Corriere 1.10.18
Economia e politica
Le risorse contese tra i Poteri
di Ernesto Galli della Loggia
Una
delle peggiori conseguenze dell’arrivo al potere della coalizione
Lega-5Stelle è che da quel momento parlare di certe cose è diventato
politicamente sospetto. Si rischia di passare all’istante per tifosi dei
partiti di governo. Ma è un rischio da correre se si vuole cogliere ciò
che sta dietro la cronaca politica. Se ad esempio si vuole cogliere ciò
che sta dietro l’osservanza o meno delle regole europee in materia di
deficit. Che è, né più né meno, la questione cruciale del rapporto tra
la democrazia e il potere economico, tra la politica e l’economia.
Si
tratta di un rapporto per sua natura critico. La democrazia infatti è
nata per consegnare il potere politico nelle mani di coloro che non
hanno il potere economico. I quali costituiscono di regola la
maggioranza della popolazione, e perciò la maggioranza dei votanti. Ma è
una maggioranza, quindi, che verosimilmente adopererà il potere
politico così ottenuto soprattutto a un fine: quello di migliorare le
proprie condizioni di vita. La duplice conseguenza è che da un lato nei
regimi democratici il cuore dell’attività di governo consiste
inevitabilmente nello spendere (perlopiù a favore di chi non ha), e
dall’altro che il consenso elettorale dipende in misura decisiva dalla
promessa di farlo (o di abbassare le tasse, il che ha in sostanza lo
stesso effetto). Ne risulta che più di qualunque altro regime la
democrazia ha bisogno di risorse.
Di solito di una quantità di
risorse sempre crescente dal momento che sempre crescenti finiscono
fatalmente per essere le aspettative dei suoi cittadini. Il secondo
risultato è che al fine di procacciarsi tali risorse la politica
democratica è spinta altrettanto fatalmente a cercare di sottomettere ai
suoi bisogni l’economia: innanzi tutto limitando in vari modi il
diritto di proprietà. Non è un caso che alle origini della democrazia
moderna vi sia la lotta violenta che negli anni 30 il presidente
Roosevelt scatenò contro il potere giudiziario della Corte Suprema,
colpevole per l’appunto di voler difendere in nome della Costituzione
l’intangibilità del diritto di cui sopra. Si sa come finì: Roosevelt non
esitò a mutare la composizione della Corte e questa si rassegnò a
forzare la lettera della Carta nel senso voluto dal Presidente.
Sta
di fatto però che mentre fino agli anni 80 del Novecento questa
tensione tra politica ed economia, tipica della democrazia, aveva visto
per mezzo secolo una prevalenza della prima sulla seconda, da allora
invece le cose sono rapidamente cambiate. Dapprima la sovranità politica
ha preso a cedere terreno grazie alla proclamata indipendenza della
Banche centrali rispetto ai governi: il che ha voluto dire la perdita da
parte della politica stessa del controllo sui tassi di cambio tra le
monete e sui tassi d’interesse (innanzi tutto sui titoli di Stato) a
favore del mercato finanziario. Il quale, dal canto suo, pressoché
contemporaneamente assisteva anche a una completa liberalizzazione dei
movimenti di capitale vedendo perciò enormemente accresciuto il proprio
raggio d’azione e d’influenza: innanzi tutto rispetto ai bilanci statali
bisognosi di credito.
Da allora la politica è stata costretta a
continui passi indietro specialmente rispetto a un mercato finanziario
sempre più unificato e interconnesso, sempre più globalizzato, al cui
centro si collocano oggi non più di una trentina di grandi istituti
bancari, le cosiddette banche sistemiche, che naturalmente determinano
in misura decisiva gli andamenti di alcuni parametri chiave. Per avere
un’idea della loro stazza, e quindi del loro potere, basta pensare che
nel 2012 il totale dei bilanci di 28 di tali banche, ammontante a oltre
50 mila miliardi di dollari, superava l’ammontare dell’intero debito
pubblico mondiale. Si aggiunga che mentre tali banche superavano più o
meno brillantemente la crisi del 2007-2009, tra l’altro venendo
ricapitalizzate massicciamente dagli Stati, questi invece vedevano la
percentuale del proprio debito rispetto al Pil passare a livello
mondiale, tra il 2007 e il 2013, dal 53 al 70 per cento.
Il
risultato è che oggi, soprattutto in conseguenza della globalizzazione,
la politica ha perduto quasi interamente la sua antica sovranità
monetaria — un attributo, lo ricordo, che insieme al monopolio legale
dell’uso della forza ha da sempre connotato la statualità — a favore di
un ristretto conglomerato di istituzioni bancario-finanziarie in larga
parte deterritorializzate. Così come sono sempre più in larga parte
deterritorializzate anche le grandi imprese multinazionali operanti nei
vari Stati ma in grado di sottrarsi in notevolissima misura agli
obblighi della fiscalità e addirittura di mettere in competizione gli
Stati tra di loro per chi riesce a incamerare i loro (in genere assai
ridotti) esborsi tributari. Tutto ciò mentre a livello planetario i
paradisi fiscali si moltiplicano, sicché quote altissime di ricchezza
privata si sottraggono a ogni dovere di solidarietà, e di fatto il
carico tributario finisce sempre più per pesare sulle classi medie e
lavoratrici.
Nel mondo, insomma, minaccia di crearsi una inedita
condizione di tendenziale impoverimento/dipendenza economica degli
Stati. Questi si sono visti e si vedono via via sottrarre la possibilità
tanto di finanziarsi monetariamente quanto di ottenere per via fiscale
le risorse necessarie alla vita collettiva. Con il risultato di essere
viepiù costretti a indebitarsi con il sistema finanziario. Da anni, in
tal modo, gli Stati, cioè i loro cittadini, perdono indirettamente anche
capacità e sovranità politica. Chi, come è giusto, si preoccupa per
l’ondata di antipolitica che caratterizza il nostro momento storico —
cioè per il clima di sfiducia e di sprezzante disinteresse che circonda
la politica — non può fare a meno di considerare quanto dietro un
fenomeno del genere vi sia proprio la perdita d’incisività della
politica stessa specialmente in campo economico.
Certo: un fattore
scatenante dei nuovi orientamenti sopraggiunti negli anni 80 di cui ho
fin qui parlato è stata la rivolta delle opinioni pubbliche nei
confronti degli errori, degli sprechi, della corruttela di ogni tipo, di
cui la politica si è resa responsabile nei decenni in cui ha comandato
senza dover rendere conto a nessuno. Quando essa poteva abusare a suo
piacere della propria sovranità monetaria. Ma tutto ciò non deve far
dimenticare che alla lunga l’impoverimento tendenziale degli Stati
minaccia di avere conseguenze funeste sull’avvenire dei regimi
democratici. I quali hanno potuto conoscere il rafforzamento e il
radicamento che hanno conosciuto, hanno potuto ottenere il consenso di
massa di cui finora hanno goduto, solo grazie al fatto che tali regimi
sono stati in grado di distribuire risorse e assicurare protezione
sociale ai propri cittadini in una misura mai vista in precedenza.