venerdì 19 ottobre 2018

Corriere 19.10.18
Non solo la favola di Evita: il peronismo spiegato da Purgatori
di Aldo Grasso


In un recente editoriale sul Corriere, Angelo Panebianco parlava di una possibile deriva latinoamericana della nostra democrazia e in proposito, scriveva: «Spiegare i 5 Stelle non è difficile: variante italiana del peronismo, sono i rappresentanti di un Mezzogiorno che chiede più Stato e più sussidi».
In una sorta di staffetta ideale, mercoledì sera su La7, Andrea Purgatori ha spiegato cos’è stato il movimento di Juan Domingo Perón, il generale argentino che conquistò un enorme consenso popolare con la sua composita ricetta politica: la nazionalizzazione delle banche, le riforme socialdemocratiche, il corporativismo fascista, un forte patriottismo e il legame con la Chiesa cattolica: «La favola di Evita e l’illusione populista». Intervistato da Purgatori, il giornalista Horacio Verbitsky (suo il libro Il volo che ha permesso di fare luce sui desaparecidos, gli oppositori del regime dittatoriale gettati in mare da aerei militari) ha definito il peronismo come «un mostro mitologico, con un corpo operaio e una testa di destra».
Ma poco riusciremmo ad afferrare del peronismo senza l’incredibile storia di Maria Eva Duarte, una donna nata per comandare, che da figlia illegittima di un piccolo proprietario terriero diventa, dopo essere assurta a star della radio, la prima first lady del Sud America. Per moltissimi argentini è un’eroina venuta dal basso che, raggiunte le vette del potere, è tornata ad abbracciare il suo popolo. Per altri una donna che ha agito per appagare il suo desiderio di arrivismo e vendetta (come non ricordare il film di Alan Parker Evita, tratto da un celebre musical!).
Con altre interviste, Purgatori ha spiegato come il peronismo sia stato un movimento sincretico, caratterizzato dall’assistenzialismo statale e dall’esasperata incentivazione dell’autarchia economica, cui faceva riscontro, in politica estera, una netta professione di nazionalismo.

Repubblica 19.10.18
Resistere resistere resistere
"Alzati e cammina" una resurrezione laica
di Massimo Recalcati


Come si può intendere laicamente il mistero cristiano della resurrezione? Il corpo di Cristo che risorge dopo aver conosciuto l’assoluto nascondimento della morte, della fine della vita, non è solo una immagine consolatrice che dovrebbe liberare l’uomo dal peso insopportabile della sua finitezza, ma può essere assunto come il simbolo di una resistenza altrettanto assoluta della vita contro la tentazione della morte.
Non è, in fondo, questo uno dei significati fondamentali della predicazione di Gesù? Non abbiate paura perché non tutto è morte, perché il cuore della vita è più grande dell’ombra della morte!
Non a caso è nella parola antica Kum che è contenuto il tema della possibilità che la vita rinnovi se stessa proprio laddove pare morta, finita, consegnata ad uno scacco fatale. Kum è la parola-imperativo che, per esempio, nel testo biblico, Dio rivolge a Giona. Essa scuote il profeta dal suo letargo per consegnargli una missione impossibile che lo costringe a mettersi in movimento. Ma è anche la parola-imperativo che Gesù rivolge a Lazzaro: Kum! Alzati!
Cammina! Rimettiti in moto! Kum è la parola che riabilita la vita alla vita, proprio nel punto dove la vita si perde e muore. Ecco la cifra laica della resurrezione. Dobbiamo provare a vedere in Kum la parola che ispira ogni autentica pratica umana di cura. La posta in gioco è decisiva: è possibile rialzarsi, ricominciare, ritornare a vivere, anche quando l’esperienza della caduta, della malattia, del fallimento, della catastrofe appare senza rimedio alcuno? In gioco non è solo il destino individuale della vita, ma quella di una città, di un popolo, di un ideale, del nostro stesso pianeta. Il Grande Cretto di Burri che commemora il terremoto di Gibellina o il One World Trade Center di Daniel Libeskid che evoca il trauma dell’abbattimento delle Torri gemelle, non guariscono la ferita (inguaribile) ma la sanno incorporare in una forma nuova che consente alla vita di ricominciare a vivere. Il mistero della resurrezione, riletto laicamente, indica allora non solo e non tanto la possibilità eventuale che la vita possa esistere dopo la morte, tema caro a tutte le religioni, ma la possibilità di ridare vita ad una vita che sembrava perduta, di ricostruire una città distrutta, di ritrovare un popolo privato di ogni forma di identità, di restituire un volto umano alla vita dopo l’esperienza atroce dell’orrore.
La parola Kum!, Alzati!, è un appello che esige movimento, rilancio, responsabilità di un atto che sappia riaccendere la vita. In gioco è l’evento della sorpresa che sempre accompagna il "miracolo" dell’uscita della vita dalla zona sepolcrale della morte. Non è infatti proprio questa sorpresa al centro di ogni avventura di cura? Possiamo pensare esemplarmente ad alcuni casi clinici ritenuti senza speranza che, nel corso di una cura, risorgono contraddicendo i protocolli e le previsioni prognostiche più nefaste. Può accadere con bambini colpiti da malattie rare, con giovani afflitti da patologie mentali gravi, ma anche, in uno scenario meno drammatico, con studenti ritenuti dall’istituzione scuola senza speranza, cause perse, irrecuperabili. Può accadere con territori e città che hanno fatto esperienza - solo apparentemente irreversibile - della catastrofe. Ma più in generale ogni volta che incontriamo una resistenza insperata alla morte, ogni volta che incrociamo la sorpresa della vita che non cede alla morte e ricomincia a camminare, facciamo esperienza della resurrezione.
Come se la cifra ultima della resurrezione coincidesse con quella della insurrezione: non si tratta di respingere fobicamente la caduta o la malattia, il fallimento o la perdita inconsolabile, illudendosi che possa esistere una medicina capace di dissolverne la presenza scabrosa.
Piuttosto si tratta di non lasciare l’ultima parola alla morte. Per questo sappiamo che i momenti più fecondi per una vita sono quelli che implicano passaggi stretti, crisi, ferite. Tuttavia, affinché il "miracolo" della resurrezione si possa compiere è sempre necessario un atto di fede che non può essere confuso con una semplice credenza. Non si tratta tanto di avere fede in un salvatore, ma di avere fede nella forza stessa della fede. Quando una volta a Lacan chiesero in che cosa consistesse l’esperienza dell’analisi, egli rispose, molto semplicemente, che essa consisteva nell’offrire ad una vita persa, l’opportunità per "ripartire". Ebbene, la fede nel proprio desiderio è la condizione di base per questa ripartenza. Alzati! è la parola-imperativo che rimette in piedi e in movimento la potenza affermativa del desiderio contro la tentazione cupa, sempre presente negli umani, della morte. Perché, in fondo, se la resurrezione non può pretendere di curare la vita dal suo destino mortale - non può liberare la vita dalla morte - essa può invece liberare la vita dalla paura paralizzante della morte e dalla sua tentazione. Perché la paura della morte, umanissima quando riguarda la prossimità dell’evento della propria fine che ci priva della gioia infinita della vita, può nascondere talvolta la paura della vita. La tentazione della morte è, infatti, un modo per voler evadere dalla fatica che la vita impone. È questa la tentazione più grande.
Testimoniare che non tutto è morte, non tutto è devastazione, non tutto è destinato a finire, che risorgere è un compito della vita, è il segreto che la parola Kum! porta con sé nei secoli.

Corriere 19.10.18
La politica, i diritti e il dominio della tecnica
Lo scopo del capitalismo è diverso da quello della tecnica, che è l’aumento della potrenza
L’America e la Russia convergono nell’intento di mantenere l’Europa in posizione subordinata
di Emanuele Severino


Un libro di alto livello culturale sulla presente situazione del mondo, analizzata a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Ma scritto da un autore che può anche vantare, rispecchiandole nelle sue pagine, ampie esperienze manageriali e politiche, come ad esempio rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione Europea, ministro dello Sviluppo economico nei governi Renzi e Gentiloni, e così via. Sto parlando di Orizzonti selvaggi. Capire la paura e ritrovare il coraggio (Feltrinelli, 2018), di Carlo Calenda; il suo primo libro. Mette in luce i problemi che i popoli hanno oggi di fronte, ne propone soluzioni anche audaci, facendosi guidare dai principî della «democrazia liberale». Per l’Italia giunge a formulare un programma di governo di rilevante portata. In ogni caso, una felice sintesi tra visione d’insieme e percezione del «particulare».
Al centro del saggio, la tesi che la «globalizzazione», quale si è sviluppata negli ultimi trent’anni, ha favorito l’economia dei Paesi asiatici e soprattutto della Cina, ma ha fatto perdere all’Occidente (Stati Uniti e Europa, che della «globalizzazione» erano pur stati i promotori) la primazia culminata nel crollo dell’Unione Sovietica. Calenda ritiene che «per riportare nelle mani dell’Occidente il timone della globalizzazione» si debba «costruire una solida rete tra paesi democratici allo stesso stadio di sviluppo», dove il rapporto tra Usa e Europa è «prioritario» (p. 150). Questa tesi non sostiene che la rivincita dell’Occidente sia «inevitabile»: la competizione tra potenze «vecchie» (Occidente) e «nuove» (Paesi asiatici emergenti) può infatti portare o a uno «scontro», oppure a un «aggiustamento» dei loro rapporti (p. 152). Un «aggiustamento» molto difficile, osservo, perché sarebbe un togliere dalle mani delle «nuove» potenze «il timone della globalizzazione». Riprenderlo in mano significa per Calenda rimettere lo Stato alla guida dell’economia e della tecnica, dopo il tempo della sottomissione ad esse da parte della politica.
Gli effetti negativi (specie per l’Occidente) della «prima fase della globalizzazione» sono dovuti per Calenda anche all’innovazione tecnologica. Egli considera quanto sono andato scrivendo sulla «destinazione» della tecnica al dominio e mette in risalto come per me tale «destinazione» sia una «tendenza» che non predetermina il futuro. Se lo predeterminasse, sarebbe infatti irrealizzabile il progetto di rovesciare questa tendenza, rimettendo la politica e lo Stato alla guida dell’economia e della tecnica.
Sennonché la tecnica che è corresponsabile degli effetti negativi della globalizzazione è la tecnica gestita dal capitalismo, cioè intesa come mezzo per l’incremento del profitto privato. E che lo Stato e la politica possano porsi o riporsi alla guida dell’economia e della tecnica è una possibilità che riguarda i prossimi decenni, ossia il tempo che sta tra il presente e il tempo in cui la tecnica è «destinata» a liberarsi dalla sua soggezione all’economia capitalistica o ad altra forma ideologica come quella cinese, avendo quindi la possibilità di realizzare il più alto livello di benessere raggiunto dall’umanità.
La «destinazione» di cui parlo è sì una «tendenza», ma nel senso che per la cultura oggi dominante non esiste alcuna verità necessaria e incontestabile e quindi non può esistere nemmeno una connessione necessaria tra il presente e il futuro – sì che è una «tendenza» che domani sorga il sole o che un corpo lasciato a sé stesso cada verso il basso. E nei miei scritti l’affermazione che la tecnica è «destinata» al dominio non è un dogma ma è argomentata, ed è questo argomentare che va confutato se si crede che anche nei tempi lunghi lo Stato possa tornare alla guida della tecnica e dell’ economia. Considerazioni, queste, in cui si sottintende che tra capitalismo e tecnica ci sia differenza, spesso ignorata, giacché lo scopo del capitalismo (aumento del capitale) non è quello della tecnica (aumento della potenza, cioè della capacità di realizzare scopi).
Le pagine di Calenda sui contrasti tra Occidente e Paesi asiatici, tra Occidente e Russia e tra Occidente e Islam sono estremamente istruttive. Ma se la tecnica è destinata al dominio, nel senso indicato, allora tali contrasti, sebbene non meno temibili, sono di retroguardia rispetto al contrasto che vede tutte le forze contrastanti schierate dalla stessa parte contro la tecnica, in prospettiva vincente.
Dei progetti che si trovano al centro del saggio vorrei infine menzionare quello umanistico-democratico di non sacrificare i diritti dell’uomo alla tecnica (e all’ economia) e quello di arginare il tentativo della Russia di dissolvere il peso dell’Unione Europea. Quanto al primo chiederei a Calenda: non dobbiamo forse tener presente che al fondo di ogni modo (anche del più «umanistico») in cui la cultura dominante intende l’uomo, l’uomo è concepito come forza cosciente di organizzare mezzi in vista della produzione di scopi, e cioè come essere tecnico, visto che la tecnica è la forma più matura di questa organizzazione? Sì che la tecnica non è devastazione ma inveramento del modo in cui la cultura dominante intende da ultimo l’esser uomo?
Quanto al secondo progetto, relativo al rapporto tra Russia e Europa, sin dall’inizio il tentativo di unificare l’Europa dando vita a un terzo polo è stato ed è una minaccia per l’equilibrio stabilitosi tra le due superpotenze nucleari, Usa e Russia, che oggi si pongono alla testa di due mondi tra loro conflittuali. Lo scrivevo ancor prima della fine dell’Unione Sovietica. Nessuna meraviglia che l’attuale governo americano e russo convergano nell’intento di mantenere l’Europa in posizione subordinata.
Ma se la tecnica è destinata al dominio, queste forme di tensione non sono forse anch’esse contrasti di retroguardia rispetto all’inevitabilità che le Superpotenze e gli Stati divengano a loro volta mezzi per realizzare lo scopo della tecnica, la crescita indefinita della potenza? Fermo restando il mio completo accordo con Calenda sulla estrema complessità è imprevedibilità di tutti i contrasti di quel tipo.

