato negli anni recenti un irrigidimento rispetto alle aperture del dopoguerra «determinando una vita di partito abbastanza ripiegata al proprio interno e concentrata sui problemi della resistenza organizzativa nella fabbrica». Al termine dei lavori, Togliatti pronunciò un discorso che era «agli antipodi di questa prospettiva». Prevedendo, forse, che avrebbe provocato un certo clamore annunciò la disponibilità dei comunisti a «cessare la loro opposizione», se si fosse formato un «governo di pace, non più prono agli interessi dell’imperialismo americano». Il Pci, «cosciente dei limiti imposti dalla situazione internazionale, non avrebbe preteso di far parte di un simile governo, ma avrebbe sostenuto responsabilmente le misure atte a marcare l’indipendenza del Paese».
Parole sorprendenti, ancorché in qualche sintonia con le più recenti dichiarazioni staliniane che prospettavano la «non inevitabilità» di un nuovo conflitto mondiale. Sorprendenti perché non c’era in Italia nessun segnale che la Democrazia cristiana, forte del voto plebiscitario ottenuto il 18 aprile del 1948, potesse accingersi a dar vita ad un esecutivo come quello prospettato dal leader comunista. Tanto più nel periodo storico in cui era in corso la guerra di Corea (1950-1953), che quasi tutti ritenevano potesse degenerare in un terzo conflitto mondiale, che avrebbe opposto il «mondo libero» a quello comunista. È più probabile che Togliatti, con quel discorso di Milano, volesse mandare un segnale all’ampio settore post resistenziale del proprio partito che ancora si dedicava, segretamente, a costruire una prospettiva insurrezionale e rivoluzionaria.
Togliatti fu di nuovo a Mosca a febbraio del 1956 per il XX congresso del Pcus, quello in cui Krusciov avrebbe fatto a pezzi la figura di Stalin (morto tre anni prima). Tornò nella capitale dell’Urss, scrive Fiocco, «con il carico dei suoi ricordi e provò come un tempo l’insofferenza per gli eccessivi controlli». Rifiutò di «stare in una villetta a parte — trattamento che per il suo rango gli sarebbe spettato — per socializzare e subire una sorveglianza meno oppressiva». Nei discorsi iniziali delle assise si parlò genericamente di violazioni commesse da «una certa personalità». Ma tutti compresero chi fosse quella «personalità». Vittorio Vidali chiese allora al segretario del Pci fino a che punto i sovietici si sarebbero spinti nella critica a Stalin e lui rispose che a suo avviso «non lo avrebbero liquidato, non vi sarebbe stato uno screditamento totale della sua figura». Sbagliava. Nel «rapporto segreto» Stalin venne descritto come un «paranoico responsabile di tragedie inenarrabili, dall’uccisione di tanti innocenti al tempo delle grandi purghe agli errori strategici commessi all’epoca dell’aggressione hitleriana». Quel documento venne mostrato di notte a Togliatti mentre era in albergo: «Ne poté prendere visione senza trattenerne una copia, con la consegna di non rivelarne l’esistenza».
Tornato a Roma, mentre sui giornali «borghesi» uscivano le prime indiscrezioni sulle denunce di Krusciov, Togliatti non diede ai dirigenti del Pci ragguagli circostanziati. Entrò in dettaglio con Tito registrando come anche il leader jugoslavo fosse rimasto perplesso circa la mancata indicazione di quel che nel sistema sovietico aveva reso possibile che si sviluppasse il «culto della personalità». Ancora più severo il giudizio del capo dei comunisti francesi Maurice Thorez, che volle incontrare Togliatti per esprimergli il proprio sdegno: «Quanto fango quel Krusciov ha fatto ricadere su tutti noi! Con le sue rivelazioni ha sporcato un passato luminoso, splendente, eroico. Una bella porcheria non c’è che dire». Il capo dei comunisti francesi non riuscì però a convincere il leader del Pci a rendere pubblica questa presa di distanze. Quando poi, il 4 giugno, il «New York Times», pubblicò il testo integrale del «rapporto segreto», Togliatti reagì con un’intervista a «Nuovi Argomenti» in cui riconosceva i misfatti imputati a Stalin, ma bocciava la teoria del «culto della personalità»: «Prima, tutto il bene era dovuto alle sovrumane qualità positive di un uomo, ora tutto il male viene attribuito agli altrettanto eccezionali e persino sbalorditivi suoi difetti», protestò. Nelle settimane successive disse che quei mali erano riconducibili ad una «degenerazione burocratica» del sistema sovietico. I dirigenti del Pcus gli rimproverarono di aver fatto ricorso ad una «formulazione trotskista».
Su queste tensioni, in autunno si innestarono nei Paesi dell’Europa dell’Est due vicende di insubordinazione all’Urss: la prima in Polonia, la seconda in Ungheria. In entrambe Togliatti si schierò inizialmente dalla parte degli innovatori. In Polonia le cose si risolsero con l’arrivo al potere del «riformatore» Wladyslaw Gomulka. In Ungheria l’ascesa di Imre Nagy — che avrebbe dovuto essere il Gomulka di Budapest — provocò invece due interventi armati dell’Urss che spinsero il Pci a schierarsi, dopo molte lacerazioni interne, dalla parte di Mosca. Ma, nonostante ciò, i rapporti con Krusciov rimasero gelidi e il Partito comunista dell’Urss cercò ulteriormente di isolare quello italiano che si batteva per una propria autonomia. Nagy, imprigionato in Romania nel gennaio del 1957, cercò di ottenere il sostegno di Togliatti a favore di una «commissione internazionale d’inchiesta» formata dai «rappresentanti dei partiti fratelli». Commissione che avrebbe dovuto appurare ciò che era accaduto davvero in Ungheria. Evidentemente Nagy riteneva di poter fare affidamento su Togliatti. Ma questi neanche gli rispose. L’anno successivo Nagy fu impiccato e Togliatti in una Tribuna politica del 28 giugno 1961 sostenne che la sentenza era stata «giusta» dal momento che Nagy aveva «commesso dei delitti». Togliatti sarebbe poi morto a Jalta nell’agosto del 1964. Poche settimane dopo in quello stesso anno Krusciov sarebbe stato destituito.

Corriere 30.10.18
Un protagonista della battaglia contro l’alleanza occidentale

L a biografia più ampia del leader comunista è Palmiro Togliatti di Aldo Agosti (Utet, 1996). Molto più critico verso il segretario del Pci il saggio di Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky Togliatti e Stalin (il Mulino), la cui edizione più aggiornata è del 2007. Pionieristici, ma sempre validi, i libri di Renato Mieli Togliatti 1937 (Rizzoli, 1964) e Giorgio Bocca Palmiro Togliatti (Laterza, 1973). Dedica ampio spazio all’opera di Togliatti dopo il 1943 il saggio appena uscito di Giuseppe Vacca L’Italia contesa (Marsilio, pagine 346, e 19). Sottolinea l’asprezza dei contrasti fra Togliatti e Antonio Gramsci il libro di Mauro Canali Il tradimento (Marsilio, 2013). Da ricordare anche la raccolta di saggi Le ceneri di Togliatti, a cura di Mario Baccianini (Lucarini, 1991).

