Corriere 30.10.18
Il rifiuto di Togliatti
Stalin gli offrì la guida del Cominform ma il segretario del Pci si tirò indietro
Una
biografia di Gianluca Fiocco (Carocci) mette a fuoco le scelte più
rilevantidel leader comunista. Le aperture alla Dc, i contrasti con
Krusciov, la decisionedi approvare l’invasione sovietica dell’Ungheria e
l’impiccagione di Imre Nagy
di Paolo Mieli
Un
articolo dello scrittore Francesco Piccolo pubblicato su «la Lettura»
del «Corriere della Sera» nel febbraio 2014 (intitolato Rivalutare
Togliatti) ha offerto a Gianluca Fiocco lo spunto per un libro,
Togliatti, il realismo della politica. Una biografia, pubblicato
dall’editore Carocci. Dopo la fine dell’Urss e del Pci, scrive Fiocco,
«la damnatio memoriae calata sull’intera parabola del comunismo
novecentesco» ha condizionato pesantemente l’opinione nei confronti di
Togliatti. Tant’è che spesso ai tempi della cosiddetta Seconda
Repubblica si è levata la richiesta di eliminare intestazioni al
segretario del Pci in molte vie e piazze d’Italia. Ma oggi le cose
sembrano essere cambiate e quell’articolo di Piccolo scritto nel
cinquantenario della sua morte ha segnato il «forse involontario» avvio
di discussioni con «toni più pacati», ha contribuito a determinare un
clima «più propizio a una valutazione equilibrata della sua figura e più
atto a recepire le acquisizioni maturate in sede storiografica».
Valutazione che rende oggi possibili giudizi più sfumati sui suoi
rapporti con Gramsci, con Stalin, e sul suo intervento nella politica
italiana del secondo dopoguerra. Fiocco non si propone di «rivalutare
Togliatti», ma prova ad offrircene un quadro più sfaccettato. Vuole così
spiegare che cosa rese possibile che al momento della sua morte (agosto
1964) gli italiani furono forse sorpresi da una manifestazione pubblica
di cordoglio che non aveva precedenti. Non si è mai visto «niente di
simile né a Roma né in Italia», scrisse sull’«Espresso» Manlio Cancogni:
«Nemmeno per i funerali di Giuseppe Verdi».
L’autore ripercorre
gli studi di Togliatti all’Università di Torino, l’incontro con Antonio
Gramsci e i loro primi contrasti, l’esperienza de «L’Ordine Nuovo», la
nascita nel 1921 del Pcd’I, il suo primo arresto, la vita a Mosca negli
anni dell’Italia fascista. Poi il ritorno in Italia, la «svolta di
Salerno», la fondazione della Repubblica, la sconfitta alle elezioni del
18 aprile 1948, l’attentato subito nel luglio di quello stesso 1948, il
conflitto con il dittatore dell’Urss negli anni precedenti alla sua
scomparsa (1953), la denuncia dei crimini di Stalin al XX Congresso del
Pcus (1956), la reazione del Pci al primo centrosinistra (1963), la
morte a Jalta e il memoriale che lasciò ai compagni (1964).
Fiocco
non tace certo della compromissione di Togliatti con il regime
staliniano. Ma si sofferma anche sulla sua complessità, da cui esce
un’immagine più variegata. Un esempio? A fine agosto del 1950, Togliatti
ebbe, com’è noto, un incidente automobilistico a Ivrea mentre stava
andando in vacanza in Val d’Aosta. Batté fortemente il capo, ma in un
primo tempo sembrò che si sarebbe rimesso in tempi relativamente rapidi.
Ad ottobre, però, le sue condizioni di salute si aggravarono. Fu
ipotizzato un ematoma o un tumore al cervello e si rese necessario un
intervento d’urgenza. La vicenda, scrive Fiocco, «lasciò uno strascico
di ombre e sospetti». Pietro Secchia riferì in seguito che fu lo stesso
Togliatti a chiedergli di «condurre un’indagine accurata» su quel che
gli era accaduto: «Un’indagine su tutti, nessuno escluso». Perché? Il
sospetto era che la vettura su cui viaggiava Togliatti fosse stata
sabotata e che perciò quel che era capitato ad Ivrea non fosse stato un
«vero incidente». Sempre Secchia riferì che Mario Spallone, medico del
segretario comunista, avanzò l’ipotesi che a danno del suo paziente
fosse in corso un «avvelenamento». Fu in questo clima che Stalin invitò
Togliatti a Mosca per ulteriori accertamenti clinici. Ma il capo del
comunismo sovietico aveva in mente anche qualcosa d’altro.