il manifesto 19.10.18
Ilaria Cucchi accusa: «Nistri vuole punire i carabinieri testimoni»
L'arma del delitto . La sorella di Stefano parla dell’incontro col comandante dell’Arma. La ministra Trenta smentisce (ma non del tutto)
di Eleonora Martini


Nulla da ridire sull’incontro avuto mercoledì sera con la ministra della Difesa Elisabetta Trenta: «Le mie aspettative su di lei non sono andate deluse», premette Ilaria Cucchi – accompagnata dall’avvocato Fabio Anselmo e dall’ex senatore Luigi Manconi – davanti ad una platea di giornalisti di mezzo mondo riunita nella sala della Stampa estera.
Però, aggiunge scandendo molto bene le parole e dopo aver ricordato tutto il suo amore e la sua stima per l’Arma dei carabinieri, «dal generale Nistri mi sarei aspettata non dico delle scuse, perché avrebbe potuto essere per lui troppo imbarazzante, ma certo non 45 minuti di sproloquio contro Casamassima, Rosati e Tedesco, gli unici tre pubblici ufficiali che hanno deciso di rompere il muro di omertà» su quanto accaduto nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 a Stefano Cucchi, suo fratello, morto una settimana dopo essere stato arrestato. Il generale, aggiunge, «avrà sicuramente le sue ragioni, ma perché dirlo proprio in quella occasione? E perché dirlo a noi, parenti della vittima? Mentre è in corso un processo dove stanno emergendo gravissime responsabilità, siamo sicuri che vi sia proprio adesso una insopprimibile esigenza di punire proprio coloro che hanno parlato? Questo processo io, Fabio e la mia famiglia lo abbiamo fortissimamente voluto e ora il generale vuole colpire tutti coloro che hanno parlato».
Legge da un foglio, Ilaria, – cosa insolita per lei – perché, spiega, «sono troppo arrabbiata» per parlare a braccio. Racconta perché la sera precedente aveva evitato i giornalisti, al termine dell’incontro con la ministra Trenta e con il generale Giovanni Nistri: «Non era quella la sede per una cittadina normale come me».
Ma ora parla, dopo aver appreso dal comandante dell’Arma che saranno presi provvedimenti disciplinari di Stato contro i due coniugi che con la loro testimonianza hanno permesso la riapertura del processo, Riccardo Casamassima e Maria Rosati, e contro il vice brigadiere Francesco Tedesco che ha accusato del pestaggio di Cucchi i suoi co-imputati Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro e ha denunciato la scomparsa dei verbali da lui stesso redatti il 22 ottobre 2009. Tutti e tre hanno fatto l’”errore” ulteriore – oltre a quello di aver rotto l’omertà di corpo – di aver denunciato pubblicamente, sui social o davanti ai giudici, le «pesanti conseguenze» subite sul lavoro dopo la loro testimonianza.
«Danno peso ai post di Casamassima – riferisce Ilaria Cucchi – ma non ci difendono da quelli infamanti e violenti partoriti da pagine Fb e troll in gran parte gestiti da appartenenti a polizia e carabinieri. Ho chiesto aiuto, per questi, alla ministra Trenta che si è dimostrata molto sensibile. Non voglio odio ma solo verità e giustizia».
Perfino ieri, appena postata la notizia che qualcosa era andata storta durante l’incontro a Palazzo Baracchini, sulla bacheca di Ilaria Cucchi è comparso il messaggio di un hater. È successo spesso, in questi nove anni. Come è successo anche che uno degli imputati, il maresciallo Roberto Mandolini (il cui avvocato difensore ha accusato Tedesco di aver stretto un patto con il pm Musarò) abbia denunciato Ilaria Cucchi di diffamazione e le abbia chiesto 50 mila euro. Eppure questa donna lancia un appello a tutti: «Basta con gli insulti, basta con le violenze verbali, perché possono essere molto ma molto pericolosi».
Il genrale Giovanni Nistri
La ministra Trenta ha però prontamente – ma poco convintamente – confutato su Fb il resoconto di Ilaria Cucchi: «Il comandante Nistri non ha portato avanti alcun sproloquio e non ha manifestato nei confronti di nessuno pregiudizi punitivi. Ero presente, se lo avesse fatto sarei intervenuta! Semplicemente, ha rimarcato l’obbligo per tutti i gradi al rispetto delle regole, il che rientra nelle sue prerogative di Comandante».
Dunque la ministra non smentisce affatto che Nistri abbia parlato – in quella sede e ai familiari della vittima – di punizioni in arrivo per i tre carabinieri che hanno permesso la riapertura del fascicolo e l’evolversi del processo bis. Misure, che potrebbero comportare la destituzione o la sospensione dall’Arma, e che a Tedesco furono annunciati nello stesso giorno in cui venne ascoltato dalla procura e notificati il giorno dopo. Naturalmente Elisabetta Trenta non ammette dubbi sulla sua versione dei fatti: «Non sto offrendo una mia personale interpretazione. Sto raccontando solo quel che è successo».
Una «verità» che comunque non scioglie i dubbi sollevati dall’avvocato Pini, legale di Tedesco: «Ove le parole riferite da Ilaria Cucchi sul comandante Nistri fossero confermate, si tratterebbe di una anticipazione (riguardo la punizione, ndr) illegittima e ingiustificata, oltre che lesiva e dannosa per il mio assistito».
E mentre in procura il pm Musarò interrogava ieri per sette ore consecutive il luogotenente Massimiliano Colombo, comandante della Stazione Tor Sapienza indagato per falso ideologico nell’ambito della nuova inchiesta aperta dopo la denuncia di Tedesco, nella sala Stampa estera l’avvocato Anselmo si chiedeva: «L’arma è parte lesa? E allora perché non si costituisce parte civile?». E Manconi avvisava: «Abbiamo un problema grande come una casa, la democratizzazione dei nostri corpi di polizia».

La Stampa 19.10.18
Ilaria Cucchi contro Nistri:
“Vuole colpire chi ha parlato”
di Grazia Longo


Soddisfatta dell’incontro con la ministra della Difesa Elisabetta Trenta, delusa da quello con il comandante generale dei carabinieri Giovanni Nistri. Le parole di Ilaria Cucchi sono una chiara accusa: «Ora il generale vuole colpire tutti coloro che hanno parlato». Da lui «mi sarei aspettata non dico le scuse, perché avrebbe potuto essere per lui troppo imbarazzante. Ma non 45 minuti di sproloquio contro Casamassima, Rosati e Tedesco. Come a dire, ho pensato che gli unici tre pubblici ufficiali che hanno deciso di rompere il muro di omertà nel mio processo non sono degni di continuare ad indossare la divisa che io amo e che rispetto».
Polemica smorzata
La ministra Trenta però smorza la polemica: «Ho favorito un incontro perché credo nello Stato e nella giustizia. Ma soprattutto, perché credo nella verità. A tal proposito, il comandante dell’Arma dei carabinieri Nistri non ha portato avanti alcun sproloquio e non ha manifestato nei confronti di nessuno pregiudizi punitivi. Ero presente, se lo avesse fatto sarei intervenuta! Semplicemente, ha rimarcato l’obbligo per tutti i gradi al rispetto delle regole, il che rientra nelle sue prerogative di comandante». Francesco Tedesco è stato sospeso perché accusato di omicidio preterintenzionale. Idem i due colleghi Raffaele D’alessandro e Alessio Di Bernardo da lui indicati come gli autori del pestaggio. La ministra Trenta aggiunge: «Non sto offrendo una mia personale interpretazione dei fatti. Sto raccontando quel che è successo. Se c’è stata un’incomprensione non trapelata durante l’incontro mi spiace, poiché la natura stessa dell’incontro era quella di favorire un confronto aperto e trasparente». Ringrazia inoltre Ilaria «per le parole di stima nei miei riguardi e le rinnovo la mia più profonda vicinanza, confermandole il mio supporto nella ricerca della verità». Ilaria, sorella di Stefano Cucchi morto il 22 ottobre 2009, sette giorni dopo essere stato pestato a sangue in una caserma dei carabinieri dopo l’arresto per spaccio, è rimasta amareggiata dal fatto che «Nistri avrebbe potuto dirmi tante altre cose». Denunciando gli attacchi web subiti, ha inoltre precisato che non ha intenzioni di «fare carriera politica». Ieri intanto è stato sentito in procura il luogotenente Massimiliano Colombo. Il verbale è stato secretato ma pare abbia fatto luce sulla scala gerarchica che ha coperto il pestaggio.