La Stampa 30.10.18
Sul set di Buscetta
Favino è il boss pentito per Marco Bellocchio: “Un’esperienza totale”
di Fulvia Caprara


Nell’aula bunker di Rebibbia le parole che hanno fatto la storia di Cosa Nostra risuonano dure e gravi, come se nella ricostruzione cinematografica acquistassero quell’aura shakespeariana che le cronache dell’epoca non potevano restituire: «Pensavo di ascoltare il ruggito dei leoni - tuona il super-pentito Tommaso Buscetta interpretato da Pierfrancesco Favino - e invece ho sentito lo squittio dei topi». Un fremito attraversa l’aula del processo, i banchi pieni di spettatori, gli imputati aggrappati alle sbarre delle gabbie, i magistrati che con tenacia paziente conducono i confronti: «Io non ti odio - prosegue Buscetta - se ti odiassi ti farei un favore».
I bersagli dei suoi strali si avvicendano nelle deposizioni, ci sono Totò Riina (Nicola Calì) e Salvatore Cangemi (Ludovico Caldarera) che rievoca l’uccisione dei figli del pentito, di Benedetto in particolare, «quello che più di tutti somigliava nella faccia a Buscetta».
Sul set blindato del nuovo film di Marco Bellocchio Il traditore va in scena il dramma, eterno e universale, che lacera gli ex compagni di strada divenuti acerrimi nemici, gli ex-complici trasformati in avversari: «Tradire - dice Bellocchio - è quasi auspicabile. Significa rifiutare il proprio passato, i temi e i valori della propria educazione. Non è obbligatorio, ma a me è successo, e quindi il tradimento è qualcosa che riguarda la mia vita».
“Le mie rivoluzioni”
In una pausa della lavorazione, davanti a un monitor e a un piatto di carta, Bellocchio svela il nodo di un film che ha che vedere con i suoi personali bilanci: «Sono passato attraverso almeno tre rivoluzioni, anzi quattro. Ho rifiutato la mia educazione cattolica, tradendo mia madre e un certo tipo di formazione. Ho lasciato una certa ideologia comunista. Ho scelto l’analisi collettiva e il pensiero di Massimo Fagioli, per poi tornare in un’altra forma di contesto, e infatti adesso i fagioliani mi considerano un traditore. E poi dovrei includere i tradimenti sentimentali». Al centro del Traditore, aggiunge Bellocchio, c’è «il percorso individuale di un personaggio, un uomo che vediamo giovane e che seguiamo fino alla morte, e in cui non riusciamo a capire bene, se non alla conclusione del percorso, che tipo di tracce abbia lasciato l’esercizio del tradimento».
Le trasformazioni fisiche
Per questo la ricostruzione minuziosa dell’epopea di Tommaso Buscetta, di una figura che ha segnato la storia del Paese trasformandone una fase in un faccia a faccia, teatrale e agghiacciante, tra Bene e Male, riguarda come è nella tradizione dell’autore le ragioni e non solo i fatti, le anime e non solo i personaggi: «Per me - dice Favino - questa è la storia di una persona che, proprio come fa un attore, ha voluto credere ogni volta di essere ciò che diventava».
Della vicenda di Buscetta sono parte integrante le trasformazioni fisiche, le plastiche facciali dettate dalla necessità di rendersi irriconoscibile per scampare alla vendetta dei killer mafiosi: «Ha cercato in tutti i modi di cambiare i suoi connotati, è mutato talmente tanto da arrivare a tradire anche il proprio aspetto fisico». Nei panni di Buscetta, con il blazer blu e gli occhiali scuri sempre a portata di mano, Favino acquista un’aria insolitamente minacciosa: «Ho studiato, mi sono preparato e documentato, ma su Buscetta non c’è molto e, soprattutto, c’è solo quello che lui ha voluto che noi vedessimo».
Le riprese del film, prodotto da Ibc Movie e Kavac Film con Rai Cinema, si sono svolte in Sicilia e proseguiranno in Gran Bretagna e in Brasile: «Sto vivendo un’esperienza totalizzante. Desideravo moltissimo lavorare con Marco Bellocchio, è un regista che non dà mai per scontato quello che un attore può portare al suo ruolo, una persona che ascolta, e io mi sento al suo servizio».
Un’Italia lontana
Sul set, nei panni del capo della scorta di Buscetta, recita Piergiorgio Bellocchio che, all’epoca dell’attentato di Capaci, aveva 18 anni: «Nel film c’è un’Italia che appare lontana, al confronto quella di oggi risulta deludente. Allora, magistrati come Giovanni Falcone erano saldi punti di riferimento. Le figure istituzionali del nostro presente generano, invece, un senso di confusione, dicono e poi si contraddicono. Così i piani si confondono, e diventa difficile spiegare la realtà ai più giovani».

La Stampa 30.10.18
Così ho prestato occhi e orecchie al regista per fargli conoscere la malattia della “mafiosità”
di Francesco La Licata


Tommaso Buscetta, nel corso della sua lunga e controversa esistenza mediatica, ha quasi sempre ricoperto il ruolo di protagonista o, comunque, personaggio di primo piano. Anche quando è stato egli stesso a cercare l’inganno del basso profilo («Sono solo un soldato semplice») per stornare l’attenzione da sé. Anzi, proprio l’essere considerato un leader pur non indossando i panni ufficiali del capo, ha contribuito all’affermazione del suo mito.
È stato definito il boss dei due mondi, ma anche il principe dei pentiti: due appellativi antitetici per definizione, ma ben conviventi in quell’unico, indimenticabile personaggio immortalato nell’aula bunker di Palermo mentre fa il delatore riuscendo però a mantenere «dignità mafiosa» e ottenendo il rispetto (il silenzio degli imputati) di quelli che aveva appena «tradito».
Marco Bellocchio, tuttavia, non ha voluto limitarsi al racconto di un’epopea (qual è stata la vicenda del maxiprocesso e dello stesso Buscetta), né si è accontentato di affrontare «la storia di don Masino». Il regista ha voluto immergersi dentro la mente, dentro la psiche, dentro i sentimenti di un uomo difficile, alla ricerca dell’origine di un percorso che - attraversando tutte le debolezze e le contraddizioni umane - trasformerà il prototipo di un mafioso in un «traditore» che viola la principale legge di Cosa nostra (l’omertà) e ribalta l’accusa in direzione del grande nemico Totò Riina, a cui contesta di aver, lui sì, tradito le regole di Cosa nostra - Buscetta direbbe ideali - abbandonando ogni parvenza di umanità.
Ha dovuto faticare parecchio, il regista, per entrare (lui così geograficamente lontano dalla Sicilia) nel groviglio di Buscetta. Lo ha fatto servendosi di occhi e orecchie (tra cui quelli del sottoscritto) presenti all’epoca dei fatti, come direbbero i giudici del «Maxi». È andato più volte a Palermo, ha letto atti giudiziari, ha visionato ore di repertorio della «mattanza» siciliana e del «processone». Ha cercato l’origine della malattia, di quella che Giovanni Falcone chiamava «mafiosità», cosa diversa dalla mafia facilmente contrastabile con la forza militare.
Di ben altra forza, invece, necessita la lotta alla mafiosità, subdola, indefinibile, impalpabile. Gesualdo Bufalino diceva che contro quella malattia non bastano divise e cannoni ma servono di più eserciti di maestri elementari. Bellocchio si è immerso in questo magma, cercando di identificarlo non tanto attraverso la sociologia. Il suo viaggio è stato di altra natura. Ha guardato alla testa e al cuore dei personaggi, ai rapporti familiari, all’amore materno, alle tradizioni, alla religione, alle ossessioni, agli incubi di uomini perduti.
Tutto questo ha cercato nel «traditore Buscetta», perché tutto questo si nascondeva nell’anima del pentito. Mafioso perdente fino a dover assistere alla strage dei propri figli, maledetto dalla sorella quando si pente e provoca altri lutti. Eppure, alla fine, troverà la sua piccola vittoria (la fine di Riina) alleandosi con Falcone, colui che per natura avrebbe dovuto essere il suo peggior nemico.