Vediamo
i fatti. Il segretario del Pci partì per Mosca il 17 dicembre. Appena
giunse nella zona d’occupazione sovietica in Austria, sorprendentemente,
ricevette la conferma che il progetto staliniano non si limitava alle
cure mediche: il suo treno venne accolto da un picchetto d’onore e da
quel momento «fu tutto un susseguirsi di attenzioni particolari, in
genere riservate solo ai capi di Stato». Quando poi il convoglio entrò
in territorio russo, Togliatti si accorse che «fin nelle stazioni più
piccole erano in attesa soldati e delegazioni, ferme sotto la neve anche
durante la notte, lì giunte per rendergli omaggio». Eccessivo per un
viaggio di convalescenza di un leader pur importante qual era Togliatti.
Il quale capì che cosa era stato progettato per lui appena giunse a
Mosca, allorché Stalin in persona si recò a fargli visita e, dopo un
brevissimo preambolo, gli propose di lasciare l’Italia e di trasferirsi a
Praga per assumere la guida del Cominform. Togliatti provò a
divincolarsi da quell’«offerta» e chiese che fosse convocato a Mosca un
membro della segreteria del Pci il quale, sperava, avrebbe perorato la
causa di una sua permanenza a Roma, ai vertici del Partito comunista
italiano. Stalin ne convocò due, i più importanti: Secchia e Luigi
Longo. I quali, in una riunione alla quale furono presenti anche Molotov
e Malenkov, a sorpresa appoggiarono l’iniziativa del dittatore
georgiano. E non avvenne solo questo. Secchia e Longo, rientrati in
Italia, convocarono la direzione del Pci che quasi all’unanimità si
schierò a favore del trasferimento del loro capo alla guida del
Cominform. Si dissero contrari solo Umberto Terracini, Teresa Noce e
Giuseppe Di Vittorio.
Togliatti fu costretto a far ricorso a tutta
la sua sottigliezza per convincere Stalin a lasciarlo tornare a Roma —
sia pure in via provvisoria — per affrontare le imminenti battaglie
politiche (anche se probabilmente il capo del Partito comunista
dell’Urss comprese però che la sua iniziativa era andata definitivamente
in fumo). E Togliatti poté rientrare in Italia. La sua partenza da
Mosca, racconta Fiocco, «avvenne di notte in una stazione ferroviaria
deserta: nessun dirigente sovietico si recò a salutarlo e non vi fu
neppure l’ombra degli onori ricevuti nel viaggio di andata». Passando
per Praga, Togliatti ebbe un rapido incontro con Rudolf Slansky, il
leader politico che di lì a breve sarebbe stato condannato a morte.
Tornato
a casa, il segretario del Pci affrontò la preparazione dei lavori in
vista del VII Congresso del suo partito che si sarebbe tenuto
nell’aprile del 1951. E lo fece in maniera imprevista: andò a presiedere
il congresso della federazione comunista milanese «roccaforte
operaista», scrive Fiocco, «dove le idee del partito nuovo non erano
penetrate a fondo come in altri luoghi». Il clima della guerra fredda e
le dure vertenze sindacali avevano provocato negli anni recenti un
irrigidimento rispetto alle aperture del dopoguerra «determinando una
vita di partito abbastanza ripiegata al proprio interno e concentrata
sui problemi della resistenza organizzativa nella fabbrica». Al termine
dei lavori, Togliatti pronunciò un discorso che era «agli antipodi di
questa prospettiva». Prevedendo, forse, che avrebbe provocato un certo
clamore annunciò la disponibilità dei comunisti a «cessare la loro
opposizione», se si fosse formato un «governo di pace, non più prono
agli interessi dell’imperialismo americano». Il Pci, «cosciente dei
limiti imposti dalla situazione internazionale, non avrebbe preteso di
far parte di un simile governo, ma avrebbe sostenuto responsabilmente le
misure atte a marcare l’indipendenza del Paese».
Parole
sorprendenti, ancorché in qualche sintonia con le più recenti
dichiarazioni staliniane che prospettavano la «non inevitabilità» di un
nuovo conflitto mondiale. Sorprendenti perché non c’era in Italia nessun
segnale che la Democrazia cristiana, forte del voto plebiscitario
ottenuto il 18 aprile del 1948, potesse accingersi a dar vita ad un
esecutivo come quello prospettato dal leader comunista. Tanto più nel
periodo storico in cui era in corso la guerra di Corea (1950-1953), che
quasi tutti ritenevano potesse degenerare in un terzo conflitto
mondiale, che avrebbe opposto il «mondo libero» a quello comunista. È
più probabile che Togliatti, con quel discorso di Milano, volesse
mandare un segnale all’ampio settore post resistenziale del proprio
partito che ancora si dedicava, segretamente, a costruire una
prospettiva insurrezionale e rivoluzionaria.