Il Fatto 19.10.18
Ilaria: “Da Nistri attacchi ai tre che hanno parlato”
Cucchi - La sorella di Stefano contro il vertice dell’Arma: “All’incontro 45 minuti di sproloquio contro Tedesco, Rosati e Casamassima”
di Antonella Mascali


È provata e anche “molto arrabbiata”, per queste ragioni Ilaria Cucchi, ieri, ha cominciato una conferenza stampa leggendo le proprie riflessioni scaturite dall’incontro che ha avuto mercoledì sera con la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, e con il comandante generale dei carabinieri, Giovanni Nistri.
Con Trenta tutto bene, “mi sento protetta”, il problema che non l’ha fatta dormire la notte, invece, ha il nome del generale Nistri: “Mi sarei aspettata non dico delle scuse, perché avrebbe potuto essere per lui troppo imbarazzante, ma certo non 45 minuti di sproloquio contro Casamassima, Rosati e Tedesco, gli unici tre pubblici ufficiali che hanno deciso di rompere il muro di omertà nel mio processo”, ha detto la sorella di Stefano Cucchi, morto per le botte di alcuni carabinieri 9 anni fa il prossimo 22 ottobre. “Come a dire, ho pensato che gli unici tre pubblici ufficiali che hanno deciso di rompere il muro di omertà nel mio processo non sono degni di continuare a indossare la divisa. Io amo e rispetto i carabinieri, ma dei carabinieri hanno pestato a morte mio fratello e degli altri carabinieri li hanno protetti. Questo processo – ha proseguito – io, Fabio (l’avvocato Anselmo, ndr) e la mia famiglia lo abbiamo fortissimamente voluto, e ora il generale vuole colpire tutti coloro che hanno parlato. Danno peso ai post di Casamassima, ma non ci difendono da quelli infamanti e violenti partoriti da pagine di Facebook e troll in gran parte gestiti da appartenenti a polizia e carabinieri. Non voglio odio, voglio giustizia, per questo ho chiesto aiuto alla ministra Trenta, che si è rivelata molto sensibile. Basta con gli insulti e le violenze verbali, possono essere molto pericolosi”.
Si chiede come sia possibile che la priorità dei vertici dell’Arma sia quella di sanzionare chi ha parlato: “Siamo sicuri che vi sia proprio adesso una insopprimibile esigenza di punire proprio coloro che hanno parlato?”.
Ilaria Cucchi racconta anche gli interrogativi che le sono scaturiti dopo aver incontrato il generale Nistri: “Avrebbe potuto dirmi tante altre cose, ma ha ritenuto che quella fosse la cosa da dire, poteva davvero rappresentare un momento di svolta ma non ho compreso per quale motivo il comandante generale ha ritenuto di informare la sorella di Stefano Cucchi dei provvedimenti che l’Arma sta prendendo e prenderà nei confronti di tre persone, e cioè i carabinieri che hanno parlato nel corso del processo per mio fratello”.
Nella sala stampa estera, Ilaria risponde anche a chi le ha chiesto i costi di questa battaglia per la verità: “Costi emotivi enormi, la mia famiglia è devastata. I miei genitori non hanno più quella luce negli occhi che avevano prima, sopravvivono per questa battaglia e temo il loro crollo quando finirà il processo. Dopo 9 anni mio fratello non l’ho ancora lasciato andare. Tante volte ho chiesto scusa a Stefano quando sentivo al processo parlare di nostri contrasti, della sua fragilità. I miei figli, Valerio e Giulia, cresceranno senza lo zio, qualcuno li ha privati di questo. E poi ci sono i costi economici, i processi non sono per tutti. Ma finalmente si parla di quello che noi sapevamo da sempre e voglio ringraziare Fabio perché ha sempre creduto in questo processo”.

Repubblica 19.10.18
Intervista  a Susanna Camusso
"Il condono è uno schiaffo ai lavoratori onesti e cancella le misure sociali"
Rispetto l’autonomia dei Cinquestelle ma consiglierei al movimento di riflettere sullo scarto tra promesse e fatti
di Roberto Mania


ROMA «Questo condono è uno schiaffo doloroso in faccia ai lavoratori», dice Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil, secondo la quale la strada imboccata dal governo cancella quello che potenzialmente poteva esserci di buono nella prima legge di Bilancio del governo gialloverde: revisione della legge Fornero, introduzione del reddito di cittadinanza, rafforzamento degli ammortizzatori sociali. Tutto in secondo piano.
Dunque, questa è diventata la "manovra del condono"?
«Sì. Per le dimensioni della sanatoria, per le sue caratteristiche.
C’è dentro di tutto e anche cose indicibili: dal riciclaggio alla sanatoria degli abusi immobiliari. È quasi come dire al mondo: "Evadere è bello". Penso che sia uno dei più grandi condoni — e ne abbiamo avuti! — della nostra storia.
Un’operazione di tale rilevanza che cambia l’insieme della manovra».
Cosa vuole dire una manovra con queste caratteristiche per il mondo del lavoro dipendente che lei rappresenta?
«Le ho detto: uno schiaffo in piena faccia. Non stiamo parlando di piccole cifre né di una sorta di evasione di sopravvivenza legata a difficoltà temporanee. Questo è un invito ad arricchirsi illegalmente. E tutti sanno che i pensionati e i lavoratori dipendenti sono invece buoni e fedeli contribuenti. Anche questa volta saranno loro a pagare, perché non ci saranno riduzioni del carico fiscale per effetto della flat tax che non ha alcun criterio di progressività, e perché la riduzione delle entrate dovute al condono determineranno una riduzione delle risorse disponibili ai processi di redistribuzione e per la spesa sociale. Una pessima vicenda».
Le sembra possibile che il Consiglio dei ministri abbia approvato un testo e che poi ne sia stato definito un altro da inviare al Quirinale?
«Mi sembra tutta incredibile questa storia. Un governo dovrebbe essere per definizione un luogo di collegialità ma il solo fatto di parlare di una "manina" fa capire che non lo sia affatto. È difficile credere a una storia del genere se non entrando in una logica complottista. Piuttosto mi pare che emergano problemi di funzionamento, di trasparenza, di collegialità dell’intero governo.
Sembra che ciascuno curi il proprio pezzo di programma e di elettorato.
Ma qual è l’idea comune?».
È una vicenda che fa perdere la presunta verginità dei 5S sulla quale si è fondata buona parte del loro consenso?
«Sono rispettosa dell’autonomia degli altri perché sono gelosa di quella della Cgil. Consiglierei, se fosse possibile, di svolgere all’interno di quel movimento, qualche riflessione in particolare sullo scarto tra le promesse fatte e le cose che si stanno realizzando».
Il profilo sociale della manovra con diversi punti di contatto con la Cgil è definitivamente compromesso?
«Nella diffidenza generale abbiamo sempre detto che nelle prospettive di azione del governo c’erano temi che parlavano direttamente alla condizione del lavoro. Ma se la cornice di quelle proposte diventa il condono cambia molto. Il trittico, reddito di cittadinanza, quota 100, ammortizzatori sociali, ha una dimensione sociale. Ma accanto, ora, si vede il favore fatto ai furbetti dell’evasione e dell’abusivismo e non certo un progetto di espansione degli investimenti, di miglioramento della qualità dell’occupazione, di rafforzamento delle conoscenze del capitale umano. Il rischio è che si riduca tutto a meccanismi assistenziali, senza una prospettiva di sviluppo».
E rischiamo il declassamento del rating sul debito con danni anche per i lavoratori.
«Non credevo e non credo che le agenzie di rating siano il "verbo" anche se so bene che i movimenti speculativi si ripercuotono sui redditi da lavoro e sui mutui dei lavoratori».
Perché parla di speculazione?
«Perché lo è, perché parte in anticipo, è preventiva».
Con un governo che aumenta il debito e con settori della maggioranza che evocano l’uscita dall’euro non è logico che accada?
«Si può dire tutto il male possibile di questo governo però è difficile non vedere che queste regole europee, quelle del Fiscal compact e di Maastricht, sono tra le ragioni che non hanno permesso politiche espansive negli anni passati nel nostro Paese. Il problema non è, entro un certo limite, fare debito ma come lo si utilizza. È quello che manca nelle scelte della Commissione e che si riflette nella lettera che la Ue ha inviato: non c’è distinzione tra utilizzo delle risorse e rigidità delle regole».
A proposito di regole, anche la sua scelta di indicare Maurizio Landini come prossimo segretario della Cgil è stata letta in settori della confederazione come una forzature delle regole interne. Lei è certa che Landini sarà eletto dal congresso? C’è chi teme una Cgil filo-grillina.
«Le regole valgono per tutti e sono state rispettate. Non abbiamo bisogno di cartomanti. Anche quella della "Cgil filo-qualcosa" è una caricatura figlia di una diffusa pigrizia intellettuale che pensa di poter leggere tutte le dinamiche secondo il codice della politica. È un gioco per svilire la rappresentanza sociale e la sua autonomia».

Repubblica 19.10.18
La danza dei folli sul burrone
di Claudio Tito


Uno spettacolo deprimente. Mentre il governo della settima economia del mondo si rivela incapace di scrivere correttamente persino la fondamentale legge di Bilancio e i decreti ad essa collegati, intorno al fortino sempre più asserragliato di Palazzo Chigi tutto inizia a crollare. E a nessuno di questa maggioranza giallo- verde viene in mente che il burrone verso il quale si sta dirigendo l’Italia lo stanno scavando loro e non la "perfida" Unione europea.
Ecco il pericoloso paradosso sul quale sta sconsideratamente danzando questa coalizione. L’azzardo è finito, ma non se ne rendono conto. La Commissione europea boccia la manovra, e loro pensano al complotto. I mercati bastonano il nostro debito pubblico e loro puntano l’indice contro la speculazione. Come se nel recinto ristretto dei confini italiani, il voto del 4 marzo possa rendere immune questo esecutivo da qualsiasi critica. Anche di chi deve decidere dove investire i propri soldi. Soprattutto non avvertono quello che in ogni fase e ambito della amministrazione pubblica dovrebbe essere prioritario e irrinunciabile: il senso del limite. E invece l’unica vera linea di demarcazione che viene colta è quella dell’interesse di partito, della demagogia elettorale, dell’interesse individuale. La differenza tra raccolta e esercizio del consenso è del tutto assente. Litigano inventandosi così manine e manone senza capire che questo è semplicemente il risultato dell’arroganza dell’ignoranza.
Lo scontro in corso tra Lega e M5S, però, sta smascherando la finzione su cui è stato edificato il complesso grillo-leghista. Un accordo di convenienza, costruito sulla somma delle singole opportunità che si è trasformato rapidamente in patto di potere. Quando gli interessi non sono più conciliabili, il famigerato contratto presenta allora il conto e manifesta le sue incongruenze.
La lite tra Di Maio e Salvini è proprio l’essenza dell’inganno organizzato dai giallo- verdi. Anzi, un doppio inganno: una truffa perpetrata contro gli elettori fino al 4 marzo scorso e contro tutti gli italiani dopo il voto. In campagna elettorale hanno promesso l’impossibile. Basti guardare la retromarcia del Movimento 5 Stelle sull’Ilva, sul Tap e in parte anche sulla Tav. Una volta al governo, invece, continuano a far credere che questa manovra economica sia realizzabile senza controindicazioni. Non spiegano che l’aumento del debito ricadrà solo sui cittadini, che lo spread in crescita colpirà in primo luogo le famiglie, che la riforma delle pensioni penalizzerà il futuro previdenziale di chi oggi è giovane, che quando chiedono alle aziende pubbliche di aumentare gli investimenti, la maggior parte di questi investimenti verranno pagati dagli italiani attraverso le tariffe.
Lo stato di incoscienza in cui versa l’esecutivo, del resto, si identifica nei comportamenti e nelle parole pronunciate dal presidente del consiglio. Conte nei suoi incontri internazionali – la prova è stata il Consiglio europeo di ieri a Bruxelles – offre la perenne impressione di non intuire nemmeno la vera posta in palio. Sembra semmai alimentarsi di quello strano frutto autarchico coltivato alternativamente da Salvini e da Di Maio. Eppure lo strapiombo è lì davanti al Paese. Dovrebbe essere in primo luogo lui a percepire il pericolo e invece – teleguidato dai due soci in gara a chi è più populista e demagogico – si tuffa roboticamente nel mare dell’avventurismo. Il leader leghista dice «il governo va avanti» e lui va avanti. Il capo grillino spiega lo spread con la campagna elettorale per le prossime europee, e lui si lancia in un ruggito afono contro la cancelliera Merkel o contro Juncker. Ignorando del tutto i fatti: la curva del nostro debito pubblico o il rischio di assistere ad un’altra crisi di liquidità nelle banche come nel 2011.
C’è dunque una questione che nessuno in questa maggioranza prende in considerazione: si chiama capacità di governo. Ne sono deficitari soprattutto i pentastellati, anche nel confronto con i leghisti. La denuncia che Di Maio vuole presentare contro chi ha modificato il decreto fiscale, è di fatto un’autodenuncia. La capacità di governo si sostanzia pure nella perizia con cui si discutono e si trattano i provvedimenti. Le "manine" sono un alibi per nascondere le inefficienze di un personale politico improvvisato. L’arroganza dell’ignoranza si sostanzia in questi momenti. Il populismo, quando viene traslato dalla campagna elettorale alla gestione della macchina statale, non può che mimetizzarsi dietro le presunte macchinazioni altrui. I politici così si trasformano da classe dirigente in classe compiacente. Per conservare i voti non hanno altra scelta che compiacere gli elettori anziché guidarli. E per raggiungere l’obiettivo hanno bisogno consapevolmente di distruggere chi sa di più e inconsciamente di disarticolare lo Stato.
La politica, però, in questo modo smarrisce la sua funzione: non è più la professione delle professioni. E il governo non è più l’esercizio responsabile di quelle professioni. Eppure, chi si ritrova - per caso o per destino - nella struttura dell’esecutivo non può limitarsi a navigare su internet per informarsi o captare i sentimenti del Paese. Non può ridursi a organizzare qualche troll (i profili provocatori e falsi) su Twitter per dimostrare di essere all’altezza del compito ricevuto. La competenza dovrebbe essere un prerequisito. Senza di esso, in un mondo globalizzato e sempre più concorrenziale, una classe di governo rischia di provocare il danno più grave: sottrarre il destino del Paese al controllo e alla volontà dei suoi cittadini, e di consegnarlo al di fuori dei confini nazionali. Un contrappasso per i sovranisti nostrani. Un’onta per la loro ideologia nazionalista, una rovina per tutti gli altri.