La Stampa 30.10.18
Sos depressione: troppi ne soffrono ma pochi lo sanno
di Nicla Panciera


Dopo aver rapidamente percorso tutte le tappe, Luca R., 55 anni, è quasi all’apice della carriera, ma, quando gli viene offerta un’ultima promozione, rifiuta. Poi, costretto ad accettare, d’improvviso non riesce più a lavorare. Irene G., 85 anni, ex impiegata, ha perso il marito e ora sembra un’altra donna. È irriconoscibile.
La depressione colpisce tutti: dai giovani agli anziani, dopo un lutto o dopo grandi successi. E soprattutto le donne. Chi ne soffre «non si sente inserito nel mondo. La percezione è quella di uno spettatore», confessa una paziente. Un senso di estraneità che non passa, un’apatia devastante e logorante. Eppure, si può uscire dal tunnel.
È questo il messaggio della Società Italiana di Psichiatria, la Sip, riunita a Torino. «La depressione, ancora oggetto di stigma, è spesso negata da chi ne soffre o confusa con stati d’animo passeggeri - spiega Bernardo Carpiniello, presidente della Sip e direttore della psichiatria dell’Università di Cagliari - ma ha pesanti ripercussioni sul piano personale, affettivo-familiare, socio-relazionale e lavorativo, tanto da essere la principale causa di assenteismo al mondo». E dell’80% dei suicidi.
Emergenza globale. Secondo l’Oms, i disturbi mentali, che in Italia colpiscono 17 milioni di persone, sono destinati a superare per incidenza le malattie cardiovascolari, oggi al primo posto. Le depressioni sono le più diffuse e nel nostro Paese sono cresciute del 20% e sono in aumento anche i disturbi d’ansia e i disturbi bipolari. La psichiatria, intanto, entra nell’era della medicina di precisione, con nuove molecole di elevata efficacia terapeutica e una maggiore attenzione alla vulnerabilità di ciascuno così come ai tratti caratteriali e di personalità.
Vuoto di trattamento. Solo il 27% delle persone affette da depressione maggiore nei Paesi ad altro reddito riceve un trattamento adeguato e la percentuale, in Italia, scende al 17%. «Da una parte, non la si percepisce come patologia, ma è ancora confusa con uno stato passeggero di melanconia - spiega Bernardo Carpiniello - e, dall’altra, quando anche si capisce di avere un problema, spesso non si ricevono le cure adatte».
Non solo farmaci. Le psicoterapie aiutano e possono sostituirsi o affiancarsi alle terapie farmacologiche, facendo un lavoro tecnico di sostegno emotivo e di «counseling». «I criteri internazionali prevedono un approccio psicoterapeutico per le forme lievi e sottosoglia - aggiunge Carpiniello -. I casi complessi e cronici, invece, necessitano di un trattamento integrato». Ma come orientarsi tra le varie scuole? «Non è facile, sono un centinaio, però ci sono studi che ne valutano l’efficacia e gli psichiatri possono consigliare. Le terapie cognitivo-comportamentali, per esempio, sono efficaci, abbiamo invece dati meno robusti sulle psicodinamiche brevi».
Le patologie correlate. Spesso si pensa che una malattia dolorosa, invalidante o cronica esponga chi ne soffra al rischio di depressione. Questo è vero, ma vale anche l’inverso: la depressione colpisce l’intero organismo, sottolinea Claudio Mencacci in «Viaggio nella depressione. Esplorarne i confini per riconoscerla e affrontarla» scritto con la giornalista Paola Scaccabarozzi e uscito per Franco Angeli. La depressione aumenta il rischio di malattie cardiovascolari e triplica la probabilità di infarto e, quando è presente, peggiora tutte le condizioni: aumenta di 3-4 volte la mortalità a distanza di 6 mesi da un infarto e raddoppia il rischio di mortalità per complicanze dopo un ictus. Tutto ciò ha a che fare con l’infiammazione e le alterazioni dell’organismo, dice Mencacci: «Aumento del cortisolo, iperattività dell’asse talamo-ipofisario- surrene, ma anche effetti sul sistema immunitario, sull’aggregazione piastrinica, sulla funzione endoteliale e a livello della tiroide».
Intervenire subito. Per evitare questa pericolosa progressione ci vogliono diagnosi precoce e intervento tempestivo. Se non trattata, infatti, la depressione può andare incontro a una remissione dei sintomi spontanea, ma temporanea. Poi ricompare. Perché, «dopo due episodi di ricaduta, la probabilità che se ne ripresenti una terza è del 90% e a quel punto la patologia è cronicizzata e le armi in nostro possesso sono indebolite e la prognosi aggravata», aggiunge Carpiniello.
Gli psichiatri fanno anche un mea culpa: «Dobbiamo spiegare gli effetti collaterali dei farmaci per evitare sospensioni e fai-da-te che si traducono in un fallimento della cura - dice il presidente eletto della Sip Enrico Zanalda, direttore del dipartimento di salute mentale dell’Asl To3 -. Bisogna addestrare il paziente a riconoscere i campanelli di allarme e aiutarlo a conoscersi».

il manifesto 30.10.18
Brasile choc, Bolsonaro presidente. L’estrema destra si insedia al Planalto
La rimonta non basta. Alla fine hanno prevalso l’odio per il partito di Lula e il non voto, un misto di disincanto e indifferenza. Haddad staccato di circa 10 milioni di voti. Le contraddizioni di un Paese spaccato in tre: Psl, Pt e astensione
di Ariadna Dacil Lanza

