Corriere 25.10.18
Indagato un colonnello
La frase choc su Cucchi: magari morisse
di Giovanni Bianconi
«Sta
andando al Policlinico, dice che si sente male, c’ha attacchi
epilettici», disse un carabiniere. E l’altro: «Magari morisse, li
mortacci sua». C’è anche questo nelle carte dell’inchiesta sulla morte
di Stefano Cucchi, per cui ora è indagato per depistaggio anche un
colonnello.
Roma La notte fra il 15 e il 16 ottobre 2009, quando
Stefano Cucchi si trovava in una camera di sicurezza della stazione
carabinieri di Tor Sapienza a Roma, il capoturno della centrale
operativa dell’Arma chiamò la stazione Appia, da dove venivano i
militari che lo avevano arrestato per detenzione e spaccio di
stupefacenti. «Sta andando al Policlinico, dice che si sente male, c’ha
attacchi epilettici e compagnia bella», disse. E l’altro carabiniere
rispose: «E vabbè, chiamasse l’ambulanza... Magari morisse, li mortacci
sua...».
A pronunciare questa frase, secondo gli investigatori fu
l’allora appuntato scelto Vincenzo Nicolardi, oggi imputato al processo
Cucchi per calunnia: al dibattimento contro gli agenti penitenziari (poi
assolti) disse che Cucchi quella sera «camminava bene, era in
condizioni normali, tranquillissimo proprio». Sfortunatamente per Cucchi
e molti altri, l’auspicio (con insulto) di Nicolardi si avverò una
settimana più tardi. E dal giorno dopo la morte del detenuto,
all’interno dell’Arma si cominciarono a orchestrare i falsi e i
depistaggi che stanno emergendo nel processo-bis attraverso la nuova
indagine del pubblico ministero Giovanni Musarò.
A raccontare nei
dettagli l’inquinamento delle prove sono altri carabinieri coinvolti
nella vicenda, testimoni e indagati, con il riscontro di recentissime
intercettazioni telefoniche. Primo fra tutti il luogotenente
Massimiliano Colombo Labriola, inquisito per falso, che la scorsa
settimana ha rivelato l’origine della manomissioni delle due relazioni
di servizio dei carabinieri Colicchio e Di Sano sulle condizioni di
salute di Cucchi. Avevano scritto che il detenuto denunciava «forti
dolori al capo e giramenti di testa», nonché «di non poter camminare,
dolori al costato e tremore». L’indomani, racconta Colombo Labriola, «il
maggiore Soligo (suo diretto superiore, ndr ) mi telefonò e mi disse
che le annotazioni non andavano bene, perché erano troppo
particolareggiate e venivano espresse valutazioni medico legali che non
competevano ai carabinieri». In caserma Soligo parlò con Colombo, Di
Sano e Colicchio, infine fece trasmettere i due documenti via e-mail al
colonnello Francesco Cavallo, all’epoca capo ufficio del Comando gruppo
Roma diretto dal colonnello Alessandro Casarsa.
Cavallo rispedì a
Colombo due nuove versioni , scrivendo nella email: «Meglio così...». La
situazione fisica di Cucchi era stata un po’ edulcorata (spariti i
riferimenti ai dolori alla testa, al costato e al non poter camminare,
con l’aggiunta della tossicodipendenza), Colombo passò le relazioni a
Soligo che le sottopose a Di Sano e Colicchio per la firma. Il primo
accettò senza problemi, il secondo rilesse e protestò: per lui la nuova
versione non andava bene.
«Il maggiore Soligo cercò di farmi
calmare — ha testimoniato Colicchio il 19 ottobre —. Stava parlando al
telefono con il colonnello Cavallo per cui me lo passò dicendogli “il
carabiniere è un po’ agitato”». Cavallo spiegò che in fondo era stata
cambiata solo una frase, «ma io non volevo sentire ragioni». Il
documento falso, a differenza di quello sottoscritto da Di Sano, non fu
trasmesso alla Procura, ma rimase agli atti ed è saltato fuori nella
nuova inchiesta.
«Non ricevetti minacce esplicite da Soligo né da
Cavallo — sostiene Colicchio —, però l’Arma è una struttura militare, e
quando una richiesta proviene da un superiore, specie se fatta con una
certa insistenza, inevitabilmente chi la riceve la vive come
un’intimidazione. Per quello che percepii, anche il maggiore Soligo
stava dando esecuzione ad ordini provenienti dalla sua gerarchia. La
“regia” in quel momento veniva dal Gruppo di Roma». Uscito
dall’interrogatorio il carabiniere chiama la moglie e le confida:
«Gliel’ho dovuto dì... mo’ se scoperchia tutto il vaso di Pandora».
In
una telefonata con il fratello, intercettata il 26 settembre scorso, il
luogotenente Colombo spiega i motivi del falso confezionato in un
periodo, l’ottobre 2009, in cui i carabinieri di Roma erano già in
imbarazzo per il coinvolgimento nel ricatto all’allora governatore della
Regione Piero Marrazzo: «L’Arma ci teneva alla sua immagine... tutto il
fatto “caso Marrazzo”... muore Cucchi, un secondo caso con l’Arma
romana?... Perché dovete ingenerare dei pensieri sbagliati?! E fa
correggere le due annotazioni...».
Al pm, Colombo ha raccontato
anche i dettagli della riunione con l’allora comandante provinciale
Vittorio Tomasone, alla presenza di Casarsa, Soligo, il maresciallo
Mandolini (imputato al processo bis) e altri militari che avevano avuto a
che fare con Cucchi. Cavallo non c’era. «Sembrava una riunione degli
alcolisti anonimi — dice Colombo —; ognuno si alzava in piedi e spiegava
il ruolo che aveva avuto nella vicenda. Ricordo che uno dei carabinieri
che aveva partecipato all’arresto di Cucchi aveva un eloquio poco
fluido, non era molto chiaro, e un paio di volte intervenne Mandolini
per integrare... come fosse un interprete. A un certo punto il
colonnello Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il carabiniere doveva
esprimersi con parole sue, perché se non fosse stato in grado di
spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato neanche
con un magistrato».