La Stampa 19.10.18
La Cina manda in orbita la sua Luna
Nasce la prima metropoli senza buio
La città di Chengdu dal 2020 itilizzerà un sistema di specchi per riflettere la luce del sole ed eliminare l’illuminazione notturna
I vantaggi energetici e i cantieri sempre aperti. Ma è allarme per gli animali che dovranno adattarsi aòòa mancanza di oscurità
di Vittorio Sabadin


La metropoli cinese di Chengdu lancerà in orbita nel 2020 una luna artificiale che rifletterà la luce del Sole sulla città e nei dintorni, per un raggio di 80 chilometri. Non si tratta di avere qualche notte romantica in più: la luna artificiale sarà otto volte più brillante di quella vera e restando sempre accesa consentirà un significativo risparmio sulla bolletta dell’illuminazione delle strade, che in un agglomerato urbano di 15 milioni di abitanti deve essere piuttosto salata. Ne ha dato notizia il “Quotidiano del Popolo”, organo del Comitato centrale del partito comunista cinese, e dunque non dovrebbe trattarsi del solito annuncio al quale non seguono fatti concreti. «Ci lavoriamo da anni - ha confermato Wu Chunfeng, responsabile del Chengdu Aerospace Science, un organismo statale - e la tecnologia è finalmente abbastanza matura per un lancio nel 2020».
I progetti falliti
È da molto tempo che gli scienziati sognano di mettere in orbita specchi che riflettano la luce solare. I russi ci provarono nel 1990 con il satellite Znamaya, che aveva una parabola riflettente di 20 metri. Ma il fallimento del lancio nel 1999 del più perfezionato Znamaya 2.5 bloccò il progetto che prevedeva uno Znamaya 3, con uno specchio di 70 metri. Già nel 1929 Hermann Oberth, lo scienziato tedesco più ammirato da Wernher von Braun, aveva proposto di lanciare specchi riflettenti intorno alla Terra, ma era dai tempi di “Una cascata di diamanti” di James Bond che non si vedeva qualcosa di nuovo e di più fattibile in questo campo.
I cinesi potrebbero riuscirci. Il cattivo di 007, Blofeld, aveva mandato in orbita una pesante parabola costellata di diamanti che riflettevano la luce del Sole, ma ora pannelli leggerissimi e sottili come un foglio di alluminio compiono meglio lo stesso lavoro. Senza lanciare nessun satellite, ma semplicemente installando specchi riflettenti su una montagna, piccoli centri urbani come Rjukan in Norvegia o Viganella in Val d’Ossola hanno rimediato alla carenza di luce solare in inverno.
Chengdu può fare molto di più, visto che è uno dei principali centri di ricerca nell’alta tecnologia, ha fiorenti industrie come quella dell’auto ed è una delle città più ricche e innovative della Cina. I suoi abitanti sono inoltre piuttosto determinati: è una delle pochissime località che non hanno mai cambiato nome nei passaggi dall’era imperiale a quelle repubblicana e comunista.
La luna artificiale di Chengdu è stata progettata in modo da riflettere la luce su un’ampia area, mentre i russi negli Anni 90 si fermavano a poche centinaia di metri e a una luminosità precaria. Inoltre la tecnologia ora disponibile consentirà di concentrare l’illuminazione dove serve, anche in zone molto ristrette come particolari piazze o quartieri. Dal 2020, Chengdu potrà spegnere i lampioni delle strade e approfittare di una luce lunare diffusa, migliore di quella che oggi possiamo vedere nelle strade di campagna quando c’è la Luna piena.
Non tutti pensano che si tratti di una grande trovata. Data la minaccia del riscaldamento globale, occorrerebbero specchi che riflettessero la luce del Sole verso la spazio e non verso la Terra nei pochi momenti in cui il pianeta si gode un po’ di fresco. E poi gli esseri umani come reagiranno alla mancanza di buio? Ne abbiamo bisogno come della luce. E gli animali, la cui vita è regolata più della nostra dal ritmo circadiano? Il “Quotidiano del Popolo” rassicura: gli animali non soffriranno, la luce della luna artificiale sarà morbida come un bagliore polveroso.
I vantaggi potenziali sono invece evidenti: risparmio energetico, migliori risultati in agricoltura, maggiore efficienza nell’edilizia che non dovrà più fermarsi di notte, e persino interventi più efficaci dei soccorsi nelle zone colpite da disastri naturali. E poi i turisti, che arriveranno a frotte per un selfie con la luna artificiale, che diventerà molto presto più desiderabile di quella vera.

La Stampa 19.10.18
Usa e Cina accerchiano l’Europa
di Bill Emmott


L’Europa ha vissuto per decenni con un bullo che usava il suo potere legale e finanziario per superare i propri confini, ma ha accettato il comportamento extraterritoriale dell’America perché di solito era allineato con gli interessi europei. Ma le cose stanno cambiando: ora il bullismo americano è spesso in conflitto con gli interessi europei; e un secondo bullo sta flettendo i suoi muscoli extraterritoriali, la Cina.
Perciò l’Europa ha bisogno di rafforzare la sua resilienza e la sua indipendenza per sopravvivere in questo nuovo mondo a doppia prepotenza. Gli Usa sono consumati maestri della giurisdizione extraterritoriale. Hanno spesso usato le sanzioni economiche, il lungo braccio della legge degli Stati Uniti e la profonda influenza del sistema finanziario statunitense per raggiungere i loro obiettivi. Ma in linea di massima lo hanno fatto con moderazione e con una preferenza per l’uso della loro potenza militare e, quando era possibile, della loro influenza diplomatica e culturale.
L’amministrazione Trump non conosce la parola «moderazione». Sa che l’uso del potere militare è impopolare e disprezza la diplomazia. Da qui il recente aumento del potere finanziario e giuridico extraterritoriale, multe, cause legali e congelamenti bancari, come mezzo per imporsi su paesi e aziende che non sono d’accordo con gli Usa sull’Iran o la Russia, e per costringere gli altri a fare pressione sulla Corea del Nord anche mentre Trump parla della sua nuova storia d’amore con il dittatore Kim Jong-un. Più recentemente, nel trattato commerciale concordato questo mese con il Messico e il Canada per sostituire l’Accordo di libero scambio nordamericano degli Anni 90, l’amministrazione Trump ha inserito una clausola che conferisce agli Usa potere di veto su qualsiasi accordo commerciale del Messico o del Canada con un’«economia non di mercato», vale a dire la Cina.
Gli Stati Uniti dichiarano di voler inserire clausole equivalenti in qualsiasi altro trattato commerciale decidano di negoziare, con il Regno Unito, l’Ue o il Giappone.
La Cina è l’obiettivo di questa clausola, ma sta cominciando ad agire in modo simile. L’arresto, reso noto questa settimana, del presidente cinese dell’Interpol, dimostra che è altrettanto convinta che la legge cinese possa estendersi a tutto il mondo. Certo, Meng Hongwei potrebbe essere stato arrestato per presunti reati commessi in patria, ma è altrettanto probabile che sia caduto in disgrazia con il presidente Xi Jinping per altri motivi.
L’uso della legge cinese per punire i cittadini cinesi potrebbe anche non essere la prima preoccupazione per gli europei. Ma dimostra che la Cina si aspetta di avere la stessa libertà di manovra degli Stati Uniti, poiché si considera una potenza di pari livello. Man mano che i suoi interessi globali crescono, e il peso dei prestiti cinesi aumenta la dipendenza dei Paesi dal Regno di Mezzo, cresce l’impulso a usare il suo potere extraterritoriale.
Lo conferma il suo comportamento nel Mar Cinese Meridionale, dove ha costruito basi militari su terreni bonificati in aree rivendicate dalle Filippine, dal Vietnam e da altri paesi, ignorando le decisioni dei tribunali internazionali. Come gli Stati Uniti, la Cina ritiene di poter agire con impunità per perseguire i propri interessi strategici.
E in gran parte è proprio così. Tutti i Paesi più piccoli e persino l’Unione europea sono inermi di fronte a questo bullismo. Per le nostre imprese le due maggiori economie del mondo, che rappresentano insieme circa il 35-40% del Pil mondiale, sono troppo importanti per essere ignorate.
Ciononostante, noi europei possiamo rafforzare le nostre difese in modo da essere meno vulnerabili di fronte a questa prepotenza e più capaci di scongiurarlo.
Il modo più efficace è anche il più difficile: costruire attorno all’euro un’unione monetaria sicura, credibile e pienamente funzionante. L’euro è già la seconda maggiore valuta di riserva del mondo, ma è ancora molto indietro rispetto al dollaro. Troppe poche transazioni avvengono in euro e c’è troppo poca liquidità per dare alla moneta un vero peso. Ma questo nel prossimo decennio potrebbe cambiare, se i Paesi dell’Ue ne avranno la volontà politica. Lo slogan dei sovranisti che vogliono resistere alle interferenze straniere dovrebbe essere «Prima gli europei», non «Prima gli italiani».
Il secondo modo consiste nel rinforzare le alleanze con i Paesi che la pensano allo stesso modo. Questo significa Giappone, Canada, Australia, Svizzera, Brasile, India e Regno Unito post-Brexit. Tutti sono vulnerabili al potere extraterritoriale degli Stati Uniti e della Cina. Tutti condividono l’interesse a proteggere l’Organizzazione mondiale del commercio, a difendere i sistemi di pagamento internazionali e a preservare la fragile struttura del diritto internazionale.
Non abbiamo bisogno di agire in modo ostile. Ma per essere indipendenti in un mondo a doppia prepotenza, dobbiamo essere forti e dobbiamo farci rispettare dai bulli.
Traduzione di Carla Reschia