RIO DE JANEIRO Previsioni confermate, Jair Messias Bolsonaro del Partito social liberale (Psl) il primo gennaio prossimo assumerà la carica di presidente del Brasile. Più di 57 milioni di elettori hanno deciso così.
All’ex militare sono andati il 55,13% dei voti, mentre il candidato del Partito dei lavoratori (Pt) Fernando Haddad si è fermato al 44,87%, ovvero poco più di 47 milioni di voti. La giornata elettorale ha visto anche l’elezione di 14 governatori. Gli altri 13 erano già stati definiti al primo turno lo scorso 8 ottobre. Gli stati più rilevanti non sono andati a nessuno dei due partiti che si sono disputati il secondo turno presidenziale.
NEL GIORNO DEL VOTO, percorrendo le strade di Rio e conversando con le persone non era difficile far emergere i molteplici punti di vista sul Brasile di oggi e sul significato del sostegno a un candidato piuttosto che a un altro.
Di Rio de Janeiro tutti «dicono che è bella ma violenta». I suoi abitanti, indipendentemente dal colore politico, avvertono che «bisogna stare attenti». Non tutti mettono in relazione il fenomeno della violenza con ciò che si vede nelle strade e il fenomeno dilagante dei senzatetto che dormono dove possono.
Montero un lavoro e un tetto ce l’ha. 32 anni, studia e viaggia in treno ogni giorno per più di un’ora per andare a lavorare come cameriere. Dice che in Brasile «non c’è stata dittatura militare, c’è stato un periodo militare, che è un’altra cosa, perché non abbiamo avuto un dittatore» ed è convinto che i diritti del lavoro «sono stati favoriti dai militari». Un altro mantra che ripetono tutti i sostenitori di Bolsonaro è che «lui non è perfetto, ma è necessario un cambiamento». Montero crede che se Bolsonaro «sbaglierà come è accaduto con il Pt, dopo quattro anni lo si potrà cambiare».
LEONARDO È UN POLIZIOTTO dell’esercito, oggi impiegato in compiti “burocratici”, dice che gli piaceva il primo governo Lula, che quello di Dilma Rousseff per niente ma che il suo errore è stato permettere che altri rubassero nonostante lei non fosse coinvolta, e di essere stata manipolata. Ma l’argomentazione finisce nella direzione opposta. Leonardo vota Bolsonaro. Ma riconosce che uno dei problemi del candidato è «che parla come potremmo farlo noi in un bar» e crede sia giusto favorire una riforma pensionista, ma anche difendere i diritti del lavoro.
Due donne, una delle due già con i capelli bianchi, camminano con due adolescenti vestiti di rosso, con magliette piene di adesivi circolari della lista 13 di Fernando Haddad e Manuela D’Avila. Una ha croce e martello. Tutti hanno dei libri in mano. Eduardo Galeano, José Saramago e Paulo Freire.
Un altro gruppo di quattro donne e un uomo camminano a un isolato di distanza. Anche loro con libri e un colore rosso dominante. Emir Sader, Leonel Brizola e nuovamente Galeano. Docenti, commercianti, una giornalista e un medico. «Crediamo nelle politiche di redistribuzione e nell’uguaglianza sociale» dicono sorridendo.
foto di Gianluigi Gurgigno
Queste testimonianze però non raccontano tutto. Va infatti menzionato il peso, molto influente, di coloro che hanno deciso di fare un passo a lato. Il voto nullo o la scheda bianca sono state la scelta di oltre 11 milioni di elettori, e le astensioni hanno superato ancora una volta i 30 milioni.
foto di Gianluigi Gurgigno
I numeri parlano di una società frammentata in tre parti. Tra i due poli, giallo Psl e rosso Pt, ce n’è un terzo, nel quale il disincanto si mescola all’indifferenza.
L’UOMO DI ESTREMA DESTRA che assumerà il comando del Palacio del Planalto, così come aveva fatto al mattino, quando recandosi a votare aveva ignorato i giornalisti, ha deciso di chiudere la giornata senza indire una conferenza stampa. Ha continuato, come ha fatto in tutta la campagna elettorale, a rifugiarsi nella sua convalescenza (dopo l’aggressione di cui è rimasto vittima in piena campagna) e nell’argomentazione che i mezzi di comunicazione distorcono le sue parole.
In uno dei tre messaggi diffusi dopo la vittoria elettorale, un video nel quale appare al fianco della terza moglie e dell’interprete della lingua dei segni nella sua casa a Barra da Tijuca, Bolsonaro ha detto di aver ricevuto una telefonata di Donald Trump. «Mi ha augurato buona fortuna il presidente degli Stati Uniti», ha detto il neo presidente eletto.
ANCHE MATTEO SALVINI, tra gli altri, non si è fatto attendere. Via Twitter, ovviamente. Una sua foto con il pollice verso l’alto ne affianca una di Bolsonaro: «Anche in Brasile i cittadini hanno mandato a casa la sinistra!». Subito dopo gli auguri di rito, Salvini evoca la cosa che sembra stargli a cuore più di ogni altra, l’estradizione di Cesare Battisti: «E dopo anni di chiacchiere, chiederò che ci rimandino in Italia il terrorista rosso Battisti».
In questo senso Bolsonaro durante la sua campagna era stato più che rassicurante, riaffermando il suo «impegno a estradare immediatamente, in caso di vittoria, il terrorista Cesare Battisti, tanto amato dalla sinistra brasiliana. Ma l’avvocato dell’ex militante dei Pac, Igor Sant’Anna Tamasauskas, assicura che «Cesare Battisti lotterà per restare in Brasile. Il Presidente della Repubblica, chiunque esso sia, deve rispettare la decisione del Supremo Tribunal Federal (Stf) che impedisce qualunque atto contro Cesare Battisti fino a quando non ci sarà una decisione definitiva in merito».
MA LA GIUSTIZIA IN BRASILE sembra essere minacciata dal clan Bolsonaro. Eduardo, uno dei figli dell’ex militare, con quasi 2 milioni di voti si è consacrato alle elezioni dello corso 7 ottobre come il deputato federale più votato nella storia del Brasile. Giorni fa aveva affermato l’esistenza di una «disputa di forze» tra il potere giuridico e le Forze Armate: «Se si volesse chiudere il Tribunale Federale Superiore non ci sarebbe bisogno nemmeno di una jeep, basterebbero – non me ne vogliano – un soldato e un caporale».
NELLA VITA REALE, la retorica del rispetto, dell’Ordem e Progreso, tanto invocata dai settori reazionari brasiliani, è molto più palpabile di quanto non sembri dalle narrazioni sui social. Davanti alla casa del presidente neoeletto, poco dopo le 21, i festeggiamenti vanno poco a poco diminuendo. Incontro Vanessa che sta festeggiando con musica e un bicchiere in mano, una giovane ragazza afrodiscendente con indosso una maglietta che dice: «Negra con Bolsonaro». È la perfetta sintesi delle contraddizioni che hanno caratterizzato la vittoria del candidato del Psl: «Lui rispecchia il 90% dei miei desideri». Cioè quali? «L’unione del popolo e l’idea che la popolazione debba essere armata».
traduzione di Gianluigi Gurgigno

La Stampa 30.10.18
Austerità, armi libere e militari al potere
Ecco la ricetta di Bolsonaro per il Brasile
di Emiliano Guanella


