Corriere 22.10.18
Anteprima
Nel buio della «notte politica» la sfida di una filosofia militante
Esce
giovedì il nuovo saggio di Donatella Di Cesare (Bollati Boringhieri)
Un forte richiamo alla funzione pubblica del pensiero critico
di Luciano Canfora
Un
giovane filologo italiano, Max Bergamo, si accinge a pubblicare gli
appunti che, alle lezioni di greco di Friedrich Nietzsche professore a
Basilea, prese, e conservò, nel semestre invernale 1871-1872, un allievo
d’eccezione, Jacob Wackernagel, destinato a diventare uno dei maggiori
storici delle lingue classiche. Il corso di quel semestre verteva su
Platone. Abbiamo dunque sia gli appunti dell’allievo, sia il molto ricco
dossier preparatorio del maestro (ne è imminente la traduzione presso
Adelphi), che ormai si integrano a vicenda e si completano. Scrive
Nietzsche: «Non è lecito considerare Platone come un sistematico in vita
umbratica, ma come un agitatore politico che vuole scardinare il mondo
intero e che è, a questo scopo, tra le altre cose anche scrittore (…)
Egli scrive per fortificare nella lotta (bestärken im Kampfe) i suoi
compagni dell’Accademia (da lui fondata)». L’allievo annotò le parole
del maestro così: «L’Accademia non è per lui che un mezzo.
Indirettamente scrittore. (A noi invece appare in primo luogo
scrittore). Un politico che vuole scardinare il mondo intero». Notare
che «scardinare» appare in entrambi (aus den Angeln heben). Dunque
Nietzsche disse proprio così: «Scardinare il mondo intero».
Al centro
della lotta per cambiare il mondo c’è Platone. Ed è questo uno dei
centri motori — insieme ai «casi» Marx e Heidegger — del nuovo saggio di
Donatella Di Cesare Sulla vocazione politica della filosofia (Bollati
Boringhieri). Scrive Donatella Di Cesare nel capitolo da cui prende
avvio il suo saggio: «Guardiano della città, già prima di Platone e
della sua politeia, Eraclito denuncia la notte politica». L’immagine
della «notte» viene da un paio di frammenti dell’opera perduta di
Eraclito, che paragonano la cecità impolitica dei suoi concittadini (di
Efeso, metropoli greca sulla costa asiatica) al torpore del sonno. A
significare che la vocazione politica è inerente al filosofare, e ne
costituisce l’avvio o anche la premessa, la Di Cesare parte da ben prima
di Platone e segue quel filo fino al nostro presente. L’autrice
potrebbe, credo, riconoscersi nelle parole con cui Togliatti tratteggiò
il cammino di Gramsci: «Nella politica è contenuta tutta la filosofia
reale di ognuno, nella politica sta la sostanza della storia, e per il
singolo, che è giunto alla coscienza critica della realtà e del compito
che gli spetta nella lotta per trasformarla, sta anche la sostanza della
sua vita morale» (Convegno Gramsci, Roma, gennaio 1958).
Ma il filo
conduttore è: «scardinare» l’esistente (Platone secondo Nietzsche)
ovvero «trasformarlo», secondo la insopprimibile «tesi su Feuerbach» di
Marx ventisettenne (1845). Il libro della Di Cesare è una battaglia in
favore di questa concezione della filosofia, in antitesi rispetto a
tutti i benpensanti (da Aristotele alla Arendt) secondo cui la
politicità totale del filosofare sarebbe «passo falso» o «tentazione di
intervenire». Per Aristotele (nel secondo libro della Politica) le
fondamenta e i presupposti della Kallipolis (città verso cui tendere) di
Platone — superamento della proprietà, della famiglia etc. — sono
devianze teoretiche e (forse anche) cadute immorali. La Arendt si
riferisce a Heidegger. È chiaro che l’impegno a fianco del
nazionalsocialismo fu un pauroso andare fuori strada, ma non lo fu il
fatto stesso dell’impegnarsi. E questo vale anche per Gentile. Nel
concreto dell’esistenza si sta «o con Lutero o con il Papa».
Il caso
Heidegger e il suo gigantesco abbaglio sono ben noti alla Di Cesare:
soprattutto, vien da dire, a lei, che ne ha attraversato il pensiero
come — diceva l’ex coraggioso poeta Orazio all’amico Asinio Pollione —
in una traversata «sui carboni ardenti».
Anche Platone, precoce, si
era coinvolto nel governo più demonizzato che Atene abbia mai visto
nella sua drammatica storia: quello dei Trenta cosiddetti «tiranni»,
capeggiati da Crizia, socratico e allucinato riformatore, di cui Platone
era nipote. E Platone non lo nasconde affatto, al principio della
lettera settima (che già per questa «confessione» sofferta e moralmente
elevata, è ovviamente autentica!): perché — afferma — quel governo si
proponeva come portatore di una rifondazione radicale della politica in
nome di alcuni «princìpi». Platone ne descrive anche il fallimento e la
sconfitta ma gli rende omaggio, del tutto controcorrente, rispetto al
perbenismo della cosiddetta democrazia restaurata. E nel Timeo, al
principio del dialogo — dove Socrate viene sollecitato da Timeo a
riassumere «ciò che ha detto il giorno prima» (cioè il nocciolo della
Repubblica) — Crizia dice a Socrate, rendendogli omaggio: «La città che
tu ieri ci hai descritta come una favola (la città riordinata secondo la
radicale proposta riformatrice illustrata nella Repubblica) noi la
trasferiremo nella realtà e la porremo qui» (Timeo, 26E). Platone fa,
qui, dire a Crizia, cioè al capo dei Trenta, parole che rivendicano
orgogliosamente la genesi socratica del tentativo (pur abortito) dei
Trenta e la coincidenza di quel tentativo (per lo meno nelle intenzioni)
col progetto «utopistico» contenuto nella Repubblica. La «leggenda
nera» gravante su Crizia viene così cancellata. Ma nell’Atene
democratica queste erano parole indicibili. E come dimenticare, a questo
punto, l’appropriazione nazionalsocialista di Platone (Hitlers Kampf
und Platons Staat di Bannes)?
Donatella Di Cesare, che ripercorre in
questo saggio il cammino di alcuni grandi filosofi che «si sporcarono le
mani», e descrive con efficacia l’esito di Marx come studioso che —
dopo reiterate sconfitte — «si ritirò sempre più in sé stesso per
scoprire anzitempo la legge della storia che avrebbe portato sino
all’ultimo salto prima del regno della libertà», lancia al termine una
sfida inattuale a chi predica (da qualche decennio) la fine della
storia, la fine del pensiero («delle ideologie» dicono i pappagalli
semicolti), cioè (suprema stupidità) la fine del moto perenne della
storia. E propugna in un «poscritto anarchico» una via d’uscita di
rifiuto indomito dell’arché, del comando. È certo consapevole del
rischio di ridurre così i filosofi a «testimoni», sia pure emozionanti. E
approda, a mio avviso, a un esito tolstoiano. Non è superfluo ricordare
qui, conclusivamente, che quel gigante del pensiero e dell’arte europea
che fu Tolstoj — il quale a lungo rifletté sul «moto storico»
incessante — diede impulsi profondi sia a Lenin che a Trotsky.