La Stampa 19.10.18
Lo spazio aereo reclamato da Pechino
Mar Cinese meridionale
Gli Usa mandano i B-52


Tornano i bombardieri Usa nei cieli del Mar Cinese Meridionale, a poche ore dall’inizio del meeting dei ministri della Difesa dell’Asean.
L’Asean è l’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico: si è aperto ieri a Singapore con la partecipazione del segretario alla Difesa Usa, James Mattis, e il ministro della Difesa cinese, Wei Fenghe. I due bombardieri B-52 sono partiti dalla base aerea di Guam, nell’Oceano Pacifico, per una «missione di routine» in uno spazio aereo che Pechino rivendica come proprio, secondo un comunicato emesso dal Pacific Air Forces.
La militarizzazione del Mar Cinese Meridionale da parte della Cina rimane uno dei principali terreni di frizione tra Pechino e Washington, soprattutto dopo l’incidente sfiorato il 30 settembre scorso in acque rivendicate dalla Cina tra un cacciatorpediniere di Pechino e uno statunitense.
L’incidente ha prodotto un nuovo raffreddamento nei rapporti bilaterali, già turbolenti per le dispute sul commercio tra Washington e Pechino: Mattis e Wei avrebbero dovuto incontrarsi anche settimana scorsa, in occasione della seconda edizione del Dialogo su Diplomazia e Sicurezza tra Stati Uniti e Cina, che è però stato annullato.

il manifesto 19.10.18
Canberra pronta a riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele
Australia/Medio oriente. L'annuncio fatto dal premier Scott Morrison, un cristiano evangelico alleato di Trump, rischia di mandare a monte l'accordo commerciale con l'Indonesia da 10 miliardi di euro e di rovinare le relazioni con i paesi asiatici a maggioranza islamica.
Il premier australiano Scott Morrison
di Michele Giorgio


Si tinge di giallo l’annuncio fatto qualche giorno fa dal primo ministro Scott Morrison che il suo governo prenderà in seria considerazione il trasferimento dell’ambasciata australiana da Tel Aviv a Gerusalemme, sulle orme di Donald Trump. Annuncio che per la stampa australiana equivale a una certezza. Alle proteste e alle polemiche politiche generate da questo passo si è aggiunta la contrarietà, per ragioni di sicurezza, dei servizi segreti australiani al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele. Opposizione di cui Morrison non ha tenuto conto. Qualcuno ha provveduto a far arrivare alla stampa il documento inviato dai servizi al premier e la maggioranza punta l’indice contro l’opposizione laburista che si oppone, almeno in questa fase, al trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme. Israele segue con grande attenzione gli sviluppi. Benyamin Netanyahu è fiducioso. Morrison, pensa il premier israeliano, rispetterà l’intenzione espressa in ragione anche della fedeltà australiana alla politica estera degli Stati uniti.
In Australia il dibattito è sempre più acceso. Il primo ministro sta ricevendo importanti sostegni al trasferimento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. L’opposizione da parte sua parla di “manovra” elettorale di Morrison, un cristiano evangelico osservante, per conquistare i voti degli australiani ebrei in vista delle votazioni di domani a Wentworth, anche a costo di mettere a rischio le relazioni con i paesi asiatici a maggioranza islamica. A Wentworth, dove il candidato di Morrison, Dave Sharma, non è sicuro di vincere, c’è una comunità ebraica significativa che compone il 13% circa dell’elettorato. E il premier vuole quel seggio a tutti i costi perché è fondamentale per la stabilità della sua maggioranza. Così è pronto a svendere i diritti dei palestinesi su Gerusalemme e a violare il diritto internazionale come ha fatto Trump. Le conseguenze per l’Australia però potrebbero rivelarsi serie, anche dal punto di vista economico.
Canberra lavora da anni a un accordo di libero scambio con l’Indonesia – lo Stato musulmano più popoloso – del valore di oltre 16 miliardi di dollari australiani (circa 10 miliardi euro). Non a caso anche Morrison, come il suo predecessore Malcom Turnbull, ha effettuato il primo viaggio all’estero da premier proprio in Indonesia, dove ha incontrato il presidente Joko Widodo e si è impegnato a firmare l’accordo di libero scambio prima della fine dell’anno. L’annuncio del trasferimento a Gerusalemme dell’ambasciata australiana peraltro è esploso come una bomba quando il ministro degli esteri palestinese, Riyad al Malki era in visita Jakarta, rendendo più dura la posizione dell’Indonesia che da giorni riafferma il suo disappunto per la mossa australiana. Il primo ministro designato della Malesia, Anwar Ibrahim, avverte che l’Australia rischia di compromettere le sue relazioni con molti paesi asiatici e preoccupazione è stata espressa anche dalla prima ministra della Nuova Zelanda, Jacinda Ardern, nettamente contraria a seguire le orme di Trump. Le reazioni più forti arrivano dal mondo arabo. Il rappresentante dell’Olp in Australia, Izzat Salah Abdulhadi, e i diplomatici di 13 ambasciate mediorientali a Canberra tre giorni fa hanno condannato Morrison sottolineando che un nuovo riconoscimento unilaterale di Gerusalemme come capitale di Israele compromette ulteriormente la nascita di uno Stato palestinese sovrano con capitale la zona araba di Gerusalemme.
Le decisione dell’Australia è molto importante perché, a quasi un anno di distanza, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele fatto da Donald Trump non ha prodotto l’effetto domino che l’Amministrazione americana e il governo Netanyahu si attendevano. Solo il Guatemala ha seguito il presidente americano. Lo scorso maggio il Paraguay aveva trasferito la sua ambasciata a Gerusalemme ma poi Asuncion ha fatto marcia indietro e si è schierata sulle posizioni palestinesi.

il manifesto 19.10.18
Pd, un congresso di riscatto o una conta feroce
Congresso dem. Il rischio reale è che chiunque vinca si ritrovi a guidare un partito senza più militanti e passione. Coinvolgere chi non si riconosce nel governo ma non si fida più di noi. Ne parliamo a Milano.
di Gianni Cuperlo


Il Partito democratico a sette mesi dalla più pesante sconfitta elettorale degli ultimi anni si avvia, salvo imprevedibili cambi di scena, ad affrontare il congresso più difficile della sua pur giovane storia. Difficile per il contesto politico ed economico nazionale ed internazionale, in un’Europa che vede in atto un conflitto sistemico nel quale si scontrano due impianti culturali e due visioni alternative della democrazia.
Siamo nel pieno di un cambiamento epocale perché quella che sta avanzando su scala mondiale non è una destra liberale: è una destra nazionalista e aggressiva che mette in discussione alcuni dei pilastri della democrazia minando alle fondamenta la stessa Unione Europea.
E il Partito democratico come arriva a questa sfida? È questa la domanda a cui è più urgente dare risposta e il congresso dovrebbe essere l’occasione permettere in campo piattaforme programmatiche in grado di offrire una visione del Paese e dell’Europa dal nostro punto di vista, dal punto di vista di una sinistra radicalmente alternativa a questa destra.
Dovrebbe essere l’occasione per riaprire luoghi di discussione e di inclusione nel dibattito politico allargando il nostro campo a quella larga parte di società civile, intelligenze, movimenti e associazionismo, che ha smesso di guardare a noi come interlocutori in grado di fare sintesi tra le istanze di chi vive in condizioni di maggiore sofferenza nella sua quotidianità e che continuano a non trovare rappresentanza.
I mesi che ci separano dalle primarie con le quali si eleggerà il prossimo segretario del Pd possono seguire due diverse direzioni: la solita guerra feroce tra eserciti, una conta tra chi sta con chi, con il rischio che chiunque vinca si ritrovi a guidare un partito senza più militanti, passione, politica, popolo; o un processo di radicale e profondo cambiamento di paradigma. Spetta a noi, ognuno di noi, chiedersi quale strada vogliamo tracciare.
Da questa scelta dipenderà anche la capacità di mobilitare quella parte del Paese che non si riconosce in questa maggioranza di governo ma che non si fida più di noi. Dobbiamo attrezzarci ed essere in grado di tornare protagonisti di una nuova stagione politica, quando la luna di miele tra questo governo e il Paese finirà di fronte alla disillusione delle promesse elettorali, di fronte alla vera portata di questa manovra economica che produrrà un aumento del deficit ma non porterà la “fine della povertà” incautamente annunciata dal vice premier Luigi Di Maio. Questo è il tema che abbiamo di fronte: dare forma e sostanza ad un progetto alternativo credibile.
Noi proviamo a dare un nostro contributo al dibattito, anteponendo i programmi e i contenuti ai nomi, provando a ribaltare lo schema rimettendo al centro la politica prima ancora di alleanze strategiche congressuali.
A Milano, oggi e sabato apriremo un confronto sui temi di stretta attualità, dalle elezioni europee della prossima primavera – che saranno forse per la prima volta nella storia dell’Unione europea elezioni politiche – al congresso del Pd che o sarà di vera svolta rispetto a tutto ciò che abbiamo alle nostre spalle o servirà soltanto a regolare conti interni di cui né il Paese né i democratici hanno bisogno. Ci siamo dati appuntamento alla Fonderia Napoleonica (via Tahon di Revel, 21) a partire dalle 17,30. Tre le parole che ci guideranno: Europa, sinistra, riscatto. Nel bagaglio mettiamoci passione.
*Partito democratico

il manifesto 19.10.18
I patrioti della razza
Ucraina. Al congresso di Kiev dei neofascisti europei - presente per l’Italia Casa Pound - Greg Johnson, l’ideologo nazista statunitense, saluta l’avvento al potere «di Trump, Salvini e Kurz»
di Yurii Colombo