«Più Brasile e meno Brasilia» per Jair Bolsonaro, che già questa settimana, però, dovrà affrontare i meandri politici della capitale per iniziare a disegnare la sua squadra di governo. Sebbene si sia presentato come il candidato anti-sistema, Bolsonaro conosce alla perfezione il «mostro» burocratico da dove si controlla la politica brasiliana; è stato deputato per 28 anni di fila, passando da nove partiti differenti, compreso quel PP (partito progressista, anche se in realtà è di destra) che si è alleato con Lula da Silva e Dilma Rousseff e ha fatto parte dello schema di corruzione della Petrobras.
Bolsonaro ha promesso di fare piazza pulita della vecchia politica di favori e alleanze, il «toma là da cà» (prendi questo, dammi quello) che da sempre regna nei corridoi dei palazzi progettati da Oscar Niemeyer. «Ci impegniamo - ha detto - a snellire lo Stato, a liberarlo dalla burocrazia e dalla pressione fiscale enorme sui cittadini che non ricevono nulla in cambio».
Pensa ad austerità, rigore e disciplina militare, tanto che ha già ipotecato almeno quattro ministeri a generali o ex generali; Difesa, Trasporti, Educazione e Scienza e Tecnologia. «I militari - ha spiegato - sono meno corrompibili perché i civili hanno sempre paura delle uniformi».
Dalle promesse ai fatti
Dopo le promesse e le fake news di campagna adesso è giunto il momento di pensare a cosa fare nei primi 100 giorni, approfittando della luna di miele data dai mercati. Il Brasile è fermo, dopo la recessione del 2015-2016 la crescita è troppo lenta, non si può perdere tempo. Bolsonaro ha delegato la «questione economica» al neoliberista Paulo Guedes, ex banchiere, scuola di Chicago Boys e garante del governo davanti agli operatori finanziari. Guedes ieri ha spiegato che uno dei primi obiettivi del 2019 sarà quello di azzerare il deficit fiscale, pari oggi al 8% del Pil. Il primo scoglio è la necessaria riforma della previdenza, ma per Bolsonaro non sarà facile visto che dovrà toccare anche gli enormi privilegi dei militari, che in alcuni casi vanno in pensione a 50 anni.
I limiti del budget
L’ex capitano vorrebbe investire molto su sicurezza e infrastrutture, ma deve fare i conti con le ristrettezze della finanziaria 2019. La spesa pubblica rappresenta il 19,3% del Pil e il 93% sono spese obbligatorie che non si possono toccare; in cassa da spendere ci saranno poco più di 25 miliardi di euro, non l’ideale per un governo che inizia. Nel toto ministri ieri è circolato anche il nome di Sergio Moro alla Giustizia. Moro è il cervello della Mani Pulite brasiliana ed è stato il grande accusatore di Lula da Silva; non ha mai nascosto le sue simpatie di un «cambiamento generale» del sistema politico, ma andare al governo sarebbe per lui una mossa forse troppo azzardata.
L’alternativa potrebbe essere un posto alla Corte Suprema, visto che Bolsonaro potrà nominare due giudici.
Più vicino a Donald
In politica estera si dà per scontato il riconoscimento di Gerusalemme capitale d’Israele e un maggiore avvicinamento con gli Stati Uniti di Donald Trump, che ha chiamato per congratularsi. I primi viaggi ufficiali del neo presidente del Brasile saranno in Cile e, per l’appunto, negli Stati Uniti. All’Italia Bolsonaro ha promesso l’estradizione di Cesare Battisti, ma il caso è fermo alla Corte Suprema e, almeno per i prossimi mesi, non dipenderà molto da lui.
Tra i progetti considerati prioritari c’è la liberalizzazione del porto d’armi; per farlo basta una maggioranza semplice nel Congresso e la lobby dei fabbricanti capitanata dalla brasiliana Taurus, le cui azioni ieri sono schizzate in Borsa, ha già pronto il progetto di legge. Più complesso, invece, l’iter per ridurre l’età punibile per legge da 18 a 16 anni, che richiede di una maggioranza di tre quinti dei parlamentari. Il pallottoliere mostra oggi 108 deputati fedelissimi a Bolsonaro, 165 all’opposizione e ben 240 deputati di centro pronti a pendere da una parte o dall’altra secondo l’opportunità. Il famoso «centrao» è composto da una dozzina di partiti che sarebbero disposti ad appoggiare il governo ma che difficilmente lo faranno gratuitamente. Bolsonaro ha ripetuto più volte che non farà accordi sullo stile della «vecchia maniera» e ha promesso che ridurrà il numero di ministeri dagli attuali 27 a 15. Ma sarà davvero difficile ottenere l’appoggio di tutti senza scontentare nessuno.

Il Fatto 30.10.18
Brasile, i militari in festa. Ora puntano al governo
Camionette e mitra nelle strade per salutare la vittoria di Jair Bolsonaro
di Giuseppe Bizzarri

esplosioni dei petardi e dei colpi di pistola sparati come segno di festa dagli elettori di Jair Bolsonaro, l’ex capitano del Partido social liberal (Psl), i quali hanno battuto domenica, nel teso ballottaggio per le Presidenziali brasiliane, il socialdemocratico del Partido dos Trabalhadores, Fernando Haddad. Su 147 milioni di elettori, Bolsonaro ha ottenuto 57,6 milioni di voti, ma la vittoria non indica la maggioranza della popolazione brasiliana, poiché, senza contare i 46,7 milioni di voti ottenuti da Haddad, ben 31 milioni di brasiliani si sono astenuti al voto, 2,5 milioni hanno votato in bianco e 8,6 milioni hanno annullato la scheda elettronica.
I soldati armati in mimetica, sfilando sui mezzi militari tra la folla esultante per le strade di Niteroi, hanno ricordato le immagini del Golpe militare del 1964 in Brasile. Si sono verificati scontri durante i festeggiamenti. Gli elettori di Haddad in strada sono stati attaccati dai sostenitori di Bolsonaro, ma anche dalla Polizia militare che ha usato pallottole di gomma e lacrimogeni. I “Bolsonaristas” sono uniformizzati come un team calcistico, la passione nazionale brasiliana, usando la maglia gialla della selezione calcistica, indossata – dopo le frustrazioni nei precedenti mondiali di calcio – finalmente con felicità, anche il giorno dopo la vittoria elettorale. I brasiliani la indossano ovunque, in strada, nei bar, al lavoro, per distinguersi da un nemico occulto che, secondo la neoeletta deputata del Psl, Ana Caroline Campagnolo, deve essere “denunciato ovunque”, anche nelle università, dove esorta gli alunni a filmare e denunciare i propri professori che fanno politica durante le lezioni.
Dopo 21 anni dalla fine della dittatura in Brasile, i militari torneranno al potere dal primo gennaio in maniera democratica. L’ex capitano Bolsonaro darà gli ordini a un generale della riserva, il suo vice, Hamilton Mourão, con il quale pensa di distribuire incarichi a generali in pensione ed ex comandanti nel prossimo governo. Si prevede che ci saranno militari a capo di cinque ministeri che saranno ridotti di numero: da 29 a 18. Decine di militari, ma anche agenti della Polizia militare di grado inferiore, assumeranno assieme a un’armata di pastori neo pentecostali, altri incarichi secondari. Il generale della riserva, Augusto Heleno, il quale comandò i Caschi blu dell’Onu a Haiti nel 2004, comanderà il ministero della Difesa. Secondo El Pais Brasil, Heleno, oltre a essere l’interlocutore tra Bolsonaro e le Forze Armate, sarà anche il coordinatore del piano di governo e responsabile della gestione di un gruppo di 50 professionisti che tracceranno le direttrici dell’amministrazione federale.
Preoccupa il legame che il prossimo governo potrà avere con le milizie paramilitari, soprattutto con quelle che dominano la maggioranza delle favelas di Rio de Janeiro, tra cui Rio das Pedras, il secondo slum più popolato della città e da dove sarebbe partito anche l’ordine di assassinare l’attivista dei diritti umani, Marielle Franco. Il Brasile potrebbe subire una vera metamorfosi nelle mani di Paulo Guedes, il guru dell’economia di Bolsonaro. “Lui viene dalla scuola monetarista di Chicago, dove è entrato con un profilo moderato e ne è uscito totalmente liberista. Non ha mai avuto esperienza di gestione pubblica, nonostante vanti una carriera di successo in affari nel mercato finanziario”, afferma Salvador Teixeira Werneck Vianna, economista dell’Ipea al Fatto. Guedes si rifà a Milton Friedman, il quale è stato il suo professore a Chigago, la cui università è stata il grande polo d’irradiazione delle teorie economiche monetariste dei “Chicago boys”, ispiratori delle grandi riforme economiche di Ronald Reagan e Margaret Thatcher ma anche di Pinochet in Cile, dove sono molti oggi gli anziani che si uccidono a causa della bassa retribuzione pensionistica a seguito della riforma previdenziale negli anni della dittatura.
di Giuseppe Bizzarri

il manifesto 30.10.18
Il Brasile fa tremare le vene dell’America Latina
Democrazia in pericolo. "Fenomeno" Bolsonaro. Perché le classi dominanti si sono sbilanciate a favore di una sorta di neo fascista psicopatico. Dal Venezuela a Cuba, le conseguenze non si faranno attendere
di Roberto Livi


