mercoledì 24 ottobre 2018

Corriere 24.10.18
Gli ultimi giorni del ribelle Jan Palach
di Paolo Mereghetti


Lo studente di Praga che nel ‘69 si diede fuoco contro i sovietici: un film interroga la Storia
Fin dal titolo, Jan Palach, il film prodotto dalla tv ceca sullo studente che il 16 gennaio 1969 si diede fuoco in piazza San Venceslao a Praga, vuole interrogare la Storia. Non ci sono mediazioni di tipo narrativo o romanzesco. L’operazione va dritta al cuore del personaggio.
Dopo un doppio prologo che dovrebbe servire a sottolinearne l’indipendenza, il film di Robert Sedlácek arriva al 1968, quando sulla spinta anche degli studenti, il governo Dubcek abolì la censura. Tra chi frequenta quell’ambiente c’è anche Palach (interpretato da Victor Zavadil) che aspetta di essere ammesso all’università e aiuta la fidanzata Eva a riprendere l’uso delle gambe dopo la poliomielite.
È una delle tante trovate della sceneggiatrice Eva Kanturková per trasmettere quella voglia di libertà (dalla malattia e dall’oppressione politica) che si faceva largo tra i giovani e sfruttava anche il rock’n’roll per veicolare l’insofferenza verso l’oppressiva ideologia sovietica. E che poi il film declina nei tanti discorsi che animavano le assemblee studentesche e gli incontri con i professori e i politici che condividevano quelle aspirazioni e cercavano una sponda per le loro prese di posizione politiche.
A fare un po’ da contraltare c’è la figura della madre (Zuzana Bydzovská), iscritta al partito comunista per convenienza (dopo che il marito era stato privato dal regime della sua attività commerciale e ne era morto di crepacuore) e incarnazione di quel buon senso popolare che sa distinguere i «buoni» dai «cattivi» ma cerca anche di preoccuparsi per il futuro del figlio, orgogliosa di vederlo iscritto all’università.
Tra questi due poli, il film racconta la maturazione politica di Jan, l’esperienza dell’invasione sovietica nell’agosto del 1968, la riflessione sui «gesti esemplari» che in altri Paesi — Polonia, Vietnam — erano stati compiuti da chi si era dato fuoco per protesta, il confronto con chi predica prudenza e chi invece vorrebbe bruciare le tappe. Persino un’avventura sessuale con una piacente e disinibita compagna di studi serve per sottolineare l’orgoglio e l’indipendenza di Jan. Anche se alla fine il film sembra dare un peso determinante alla motivazione religiosa, mostrando Palach per la prima volta commosso fedele alle celebrazioni natalizie in chiesa. Ci si avvicina così alla data del sacrificio, in vista del quale praticamente spariscono tutti i personaggi di contorno per lasciare spazio a una delle missive che Jan scrisse, una specie di testamento-manifesto dove spiegava il suo gesto col bisogno di «scuotere la coscienza del popolo» e parlava di un «gruppo di volontari» su cui non si seppe mai la verità.
Il film si chiude con le immagini di Jan Palach agonizzante dopo essere stato straziato dal fuoco, cui seguono alcuni interminabili secondi di schermo nero prima dei titoli di coda. Un piccolo artificio che dovrebbe spingere lo spettatore a interrogarsi su quello che ha appena visto ma che rischia di ottenere l’effetto contrario. Quello cioè di «smascherare» la pretesa didascalica (e propagandistica) dell’operazione: gli unici «veri» fotogrammi di cinema finiscono per far cadere il castello di carte di una ricostruzione che si ferma al verosimile.
Tutto in questo sontuoso tv-movie assomiglia alla realtà ma è sprovvisto delle sue contraddizioni, delle sue complessità, delle sue zone d’ombra. Tutto è perfettamente definito per guidare senza intoppi lo spettatore fino in fondo. Dove forse troverà la verità storica ma non certo quella cinematografica.