Domenica scorsa si è concluso il week-end dell’«internazionale nera» a Kiev. Una vera e propria adunata di gruppi neofascisti europei che ormai da qualche anno hanno individuato «nell’avamposto ucraino» la base per progettare un continente «etnicamente bianco», «antimondialista» e «free-gay». Alla iniziativa lanciata dal braccio politico del famigerato battaglione Azov «NazKorp» e sostenuta dagli altri due partiti neonazisti ucraini Pravy Sektor e Svoboda, hanno aderito anche formazioni di Francia, Svezia, Danimarca, Svizzera, Germania, Polonia e Bielorussia. A rappresentare l’Italia in questa pericolosa accolita di rottami politici, Casa Pound Italia.
L’INIZIATIVA aveva preso il via già due giorni prima quando si era tenuto un primo seminario del «Intermarium Support Group» una sorta di ong neofascista, o come l’hanno definita gli organizzatori una «rete per la promozione di progetti per la cooperazione regionale nei settori della difesa, dell’economia e della cooperazione» . Tante giacche e cravatte e tante hostess in tailleur per mostrare l’immagine «in doppiopetto» del fascismo del XXI secolo. Tra gli invitati anche gli ustascia croati e i neofascisti lituani.
Il giorno seguente il 14 ottobre in occasione del 76esimo anniversario della fondazione dell’Esercito Insurrezionale Ucraino di Stepan Bandera – il leader dei collaborazionisti filo nazisti – diventato da qualche anno festa nazionale, i convenuti hanno partecipato alla lugubre marcia del nazionalismo neofascista ucraino a cui, secondo i dati della polizia, hanno partecipato 20mila persone e che si è conclusa con un concerto in piazza di gruppi suprematisti metal.
DOMENICA, infine, si è tenuta – a porte chiuse – la vera e propria conferenza. Un blogger ucraino è riuscito comunque a partecipare all’«evento» e a fornire qualche dettaglio. «Special guests» come li hanno definiti gli organizzatori, «The Gold One» pseudonimo di Marcus Follin un body builder svedese fascista che invita nei suoi video all’odio per i neri e a rinunciare ai dolci e al porno, ma soprattutto Greg Johnson, l’ideologo nazista americano autore del «Manifesto del Nazionalismo Bianco» in cui si teorizza una società bianca ripulita e separata dalle altre.
L’UCRAINA, detto di passata, è ormai l’unico paese europeo che concede l’ingresso a Greg Johnson: lo scorso anno persino il governo ungherese lo invitato a sloggiare da Budapest giudicandolo «persona non grata».
Nella sua relazione Johnson ha enfatizzato come «con l’ascesa di Trump, Salvini e Kurz, il vento sia cambiato e questo è qualcosa che dovremo saper utilizzare», operando per giungere alla «fondazione di un pan-euperismo e universalismo di destra».
Un punto di vista simile è stato espresso da Alberto Palladino di Casa Pound nella sua relazione «Il movimento rivoluzionario e le elezioni», per il quale al governo M5s-Lega non andrebbe fatta una opposizione di principio ma si deve accompagnare il corso per quanto riguarda il tema dell’immigrazione .
LE CONCLUSIONI sono state affidate alla «primula nera» del fascismo ucraino Olena Semenyaka. Secondo la relatrice, Kiev può diventare «il punto di forza e il quartier generale dei patrioti dell’Europa dell’Est e dell’Ovest». Tale progetto sarebbe sorto a Kiev nel 2014 «con la rivoluzione a Kiev (il movimento di Piazza Maidan, ndr.), l’annessione della Crimea e la guerra in Donbass… che hanno fatto rivivere la tradizione della resistenza anticomunista prima e durante la seconda guerra mondiale per fermare il bolscevismo». Una resistenza e un’organizzazione che deve unire oggi «tutti i veri nazionalisti nella parola d’ordine “Oggi in Ucraina, domani in Russia e in tutta Europa!”».

il manifesto 19.10.18
Strage in Crimea, dubbi su ruolo di Pravy Sektor
Ucraina. Il 18enne autore del massacro nel ginnasio di Kerch in Crimea costato la vita finora a 21 studenti, poteva essere in contatto con formazioni dell’estrema destra ucraina
di Yurii Colombo


Per il sempre ben informato «Kommersant» Vladislav Rosljakov, il 18enne autore del massacro nel ginnasio di Kerch in Crimea costato la vita finora a 21 studenti, poteva essere in contatto con formazioni dell’estrema destra ucraina e in primis con Pravy Sektor molto attiva negli ultimi mesi in Ucraina orientale.
Malgrado sembra ormai evidente che l’azione sia stata realizzata in solitudine, gli inquirenti non escluderebbero che il ragazzo fosse in contatto con gruppi estremisti o possa essere stato aiutato da qualcuno. Pravy Sektor e i gruppi paramilitari di estrema destra che agiscono anche in Crimea con azioni di diversione, non sono nuovi a tali piani criminali.
Nel 2017 Pavel Grib un giovane di Kiev, già simpatizzante di Pravy Sektor per alcuni mesi progettò con Tatyana Yershov di far esplodere una bomba nella città della Russia meridionale di Soci nel giorno della festa della consegna dei diplomi ma qualcosa andò storto e la bomba non esplose. I due terroristi in erba vennero arrestati.

La Stampa 19.10.18
Trump al Messico
“Fermate i migranti o mando l’esercito”
Migliaia in fuga verso gli Usa dalle violenze in Honduras Il presidente: basta aiuti per i Paesi del Centramerica
di Paolo Mastrolilli


Trump minaccia di mandare l’esercito a bloccare il confine col Messico. Il motivo è fermare la marcia dei migranti che dall’Honduras stanno cercando di raggiungere gli Stati Uniti per chiedere asilo, ma la ragione politica è rilanciare l’allarme sulla presunta invasione del Paese, allo scopo di mobilitare la base repubblicana in vista delle elezioni midterm del 6 novembre.
Circa 4000 persone sono partite a piedi dall’Honduras, per fuggire dalla violenza delle gang e dalla povertà che attanaglia il Paese. Usano queste carovane per evitare di finire nelle mani dei trafficanti di esseri umani, ma anche perché attirano l’attenzione politica contro le pratiche dall’amministrazione Trump. Al momento si trovano in Guatemala, dove possono passare liberamente con un semplice documento di identità.
L’obiettivo è entrare in Messico e poi raggiungere il confine con gli Usa, dove chiederanno l’asilo, sostenendo di essere vittime di abusi.
Quando lo ha saputo, soprattutto grazie alla grande copertura fatta dalla televisione Foxnews, il capo della Casa Bianca ha minacciato di annullare tutti gli aiuti economici a Honduras e Nicaragua, se non fermeranno la carovana. Il problema è che sul piano legale questi due Paesi non hanno il diritto di bloccare gli spostamenti dei loro cittadini, e le regole internazionali impediscono di vietare la richiesta di asilo. Il Messico però potrebbe fermare i migranti quando arriveranno alla sua frontiera, selezionare chi ha diritto all’asilo, e rimandare indietro chi non può chiederlo. Trump ha chiesto che questo avvenga, minacciando di annullare l’accordo commerciale appena firmato per rimpiazzare il Nafta, prospettando l’invio dell’esercito al confine, e scaricando sui democratici la responsabilità della crisi. Tutto attraverso tre tweet: «Sto osservando l’assalto al nostro Paese (guidato dal Partito democratico perché vuole i confini aperti) dal Guatemala, l’Honduras e il Salvador, i cui leader stanno facendo poco per fermare questo ampio flusso di persone, inclusi molti criminali. Oltre a fermare tutti i pagamenti a questi Paesi, io devo chiedere nei termini più forti al Messico di bloccare l’aggressione. E se non sarà capace di farlo, ordinerò ai militari di chiudere il nostro confine meridionale. Questo assalto per me, come presidente, è più importante dei commerci o dell’accordo Usmca».
La linea è chiara: se Honduras e Guatemala non fermeranno la carovana, perderanno gli aiuti. A quel punto toccherà al Messico, che rischia di giocarsi il nuovo accordo commerciale. Se non lo farà, l’esercito americano verrà chiamato a bloccare il confine. La colpa sarà dei democratici, che si oppongono alla costruzione del muro, e quindi se i cittadini vogliono più sicurezza, il 6 novembre dovranno votare i candidati repubblicani.
Sullo sfondo di questa nuova crisi c’è anche il fatto che la stretta sull’immigrazione adottata da Trump non sta dando i risultati attesi. Il numero dei migranti che viaggiavano come famiglie arrestati al confine negli ultimi 11 mesi è arrivato a 105.000, cioè un incremento del 27% rispetto all’anno scorso. Settembre ha registrato il record, con 16.658 persone fermate.
Trump teme che questo insuccesso si ritorca contro di lui, e quindi lo scarica contro chi in primavera lo ha costretto ad annullare la pratica di separare i bambini dai genitori, allo scopo di scoraggiarli a venire. Ora potrebbe decidere di rimettere in vigore questa politica, ma intanto usa l’intera emergenza delle migrazioni per mobilitare la sua base ed evitare che i democratici conquistino la maggioranza in una delle due aule del Congresso, bloccando poi la costruzione del muro e qualunque altra iniziativa legislativa.

Il Fatto 19.10.18
“Rai, l’antidoto alle pressioni politiche è solo uno: dimissioni”
Pier Luigi Celli - L’ex direttore di Viale Mazzini racconta trent’anni ai vertici delle grandi aziende
di Carlo Tecce


“Io non sono né ingenuo né vergine e la politica da sempre adora distribuire le poltrone con una predilezione per la Rai”. Così Pierluigi Celli ha scritto la Stagione delle nomine, un romanzo che condensa più di trent’anni ai vertici di aziende private e statali. Per ragioni di spazio, l’elenco è parziale: Eni, Olivetti, Omnitel, Enel, Enit, Luiss e dg di Viale Mazzini dal ’98 al 2001.
Esordio nel servizio pubblico con Romano Prodi.
No, con Massimo D’Alema, è il segretario dei Ds o Pds.
Prodi a Palazzo Chigi.
In uscita, diciamo.
L’amico Prodi.
Romano è un tipo rancoroso, che si circonda di persone servili, come dimostra lo scarso successo dei suoi governi. A cena mi chiede di aumentare la potenza dei ripetitori Rai per raggiungere le coste e i confini stranieri. Io gli dico: ‘Fa ammalare la gente, non posso, mi mandano in galera’. E lui: ‘Sei un dalemiano’.
La passione per D’Alema.
Io non sono dalemiano, giuro. Non mi manda D’Alema in Rai, o meglio: non direttamente. Un giorno mi chiama un tale Claudio Velardi per invitarmi a prendere un caffè alle spalle di via delle Botteghe Oscure a Roma e mi sussurra: ‘Vuoi fare il dg Rai?’. Io declino. Vado in Enel dal mio capo, Franco Tatò, e gli supplico di riportare il mio diniego a D’Alema. Mi risponde gelido: ‘Io non posso’. Mi arrendo.
Cade D’Alema, sale Giuliano Amato.
Chiamo Amato per comunicargli l’indicazione di Gad Lerner al Tg1. Non reagisce. Farfuglia: ‘Spero sia una scelta ponderata’. È ponderata, poi si rivela azzardata. Lerner manda in onda un servizio sui pedofili con immagini assurde di bambini, i dalemiani ne chiedono la testa alla Camera. Io resisto, lui resiste. Finché, per fare il martire, mostra al Tg1 un bigliettino di raccomandazioni di Mario Landolfi di Alleanza nazionale.
Febbraio 2001, Rai addio.
Campagna elettorale vicina, il centrosinistra vuole schierare l’azienda contro Berlusconi. Impazzisco. Porta pure sfiga, penso. Mi lamento con il presidente Roberto Zaccaria in maniera informale e poi con una lettera mi dimetto.
Le telefonate di B.
Non molte. La prima nel ’93, c’è il Cda dei professori di Claudio Dematté. Berlusconi è quasi in politica, ma sempre il padrone di Mediaset. Io sono il capo del personale di Viale Mazzini, mi chiama per un favore. Mi dice: ‘Senta, gli artisti giocano al rialzo sui compensi saltando tra noi e voi, ci mettiamo d’accordo e li freghiamo?’.
Le pressioni dei politici.
Il mio schermo è Zaccaria, molto preciso nel percepire le sensibilità del centrosinistra. Un pomeriggio mi implora di andare a Palazzo Chigi per illustrare le novità sulla Rai al presidente D’Alema. Parla mezzora, mentre D’Alema fa gli origami con dei fogli di carta, poi si alza di scatto e ci congeda: ‘Perché siete venuti qui?’.
Le pressioni dei politici bis.
Io uso un metodo: premio i migliori anche se sono di destra. Un paio di esempi: il finiano Mauro Mazza vicedirettore del Tg1 e Agostino Saccà direttore di Rai1 e poi non tocco Clemente Mimun al Tg2.
Un litigio.
Con Lamberto Dini: desidera la promozione di Anna La Rosa a vicedirettore di un canale. Io respingo e lui urla: ‘Sono il ministro degli Esteri!’.
Daniele Luttazzi.
Un errore. Critico il programma – e anche l’intervista a Marco Travaglio sugli affari di Berlusconi – per dare un movente alle mie dimissioni. Ora chiedo scusa, Luttazzi è un talento della tv.
Vita in Rai.
Terribile, non la consiglio neanche ai nemici. Il mio conforto era Biagio Agnes.
Il dg di marca Dc.
Biagio viene in stanza per controllare se ho spostato dei quadri o se la finestra ha tende nuove. Io sto per mollare, sono esausto dalle pressioni del centrosinistra. Mi suggerisce: ‘Prendi un ufficio più piccino accanto al prossimo dg. Il mio successore – dice – era Gianni Pasquarelli. Siccome era diabetico, arrivava in Viale Mazzini non prima delle dieci. Io alle sette ero già qui e tutti parlavano con me. Lui ha protestato e, per risolvere il conflitto, mi hanno trovato un posto, alla Stet’.
I posti si danno e, troppo spesso, si tolgono.
Alla Olivetti di Carlo De Benedetti non sono il capo del personale, ma dell’ex personale. Licenzio 10 mila dipendenti in 10 mesi. De Benedetti è arrogante, è un padrone. Se gli dici sempre di sì, ti passa addosso.
Quando ha detto di no.
Mi chiede di firmare 500 lettere di cassa integrazione per il 24 dicembre. La vigilia di Natale, che diamine. Lui insiste, non lo faccio. E mi vendico. Una volta mi informa che ha cambiato macchina aziendale. Ha comprato un’Audi gigantesca per dismettere la Bmw, così dice. Ma qualche settimana dopo, ritrovo una donna a bordo della Bmw: ‘Cosa fa qui, signora?’ ‘Vado in Svizzera con l’Ingegnere’. Corro su e scateno un putiferio.
Quando ha sbagliato a dire sì.
Franco Bernabé mi sceglie per dirigere il Festival del Cinema di Venezia e poi organizza un incontro con Giuliano Urbani, ministro della Cultura. Una follia, prevedo le solite ‘spintarelle’. Franco mi trascina da Urbani. Siparietto divertente. Vittorio Sgarbi spalanca la porta, allunga il braccio e ci saluta: ‘Camerati!’. Urbani sorride, poi tira fuori un taccuino e ci indica chi spedire in commissione per il premio. Tiro un calcio a Franco e mi dimetto.
Il direttore dell’Università Luiss – durante la recessione del 2009 – suggerisce ai ragazzi di emigrare.
Una provocazione. Di mattina tutti mi ringraziano, di pomeriggio – i docenti, i più ipocriti – prendono le distanze.
Il figlio di Celli, però, resta in Italia alla Ferrari.
Succede dopo, ci va con l’Adecco e resta solo otto mesi.
Agiografia non credibile: Celli immune ai politici.
Sono furbo, e con la fama di cattivo. Con la vecchiaia, però, sono diventato buono e un po’ rincoglionito.