La netta vittoria (55% dei voti contro il 45%) di Jair Bolsonaro mette in pericolo 30 anni di ritorno alla democrazia in Brasile. Questa volta un candidato neo fascista, apertamente favorevole alla repressione violenta di ogni forma di opposizione e organizzazione popolare, sale al potere non grazie alla forza delle armi ma a un consenso popolare basato su un pericolosissimo cocktail: da un lato un (falso) populismo nazionalista e antisistema, dall’altro l’appoggio della corrente più integralista dell’evangelismo americano, scatenato in una guerra senza quartiere a Sodoma e Gomorra.
Non è solo il Brasile che trema. Bolsonaro sarà il presidente di estrema destra in una regione dove di recente gli elettori hanno scelto leader conservatori o di destra in paesi come Argentina, Cile, Paraguay, Perù e Colombia. Il Cono sud dell’America latina corre il pericolo di precipitare – se non ai tempi orribili dell’Operazione Condor condotta dalle dittature militari di Pinochet e Videla – nella tenaglia di un blocco autoritario, neoliberista e subordinato alla politica imperiale degli Usa ai tempi di Trump.
Elettori di Jair Bolsonaro (Afp)
LE CONSEGUENZE non tarderanno a farsi sentire per il Venezuela bolivariano, che vede alle sue fontiere due governi di destra (Colombia) ed estrema destra (Brasile) pronti ad appoggiare un’eventuale azione militare «umanitaria» degli Stati uniti. E per Cuba che torna a subire una politica da guerra fredda da parte dell’Amministrazione di superfalchi di Donald Trump.
Fernando Haddad, il candidato sconfitto del partito dei lavoratori (Pt) lo ha detto chiaramente e con coraggio nel suo intervento dopo i risultati finali delle presidenziali: il Brasile popolare deve prepararsi a un periodo di resistenza e di lotta per la democrazia. Non si tratta di difendere un partito o una parte della sinistra ma di organizzare un vasto movimento popolare per la difesa della libertà di espressione e di organizzazione popolare e della vita democratica. Nel gigante sudamericano vi sono molti movimenti popolari e di lotta sociale, dai Senza terra ai Senza tetto, dagli ecologisti alle femministe. Tutti sono ora in pericolo. «O se ne vanno fuori del paese o vanno in galera», è la ricetta promessa da Bolsonaro.
IL SUO PROGRAMMA di sicurezza fa tremare le vene: pene più severe e riduzione dell’età (a 16 anni) per essere responsabili penalmente, armi per tutti e licenza d’uccidere per le forze dell’ordine, che già hanno un triste primato continentale. Secondo, il Forum Brasileiro de Segurança Pública, tenuto conto delle proporzioni tra le popolazioni, la polizia brasiliana uccide 19 volte di più di quella statunitense. A Bolsonaro però va bene così perché «un poliziotto che non uccide non è un poliziotto».
Il nuovo presidente ha promesso mano dura anche contro le riserve degli indios e le aree di conservazione dell’Amazzonia, le principali barriere di contenimento alla devastazione della più grande foresta tropicale e polmone verde del mondo. «Non avranno nemmeno un centimetro di terra». Il ministero dell’Ambiente sarà incorporato a quello dell’Agricoltura che – parola di Bolsonaro – agirà in consonanza col «settore produttivo». Ovvero lascerà «mano libera» all’agrobusiness, ai pascoli delle grandi fazendas, ai latifondisti della soja, alle attività minerarie e ai grileiros, potenti locali che si impadroniscono delle terre pubbliche a colpi di pistola. E che poi le disboscano selvaggiamente.
IL “FENOMENO” BOLSONARO – un parlamentare semisconosciuto che in 28 anni non è riuscito a far approvare un solo progetto di legge e che vede il suo partito passare da un pugno di parlamentari a 53 deputati – non si può spiegare senza l’appoggio dei poteri forti militari, economici e finanziari e dei maggiori mass media.
Perché le classi dominanti si sono sbilanciate a favore di una sorta di psicopatico come Bolsonaro, il cui prossimo governo, come afferma l’analista Xosé Hermida, promette una società polarizzata e «con licenza di odiare»? Come osserva Gramsci nei Quaderni, in situazione di «crisi organica», quando si produce una rottura nell’articolazione esistente tra le classi dominanti e i loro rappresentanti politici e intellettuali, la borghesia e i suoi alleati si sbarazzano dei loro portavoce tradizionali e cercano una figura provvidenziale che permetta di affrontare le sfide del momento.
IN QUESTO CASO le classi dominanti brasiliani si propongono di portare a compimento il “golpe” attuato due anni fa con Temer e che l’attuale presidente – e i suoi alleati conservatori – non sono stati in grado di assicurare: mettere un punto finale all’”eredità” dei governi del Pt. E iniziare un’epoca di neoliberismo con un presidente malleabile, che si affida in materia economica a un Chicago boy col turbo, Paulo Guedes, con una sola filosofia: privatizzare e privatizzare.
Di recente un noto commentatore “liberal” ha affermato che in questa fase i nemici della democrazia in America latina rischiano di essere i giudici (che in Brasile hanno messo in galera Lula) e non i generali. E che questa situazione rappresenta «un progresso» per il subcontinente. L’elezione di Bolsonaro è una solenne smentita.

il manifesto 30.10.18
Fine di un’era, Merkel verso l’addio alla politica
Germania. La cencelliera concluderà il mandato nel 2021, e non si ricandiderà. Ma già a dicembre lascerà la guida della Cdu. La storica decisione dopo la batosta alle elezioni in Assia, «il governo ha perduto credibilità»
di Sebastiano Canetta