Togliatti fu di nuovo
a Mosca a febbraio del 1956 per il XX congresso del Pcus, quello in cui
Krusciov avrebbe fatto a pezzi la figura di Stalin (morto tre anni
prima). Tornò nella capitale dell’Urss, scrive Fiocco, «con il carico
dei suoi ricordi e provò come un tempo l’insofferenza per gli eccessivi
controlli». Rifiutò di «stare in una villetta a parte — trattamento che
per il suo rango gli sarebbe spettato — per socializzare e subire una
sorveglianza meno oppressiva». Nei discorsi iniziali delle assise si
parlò genericamente di violazioni commesse da «una certa personalità».
Ma tutti compresero chi fosse quella «personalità». Vittorio Vidali
chiese allora al segretario del Pci fino a che punto i sovietici si
sarebbero spinti nella critica a Stalin e lui rispose che a suo avviso
«non lo avrebbero liquidato, non vi sarebbe stato uno screditamento
totale della sua figura». Sbagliava. Nel «rapporto segreto» Stalin venne
descritto come un «paranoico responsabile di tragedie inenarrabili,
dall’uccisione di tanti innocenti al tempo delle grandi purghe agli
errori strategici commessi all’epoca dell’aggressione hitleriana». Quel
documento venne mostrato di notte a Togliatti mentre era in albergo: «Ne
poté prendere visione senza trattenerne una copia, con la consegna di
non rivelarne l’esistenza».
Tornato a Roma, mentre sui giornali
«borghesi» uscivano le prime indiscrezioni sulle denunce di Krusciov,
Togliatti non diede ai dirigenti del Pci ragguagli circostanziati. Entrò
in dettaglio con Tito registrando come anche il leader jugoslavo fosse
rimasto perplesso circa la mancata indicazione di quel che nel sistema
sovietico aveva reso possibile che si sviluppasse il «culto della
personalità». Ancora più severo il giudizio del capo dei comunisti
francesi Maurice Thorez, che volle incontrare Togliatti per esprimergli
il proprio sdegno: «Quanto fango quel Krusciov ha fatto ricadere su
tutti noi! Con le sue rivelazioni ha sporcato un passato luminoso,
splendente, eroico. Una bella porcheria non c’è che dire». Il capo dei
comunisti francesi non riuscì però a convincere il leader del Pci a
rendere pubblica questa presa di distanze. Quando poi, il 4 giugno, il
«New York Times», pubblicò il testo integrale del «rapporto segreto»,
Togliatti reagì con un’intervista a «Nuovi Argomenti» in cui riconosceva
i misfatti imputati a Stalin, ma bocciava la teoria del «culto della
personalità»: «Prima, tutto il bene era dovuto alle sovrumane qualità
positive di un uomo, ora tutto il male viene attribuito agli altrettanto
eccezionali e persino sbalorditivi suoi difetti», protestò. Nelle
settimane successive disse che quei mali erano riconducibili ad una
«degenerazione burocratica» del sistema sovietico. I dirigenti del Pcus
gli rimproverarono di aver fatto ricorso ad una «formulazione
trotskista».
Su queste tensioni, in autunno si innestarono nei
Paesi dell’Europa dell’Est due vicende di insubordinazione all’Urss: la
prima in Polonia, la seconda in Ungheria. In entrambe Togliatti si
schierò inizialmente dalla parte degli innovatori. In Polonia le cose si
risolsero con l’arrivo al potere del «riformatore» Wladyslaw Gomulka.
In Ungheria l’ascesa di Imre Nagy — che avrebbe dovuto essere il Gomulka
di Budapest — provocò invece due interventi armati dell’Urss che
spinsero il Pci a schierarsi, dopo molte lacerazioni interne, dalla
parte di Mosca. Ma, nonostante ciò, i rapporti con Krusciov rimasero
gelidi e il Partito comunista dell’Urss cercò ulteriormente di isolare
quello italiano che si batteva per una propria autonomia. Nagy,
imprigionato in Romania nel gennaio del 1957, cercò di ottenere il
sostegno di Togliatti a favore di una «commissione internazionale
d’inchiesta» formata dai «rappresentanti dei partiti fratelli».
Commissione che avrebbe dovuto appurare ciò che era accaduto davvero in
Ungheria. Evidentemente Nagy riteneva di poter fare affidamento su
Togliatti. Ma questi neanche gli rispose. L’anno successivo Nagy fu
impiccato e Togliatti in una Tribuna politica del 28 giugno 1961
sostenne che la sentenza era stata «giusta» dal momento che Nagy aveva
«commesso dei delitti». Togliatti sarebbe poi morto a Jalta nell’agosto
del 1964. Poche settimane dopo in quello stesso anno Krusciov sarebbe
stato destituito.