Il Fatto 19.10.18
Militari in Libano, no alla liberatoria
Stato maggiore - Censura alla “Garibaldi” dopo la denuncia del “Fatto”
di Antonio De Marchi


“Si tratta di un’iniziativa impropria in quanto né lo Stato maggiore dell’Esercito né altri Comandi hanno mai dato disposizioni in tal senso (…) tale atto non rientra nelle direttive (…) un errore interpretativo a cui si è posto rimedio dando immediatamente l’ordine di cessare la distribuzione del documento e di ritirare quelli già compilati e sottoscritti”.
Lo Stato maggiore dell’Esercito prende le distanze dal documento di esonero da responsabilità fatto firmare nei giorni scorsi ai militari della Brigata Garibaldi che nelle prossime settimane verranno inviati in Libano. Ieri avevamo denunciato come fosse stato fatta sottoscrivere a donne e uomini dell’unità, “consapevoli dei rischi ambientali e alimentari”, una dichiarazione che liberava l’amministrazione militare “da ogni responsabilità civile e penale, anche oggettiva” in conseguenza dell’impiego in teatro operativo. Il testo tra i militari della Garibaldi aveva creato malumore. Ma evidentemente neppure in vertici dell’Esercito l’hanno apprezzato. Anzi, deve aver provocato non poco imbarazzo a giudicare dalla tempestività con cui ne hanno preso le distanze e annunciato l’avvio di un “necessario approfondimento d’indagine interno” provvedendo alla “valutazione/adozione dei necessari provvedimenti nei confronti del personale responsabile”.
Una mossa a dir poco maldestra, per di più in un momento in cui l’attenzione per i temi della salute del personale è molto alta. E non solo perché al vertice del dicastero c’è una ministra che ne ha più volte ribadito l’importanza.
Significativo anche l’incontro della Trenta con Domenico Leggiero, ex maresciallo da anni animatore delle attività di denuncia e sostegno alle vittime dell’uranio impoverito. Leggiero è molto critico. “In questa vicenda non c’è nulla in buonafede. Le gerarchie in questi anni hanno sempre tenuto un atteggiamento negazionista” e ricorda come l’avvocato Angelo Fiore Tartaglia abbia ottenuto ben novanta sentenze, avallate anche in Cassazione, che confermano il nesso tra l’impiego nei teatri e le morti per uranio. Sulla pagina Facebook di Leggiero, a proposito della liberatoria, Tartaglia scrive come sia “un documento illegittimo ed incostituzionale” ma che fa emergere “la consapevolezza dell’apparato militare” sui rischi di queste missioni.
Interviene anche il luogotenente Pasquale Fico del consiglio centrale della rappresentanza militare. Fico ha all’attivo numerose missioni all’estero e, se da una parte apprezza la posizione dei vertici, dall’altra sollecita più attenzione. “Oggi ci sono numerose disposizioni a tutela della salute, ma spesso sono gestite in modo burocratico. Non basta infilare un certificato in un fascicolo personale. Servono prassi concretamente attive e soprattutto prolungate nel tempo”.

Corriere 19.10.18
Kabul diciassette anni dopo
Afganistan
di Andrea Nicastro


Stremato da una guerra senza fine il Paese domani torna alle urne
Ma la democrazia all’occidentale non ha ridotto violenza e disparità Ricordate le dita sporche di inchiostro viola? Le code ai seggi elettorali? Le ombre dei burqa che davano il benvenuto alla nuova democrazia afghana? Domani il Paese del Grande Gioco torna a votare, ma nessuno sembra più credere al lieto fine dell’intervento occidentale. A 17 anni dalla fuga degli integralisti con la barba, ancora nel pieno della più lunga guerra americana di sempre, queste elezioni parlamentari appaiono un rito inutile. I problemi del Paese sono altri e, semmai, più che dalla democrazia, la speranza per un futuro di pace passa da un compromesso con il giovane Iaqoub, anche lui prete-soldato, come il padre, quel mullah Omar, fondatore dei talebani morto anni fa. Tanti sono i problemi aperti. Eccone alcuni.
Il cimitero degli imperi
Quattro anni fa la Nato ha lasciato a esercito e polizia afghani la responsabilità della sicurezza conservando per sé il potere aereo. Da allora i talebani hanno costantemente conquistato terreno. Nel 2013 uccidevano una decina di avversari al giorno. Nel 2016 ne eliminavano 40. Da allora: top secret. Pare che oggi cadano in battaglia 60-70 «governativi» ogni 24 ore. Troppi per ammetterlo. Per questo è arrivato l’ordine di auto protezione. Invece di rischiare per difendere i civili, i soldati devono innanzitutto proteggere se stessi. L’urgenza del cambio di consegne è diventato evidente ieri a Kandahar, culla del movimento talebano. Poliziotti ammutinati hanno sparato sui colleghi durante un summit in vista delle elezioni. Ucciso il potente capo provinciale della polizia, il corrotto Abdul Raziq, il governatore civile e altri ufficiali di primissimo piano. Scampato per un soffio il generale Scott Miller a capo della missione Usa. Il risultato della ritirata governativa è però un 70% di Afghanistan dove lo Stato non esiste. Se non è una sconfitta, ci assomiglia.
Garbuglio diplomatico
Ormai il Pentagono è rassegnato all’idea di una spartizione di poteri se non addirittura di territorio tra filo-occidentali e integralisti. Per aiutare le barbe più «dialoganti», gli Usa hanno assassinato con i droni alcuni leader intransigenti con il risultato di far passare gli altri da traditori. Le speranze ora sono riposte nel figlio del mullah Omar, il mullah Iaqoub, ma il problema sono le altre potenze.
L’Iran sciita, nemico naturale degli estremisti sunniti, li finanzia per ostacolare gli americani come questi fanno con gli alleati di Teheran in Yemen, Libano e Siria. La Cina, che ha un enorme problema di estremismo islamico in casa propria, finanzia i talebani per avere una leva in più nella guerra dei dazi scatenata da Donald Trump. La Russia prova ovunque a erodere l’unilateralismo americano e quindi finanzia i talebani anche se ha il terrorismo sunnita in casa. Il mullah Iaqoub e il capo ufficiale degli «studenti» mullah Haibatullah Akhdundzada sanno che con la pace finirebbe quel fiume di denaro. Gli conviene?
Ricostruzione fantasma
Sconfitti i talebani e i loro ospiti di Al Qaeda in poche settimane di bombardamenti aerei nel 2001, l’Afghanistan non è riuscito a costruire un’economia alternativa alla guerra e alla droga. Gli aiuti economici non sono andati in investimenti produttivi (fabbriche, dighe, canali, miniere, centrali idroelettriche o solari), ma in aiuti funzionali al controllo militare. Per alimentare la propria macchina bellica e per sorreggere il Paese, Washington ha speso ben più di mille miliardi. La stragrande maggioranza è ritornata in America come stipendi ai soldati o fatture all’industria militare. Il 90% degli aiuti a Kabul è invece finito nell’addestramento ed equipaggiamento delle forze di sicurezza. Per dare un lavoro onesto agli afghani solo briciole.
Stato fallito
Il capo della polizia di Kandahar ucciso ieri dai talebani era noto per la sua crudeltà e la sua corruzione. Il fratello dell’ex presidente Karzai, che ha comandato a Kandahar prima di lui per lunghi anni, era un trafficante di droga. Svariati vice presidenti che si sono succeduti a Kabul avrebbero invece meritato di finire sotto inchiesta per strage. L’attuale presidente Ashraf Ghani, ex Banca Mondiale, è percepito come un pupazzo di Washington. E il Parlamento che si rieleggerà domani? Conta poco, pochissimo. Il bilancio statale non dipende dalle scelte dei deputati, ma dalla volontà delle potenze straniere che vogliono impedire la vittoria dei rivali in Afghanistan.