BERLINO «È giunto il momento di aprire un capitolo nuovo». Quattordici ore dopo la clamorosa batosta elettorale in Assia, Angela Merkel scandisce le parole che mettono ufficialmente fine al suo ventennio da presidente della Cdu.
AL CONGRESSO di Amburgo a inizio dicembre la cancelliera non si ricandiderà alla testa del partito guidato fin dal 2000, con buona pace delle garanzie in senso contrario che ha ripetuto fino alla scorsa estate.
A succederle, molto probabilmente, sarà la sua «numero due» Annegret Kramp-Karrenbauer (detta Akk), attuale segretaria generale dei cristiano-democratici, o il giovane leader della destra interna, Jens Spahn, ministro della Sanità e suo principale rivale, oppure in alternativa l’ex capogruppo dell’Union, Friedrich Merz. A meno, naturalmente, di sorprese dell’ultima ora.
SI CHIUDE COSÌ l’epoca di Mutti madre-padrona della Cdu e contemporaneamente capo della cancelleria federale. Anche se i fedelissimi si affannano a precisare che «rimane disponibile» a mantenere la poltrona di premier fino alla scadenza della legislatura. Comunque «sarà il mio ultimo mandato: nel 2021 abbandonerò del tutto la politica» assicura l’ex “Ragazza dell’Est” appena seppellita dal terremoto elettorale nel cuore dell’Ovest.
Alla conta finale dei voti in Assia, la Cdu “di governo” resta il primo partito ma risulta sprofondata fino all’abisso di quota 27%: ben 11 punti in meno rispetto a cinque anni fa. Mentre i 4,4 milioni di elettori hanno colato a picco anche l’opposizione in formato Spd, condannando i socialisti al peggior risultato dal 1949: 19,8% corrispondente alla perdita del 10,9% dei consensi dal 2013. Crescono invece i liberali (7,5%; più 2,5%) e, di poco, la Linke che ha convinto il 6,3%: l’1% in più delle scorse elezioni. Tuttavia, proprio come due settimane fa a Monaco, anche a Wiesbaden si conferma – soprattutto – il trend verde e nero evidenziato nel voto bavarese. Con il vero e proprio trionfo di Tarek Al-Wazir, candidato di origine yemenita dei Grünen, dimostratosi in grado di conquistare il 19,8% (+8,7%) che garantisce gli stessi 29 seggi della Spd dopo aver condiviso cinque anni di esecutivo con la Cdu. Ma anche con il “botto” dei fascio-populisti di Afd, esplosi meno del previsto eppure capaci di passare dal 4,1% al 13,1% che apre le porte dell’ultimo Parlamento regionale non ancora occupato.
RISULTATI «ASPRI e deludenti» ammette Merkel assumendo in toto e personalmente l’onere della sconfitta: «Da cancelliera sono la prima responsabile dei successi raggiunti dalla Cdu, così come dei suoi fallimenti» è il ragionamento per una volta potato delle consuete grinze democristiane. Costa l’abbandono della strategia che le ha permesso di governare per tredici anni la Repubblica federale al pari del primo partito del Bundestag. «La leadership nella Cdu e nella cancelleria deve camminare di pari passo» non sarà mai più l’inflessibile leitmotiv pronunciato appaiando le mani a forma di cuore.
«Il governo ha perduto credibilità: non possiamo andare avanti in questo modo» spiega Merkel anzitutto agli alleati. Dalla Csu uscita a pezzi dalle elezioni in Baviera, ai socialdemocratici che – anche con la gestione di Andrea Nahles – non fermano la corsa verso il baratro: ieri hanno preteso «una verifica di governo entro dicembre per dirimere i conflitti interni alla Grosse Koalition».
SARÀ L’ULTIMA CHIAMATA prima del punto di non ritorno, mentre la cancelliera ha già stabilito il proprio destino con l’unica pretesa di voler «lasciare gli incarichi con la stessa dignità di come sono stati svolti».
Fuori discussione, dunque, qualunque candidatura dentro e fuori alla Germania, anche a tempo. «Ipotesi da escludere a priori» puntualizza Merkel, anche nel caso di caduta anticipata del suo quarto governo, dove pesano «i problemi di comunicazione ma soprattutto quelli connessi alla cultura del lavoro»
Da qui, l’inizio della fine dell’eterno, monolitico, mitologico Merkeland, che sembra dispiacere perfino al leader Csu, Horst Seehofer, destinato a rimanere orfano della principale “nemica” come privo del bersaglio-grosso su cui sparare politicamente un giorno sì e l’altro pure.
«È un vero peccato che frau Merkel lasci la presidenza della Cdu» fa sapere il ministro dell’Interno, fingendo di dimenticare come quest’estate sia stato sul punto di far schiantare la Groko pur di far passare il suo Masterplan-immigrazione. Da dicembre dovrà fare i conti con la nuova presidenza del partito “gemello” ma anche con il piccolo esercito di cristiano-democratici finora rimasti schiacciati dalla gigantesca ombra di Merkel. Dall’ex “falco” delle Finanze Wolfgang Schäuble (già delfino di Kohl) alle ministre dell’Agricoltura, Julia Klöckner, e Difesa, Ursula von der Leyen, fino al braccio-destro di Angela, Peter Altmaier, o al catto-liberal, Armin Laschet.

Il Fatto 30.10.18
Putin, caccia grossa. Ai teenager
I ribelli di Telegram - Accusati di terrorismo. I genitori in piazza: arrivano vicino all’ex Kgb
di Michela A. G. Iaccarino


In mano tenevano i peluche e hanno continuato a mostrarli alle telecamere mentre le manette venivano strette intorno ai loro polsi dalle divise. I genitori dei ragazzini “membri di gruppi estremisti” virtuali, arrestati e sotto processo per “terrorismo online”, hanno deciso di scendere in piazza in sette città della Federazione, da Mosca fino alla Siberia. Sessantotto gli arresti a Pietroburgo e nella Capitale, dove i manifestanti si sono radunati dove quasi mai nessuno ha il coraggio di protestare: alla Lubyanka, acconto alla sede dell’FSB, servizi di sicurezza russi.

Padri e madri dei ragazzini arrestati l’hanno chiamata azione za nashich i vashich detej, per i nostri e vostri figli, “per la generazione futura”. La storia riguarda soprattutto due ragazzine che amavano sognare la rivoluzione tenendo tra le dita lo smartphone. La loro battaglia “per sovvertire il potere russo” puzzava di patatine fritte e hamburger: la progettavano nei McDonald’s. Brevi e fugaci incontri. Tutto il resto del tempo si scambiavano idee solo su una chat Telegram che si chiamava Novoe Velichie, nuova grandezza. Il gruppo sulla chat era stato fondato nel 2017 dalla studentessa di veterinaria, Maria Dubovik, 19 anni. In breve tempo diventano 100 i membri, quasi tutti minorenni: parlano di Cremlino, sogni di giustizia e molotov. Hanno l’ardore e l’ingenuità dell’adolescenza, quei progetti rimangono virtuali. Più che ipotetici: quasi irreali, ma questo non gli risparmierà l’accusa di terrorismo. Per i minorenni scattano le perquisizioni, gli arresti per i maggiorenni. “Giocava ancora con le bambole, è solo una bambina”, ha detto il padre di Anna Pavlikova, 18 anni. Ma se Anna e Maria sono terroriste da condannare a decenni di carcere o adolescenti a cui perdonare qualche messaggio sul cellulare lo deciderà la Corte nei prossimi mesi. Troll e hacker russi interferiscono su social e web oltreoceano, ma a Mosca il controllo della rete digitale patria rimane serrato, soprattutto dopo la nuova legislazione emanata lo scorso luglio. Sembra che sia lo stesso Putin a pensare di decriminalizzare l’estremismo online. E poi c’è un dubbio. C’era un certo Ruslan D. nella chat e “incitava sempre a passare all’azione”: per gli avvocati difensori, sarebbe un provocatore governativo infiltrato che ha incastrato i ragazzini. Ora è scomparso: nessuno lo trova e, a differenza degli altri, nessuno lo cerca.

Il Fatto 30.10.18
Il Codice Da Vinci ricomposto. In 7 mila lastre le frasi perdute Fino al 20 gennaio 2019, per il 500° dalla morte, gli Uffizi espongono le 72 pagine Leicester sull’acqua. Il curatore Galluzzi: “Le parti ritrovate potrebbero essere rivoluzionarie”    
Tra ostacoli e battesimi – Nel Codice Leicester i disegni di macchine elevatrici e impianti di scavo e gli studi sulle deviazioni dell’acqua tra gli oggetti     
di Alessia Grossi

Settemila lastre fotografiche dei primi del 900 che permetteranno nei prossimi anni di completare alcune frasi, disegni o parole di Leonardo da Vinci sfumate dai suoi quaderni. Perché non solo le brutte, ma, a volte, anche le belle notizie non vengono da sole. Con l’arrivo del Codice Leicester alle Gallerie degli Uffizi di Firenze, da oggi visibile al pubblico, è giunta anche la riprova che nelle fotografie custodite dal Museo Galileo ci fossero i pezzi mancanti di quello stesso Codice, portati via dal tempo, la luce e l’usura. Ma – chissà – “destinati a diventare strumenti fondamentali della ricerca sul genio di Vinci”, come spera entusiasta Paolo Galluzzi, direttore del Museo Galileo nonché curatore della mostra che resterà agli Uffizi fino al 20 gennaio come primo appuntamento del 500° anniversario dalla morte di Leonardo (Vinci 15 aprile 1452-2 maggio 1519).   È l’acqua che move il Sol e l’altre stelle… Ma prima delle lastre fotografiche viene il Codice, in 18 bifogli quasi tutti dedicati all’acqua. “Microscopio della natura” come recita il titolo dell’esposizione progettata dal direttore degli Uffizi, Eike Schmidt e da Galluzzi. Settantadue pagine giunte direttamente dal caveau di Bill Gates che nel 1994 le comprò per 30 milioni di euro. Sulle pagine autografe esposte vergate quasi interamente da destra verso sinistra e leggibili dai visitatori attraverso i Codescope, schermi interattivi da cui è possibile anche sfogliarle e zoomare sui dettagli, il mancino Leonardo appuntò ogni teoria e studio sull’elemento che quasi più dell’aria lo affascinava: l’acqua. Era il tempo della Firenze che Benvenuto Cellini ribattezzò “La Scuola del Mondo”. Qui, tra il 1504 e il 1508 Leonardo si dedica a studi di anatomia presso l’Ospedale di Santa Maria Nuova; cerca di far volare l’uomo; fallisce nell’impresa di dipingere il murale La battaglia di Anghiari a Palazzo Vecchio. E soprattutto, studia la rottura degli argini dell’acqua dell’Arno – grande protagonista del Codice –; dà vita alla teoria che accomuna il flusso dei fiumi a quello sanguigno e al percorso dell’aria nei polmoni; il moto ondoso dei mari – che Leonardo disegna a margine dei fogli come opera d’arte –; lo studio delle gocce d’acqua e le bolle di sapone. Fino al progetto avveniristico del canale navigabile sull’Arno, per realizzare il quale addirittura inventa un modo per rendere fattibili gli scavi della collina: il metodo lanterna. È lui stesso a fare i rilievi di notte. Abbiamo le prove. Il sindaco attuale di Firenze, Dario Nardella, presente all’inaugurazione prende appunti. Non si sa mai.   Il primo uomo che vide la Luna e non il dito Tra le riproduzioni anche in 3D delle scoperte di Leonardo, quella sulla Luna che confuta la teoria del suo tempo secondo cui il satellite sarebbe una superficie di cristallo. Se così fosse, il Sole in lei si specchierebbe sempre come un puntino nero. Ma così non è, la superficie lunare sarà non disomogenea? Già, Leonardo aveva scoperto anche la Luna. Diluvio e altre credenze: ironia di una Genesi “Si definiva modestamente ‘omo sanza lettere’, ma non era così: nella sua biblioteca c’erano classici, sia filosofici che scientifici, 200 libri. Da Platone a Archimede, a Dante Alighieri”, spiega il direttore Galluzzi. “Ma soprattutto dal Codice emerge che non accettava mai il sapere in modo passivo. Si fa beffe delle credenze del suo tempo, anche di quelle religiose. Del Diluvio universale scrive: ‘L’acqua coprì la Terra, così dice chi la misurò’”, racconta ancora Galluzzi.   Quanto è scientifica questa pittura “Questa non sarà l’unica mostra per la ricorrenza leonardesca – commenta il direttore Schimdt – ma qui è possibile passare dallo studio degli ostacoli che cambiano il verso dell’acqua, alla sua traduzione in arte nelle caviglie di Giovanni Battista ritratte nel Battesimo di Cristo presente nella nuova sala di Leonardo solo due piani sopra”. Perché non c’è bisogno di chiedere indietro la Gioconda – oltretutto “intrasportabile senza che si rischi di rovinarla”, come spiega il direttore, per ricordare il triste giorno in cui il genio morì e da allora mai nessuno lo superò.

Repubblica 30.10.18
La lunga strada verso la pace
Statue e tesori, rinasce il Museo di Damasco
di Paolo Matthiae


Le Autorità archeologiche siriane, che negli anni peggiori della crisi hanno messo in salvo trasportandoli in luoghi sicuri con convogli blindati oltre 300.000 reperti archeologici conservati nei Musei provinciali, da Raqqa a Deir ez-Zor, da Hama a Homs ad Aleppo, hanno deciso di riaprire al pubblico il Museo nazionale di Damasco, che era stato chiuso nel 2012, riportando nella sede naturale un primo ampio nucleo di oggetti esposti, soprattutto dell’età romana imperiale. La riapertura è un segnale importante di avvio della riconciliazione nazionale, perché la cultura, come proclamato dalla Convenzione fondante dell’Unesco di Londra del novembre 1945, ha il suo fondamento nel dialogo e il dialogo è la via maestra verso la pace.
Il Museo nazionale di Damasco, tra i maggiori musei d’Oriente, si è sempre distinto sia per l’unicità delle sue collezioni di reperti archeologici, fortemente rappresentativi di tutti i periodi della millenaria storia della Siria, sia per l’originalità della sua struttura architettonica immersa in un’ampia area verde dominata dall’imponente ricostruzione della facciata del palazzo umayyade di Qasr el-Heir el-Gharbi. Fu progettato negli anni Trenta del secolo scorso per ospitare i reperti di scavi derivanti dai ritrovamenti sensazionali delle missioni francesi a Ugarit sul Mediterraneo e a Mari sull’Eufrate che illuminarono ogni aspetto di civiltà dell’antico Oriente fiorite soprattutto tra gli inizi del III e la fine del II millennio a.C, delle spedizioni internazionali attive in centri prestigiosi d’epoca romana, come Palmira, Apamea e Dura Europos e dei lavori condotti in desolati luoghi desertici dove i Califfi umayyadi avevano eretto gli allora enigmatici castelli del deserto della prima e più gloriosa età islamica,nel VII e VIII secolo.
Il Museo damasceno ha poi conosciuto negli ultimi trenta anni del Novecento e nella prima decade del nostro secolo un forte ampliamento delle sue collezioni per il notevolissimo incremento delle attività archeologiche in Siria con oltre 130 missioni nazionali siriane, internazionali e congiunte, dovuto alla generosa e aperta politica culturale delle Autorità siriane: le scoperte di Ebla, di Qatna, di Aleppo, di Urkish, per non citare che le maggiori, hanno segnato profondamente l’archeologia orientale di quegli anni, apportando una massa di nuovi dati e aprendo inattese problematiche storiche.
La singolare varietà delle opere ospitate nel Museo è un riflesso della straordinaria stratificazione culturale che caratterizza la storia di un Paese considerato non a torto in tutto il corso della sua storia il più significativo ponte tra Oriente e Occidente: dall’austera statuaria protodinastica di Mari della metà del III millennio a.C. ai tesori epigrafici di Ebla degli stessi decenni, agli squisiti avori mediosiriani di Ugarit del XIII secolo a.C., fino alla spettacolare ricostruzione della Sinagoga di Dura Europos del III secolo d.C.
con le pitture originali che costituiscono uno straordinario repertorio figurativo delle storie dell’Antico Testamento.
Quando, dopo lo scoppio della crisi politica e il prolungarsi della guerra civile, nel 2012 i responsabili della Direzione delle Antichità di Damasco furono indotti a chiudere il Museo per porre al sicuro i suoi tesori, erano i tempi più cupi per il patrimonio culturale della Siria e il provvedimento parve necessario. Palmira divenne la città martire della barbarie dell’Isis che, in nome di un’ideologia fondamentalista e totalitaria, compì efferate distruzioni, come quelle dei templi di Baalshamin e di Bel, di parte della via colonnata, del teatro e di diverse torri funerarie della Valle delle tombe della splendida regina del deserto: "crimini di guerra contro l’umanità" fu la perentoria condanna della direttrice generale dell’Unesco Irina Bokova. L’assenza di controllo del territorio da parte di forze dell’ordine per estese regioni della Siria fece disastrosamente moltiplicare gli scavi clandestini in molti dei maggiori siti archeologici del Paese.
La disfatta, anche se non ancora l’eliminazione completa, dell’Isis negli ultimi mesi sta avviando un recupero della normalità e l’inizio di un processo politico di pacificazione nazionale, che renda al popolo siriano la pace cui ha diritto e che merita.