Repubblica 19.10.18
L’Afghanistan riparte da Kalemzai " Noi giovani al voto contro la violenza"
2.500 candidati al Parlamento, tre milioni di donne alle urne: sfida ai Taliban e agli attentati
di Giampaolo Cadalanu


KABUL La speranza e la disperazione dell’Afghanistan sono distanti appena pochi isolati, fra le casette ordinate e polverose del quartiere di Darulaman. Nella strada di Khushal Khan, l’ufficio elettorale di Habaidullah Kalemzai Wardak è coperto di manifesti, presidiato da soldati con il kalashnikov, circondato da ragazzi con il sorriso sulle labbra. Poco più in là, davanti alla moschea sciita, l’ufficio di Abdul Jabbar Qahraman è coperto di manifesti, presidiato da soldati con il kalashnikov, circondato da anziani con gli occhi pieni di lacrime.
Sui tavolini bassi del quartier generale di Kalemzai i piatti con i resti del Kabuli Pilaw, riso, mandorle e uva passa, raccontano riunioni senza sosta dei comitati civici di sostegno. Il candidato, a 36 anni già veterano della Wolesi Jirga, la Camera bassa di Kabul, si ripresenta puntando ai voti della nuova generazione: l’Afghanistan del futuro, quello che non vuole mollare e che di lasciare la propria terra non ne vuole sentire.
Sul tappeto della terrazza di Qahraman, la poltrona verde da cui il veterano della politica afgana dava udienza ad amici e questuanti è rimasta vuota. Le tazze di vetro non bastano, per gli ultimi arrivati il tè viene servito in bicchieri di plastica azzurra. Una dozzina di sostenitori, turbante nero o giacca occidentale indossata sopra la tunica della tradizione, cerca di arginare il dolore. Qahraman, ex braccio destro del presidente Najibullah in tempi lontani, si era ripresentato nell’Helmand, la provincia più difficile. E proprio lì è stato assassinato mercoledì mattina da una bomba lasciata sotto il suo divano, con tutta probabilità, da un integralista che si era spacciato per elettore in cerca di ascolto. Il segretario Mahmud Ibrahim singhiozza: «Lo hanno colpito perché si batteva per l’unità e la stabilità del Paese».
Qahraman è almeno il decimo candidato ucciso dalla partenza della campagna elettorale, senza contare quelli scampati agli attentati né lo sfortunato Gul Zaman, sequestrato nella provincia del Badghis. Invitati dal governo di Kabul e dagli Stati Uniti a riprendere i negoziati di pace, i Taliban hanno risposto annunciando nuovi attacchi, soprattutto sui partecipanti al processo elettorale e sugli obiettivi militari. Anche ieri hanno colpito durissimo durante un incontro fra le autorità locali e i rappresentanti Usa a Kandahar: un militante Talib è riuscito a infiltrarsi nella scorta del governatore provinciale Zalmai Wesa, e ha ucciso quest’ultimo, il capo provinciale della polizia, Abdul Raziq, il responsabile locale dei servizi di sicurezza Nds e un cameraman della tv Rta. Con loro era anche Scott Miller, il generale americano che guida l’operazione Resolute Support: illeso, dicono i comandi Usa.
Il rifiuto opposto dagli "studenti coranici" all’invito del presidente Ashraf Ghani per una nuova tregua, dopo quella per le festività islamiche, getta un’ombra poco rassicurante sulle elezioni di domani, con quasi 9 milioni di elettori (un terzo donne) che sceglieranno i 250 seggi eletti fra circa 2.500 candidati, con 400 donne e un’alta percentuale di giovani. La paura è che ogni speranza sia soffocata nella violenza, fra politica corrotta e vincoli tribali. Altro segno inquietante è la mancanza fra le candidate di Fawzia Koofi, una delle voci più critiche verso la presidenza. La vicepresidente del Parlamento uscente è stata esclusa dal voto perché avrebbe legami con milizie armate nel suo Badakhshan. «È solo una decisione politica. Le donne che prendono posizioni forti danno fastidio. Le accuse contro di me e la mia famiglia sono calunnie strumentali », dice la Koofi.
Ma la tenacia con cui nei mesi scorsi gli aspiranti elettori hanno sfidato minacce e attentati per registrarsi al voto fa capire che, nel cuore degli afgani, il cammino verso una democrazia compiuta è ormai senza ritorno. Sarà un lungo ma concreto rodaggio del sistema democratico, un percorso accidentato e pieno di barriere, ma tutto sommato non dissimile da quello fatto in Occidente. Il voto per la Wolesi Jirga è considerato una prova generale per le presidenziali dell’aprile prossimo. Anche se i primi risultati della Camera saranno disponibili solo il 10 novembre, per comprendere il futuro dell’Afghanistan sarà significativa la verifica di trasparenza e correttezza del voto.
Sui muri di Kabul la speranza si arrampica a cercare qualche spazio. I manifesti sommergono la città. Sicurezza, lavoro e stabilità sono i temi obbligati negli slogan, anche se su questi obiettivi il nuovo Parlamento potrà ben poco. I candidati ci mettono la faccia, per i conoscenti, e affiancano un disegnino elementare estratto a sorte, da comunicare ai meno scolarizzati. Candidate con il velo e qualcuna senza, barbe lunghe islamiche e facce rasate, occhi a mandorla hazara, turbante o cappello tradizionale pakol. E poi quattro lucchetti, un innaffiatoio, due pennini, una pera, un cavallino. Anche Kalemzai ha dovuto scegliere un simbolo fra tre scelti a caso dalla commissione elettorale. Per parlare ai giovani, né l’icona di un’autobotte, né quella con tre teiere potevano rappresentarlo: «Ci hanno proposto il logo con due lanterne: bene. Lo slogan è: assieme, sulla via verso la luce ».

Il Fatto 19.10.18
L’islamizzazione avanza a colpi del nemico “cous cous”
Indigniamoci! - In due scuole, nei menù della refezione, inserita la pietanza sovversiva di origini maghrebine mentre sparisce la carne di maiale. C’è chi urla: attentato
di Selvaggia Lucarelli


Non bastava la storia dei bambini stranieri esclusi dalle mense a Lodi, ora al centro della discussione politica è finito pure il menù di due scuole di Peschiera Borromeo, l’istituto Montalcini e l’istituto De Andrè, che contano circa 2.500 alunni. Il problema del giorno, quello per cui tocca indignarsi e chiamare in causa i pericoli della corrente filo-islamica che sta subdolamente manovrando il Paese, è il fatto che in quel menù sia stata eliminata la carne di maiale (che prima era presente due volte al mese, sotto forma di prosciutto e bistecca di lonza), e inserito una volta al mese il cous cous.
Il grave attentato alla cucina nostrana (nonché l’evidente intenzione di radicalizzare i due istituti di Peschiera) è stato segnalato non da genitori preoccupati, ma da un diligente e super partes giornalista locale il quale ha firmato un articolo in cui sosteneva che “la scelta del menù assomiglia di più ad una scelta di comodo per non gestire eventuali sostituzioni nel menù per motivi etici, religiosi o culturali” e in seguito pubblicava una lettera non firmata di un presunto genitore di due bambini di una delle scuole per cui l’assenza di maiale sarebbe una “fatwa senza senso”. “Con il cambio del menù mia figlia ha forti crisi d’ansia prima di andare a scuola, vive un disagio ENORME, colpa di genitori invasati no vegan!”, avrebbe poi aggiunto un’altra mamma (che non si firma) in una seconda lettera pubblicata dal giornale locale. Caso vuole che il giornalista in questione sia anti-vegano, abbia come foto copertina su Facebook un suo ritratto con Giorgia Meloni e sempre caso vuole che dopo un po’ la Meloni, twittasse: “In una scuola di Peschiera Borromeo viene eliminato il maiale per fare posto al cous cous, alimento tipico nordafricano. Ora sono i figli degli italiani a doversi adeguare alle esigenze alimentari di chi dovrebbe integrarsi? Questa è follia”.
Inutile dire che qualche genitore dei due istituti si è allarmato, del resto magari oggi è il cous cous al posto della lasagna, domani i bonghi al posto del flauto, dopodomani la genuflessione in direzione di La Mecca anziché i piegamenti in palestra e così via. Il “cous-cous gate” a quel punto travolge anche la politica. L’assessore regionale alla Sicurezza Riccardo De Corato (Fdi) amplia il discorso: “Noi togliamo la carne di suino nelle mense ai nostri figli, mentre in cambio loro umiliano e trattano come se fossero oggetti di loro proprietà le donne!”. Che non si capisce cosa c’entri, ma almeno non ha aggiunto un “buonisti” come chiusa. E non finisce qui. L’assessore leghista Fabio Rolfi commenta preoccupato: “Se si tratta davvero di un favore alla comunità islamica la Regione Lombardia scenderà in campo: sono iniziative ideologiche sulla pelle dei bambini, la carne di maiale deve stare nelle mense scolastiche perché fa bene!”. Ora, a parte che il cous cous si mangia da sempre in varie regioni d’Italia (a San Vito Lo Capo ogni anno c’è il Cous cous festival), a parte che nel menù di quelle scuole ci sono anche il “riso all’inglese”, l’hamburger e le carote alla Julienne ma la Meloni non s’è agitata, a parte che varie imprese italiane producono il cous cous e ricordavo che Lega e Fdi fossero in prima linea per sostenere le imprese italiane, la faccenda è decisamente surreale. “È una strumentalizzazione becera della politica”, afferma l’assessore alla cultura di Peschiera Borromeo Chiara Gatti. “Nasce tutto da un articolo di un giornalista locale vicino a Fratelli d’Italia che ha creato un caso sul nulla. Il menù l’ha deciso l’Ats (l’ex Asl, ndr) e gli stranieri non c’entrano niente, tra l’altro sono 35 su 2.500. Sono stati eliminati il prosciutto e la bistecca di lonza, che per giunta era spesso dura e poco gradita. Il cous cous con le verdure è un cibo colorato, allegro alla vista, cosa importante per stimolare i bambini all’appetito”. E aggiunge: “Il caso non esiste, io ho ricevuto in tutto due mail di genitori contrari su 2.500 famiglie e quella lettera sulla bambina che ha attacchi d’ansia per il menù francamente mi lascia molto perplessa. Per ora non cambia nulla, come sempre valuteremo a fine mese quello che i bambini lasciano di più nel piatto”.
Paola, mamma di un bambino dell’istituto Montalcini, è parecchio arrabbiata. “Nel menù non vedo neppure carne di cervo, di coniglio e di agnello, mica solo di maiale, spero che il sindaco non si lasci intimidire dalla protesta di quattro oche aizzate da un giornalista locale. Sto sentendo cose allucinanti, si sono create due fazioni, una di genitori come me che non vedono il problema, e una di genitori che definiscono il menù ‘esotico’ e scemenze simili. Che raccolgano pure le firme per protestare se vogliono, ma noi genitori ragionevoli per fortuna siamo più numerosi. Ci stanno usando per alimentare la politica dell’odio, altro che cous cous”. Infine, è intervenuta su Facebook la sindaca Caterina Molinari: “Nelle nostre scuole non si mangia né italiano, né etnico, né vegano. Nelle nostre scuole si mangia sano ed equilibrato, si insegna ai bambini anche attraverso l’alimentazione ad essere uomini e donne preparati ad affrontare il mondo”.
Insomma, una polemica strumentale montata ad arte per farci credere che i musulmani ci vogliano conquistare a colpi di falafel, kebab e cous cous. Ah, già che ci siamo qualcuno dica alla Meloni che il suo cognome non ha origini autoctone, perché il melone sarebbe originario dell’Africa. Come il cous cous. Da domani si faccia chiamare Giorgia Corbezzolo.

La Stampa 19.10.18
Il balcone di Hitler potrebbe essere demolito
di Letizia Tortello


Il 12 marzo 1938 la Wehrmacht attraversa la frontiera e invade l’Austria, per formare la Grande Germania. Quel giorno verrà ricordato col nome tedesco di «Anschluss». Il 15, da un’altana della Neue Burg nella Heldenplatz di Vienna, Hitler annuncia l’annessione. Ma non è l’unico discorso che il Fuhrer fece agli austriaci da un balcone. Ce ne fu un altro, altrettanto famoso, il 9 aprile dello stesso anno dall’alto della torre principale del municipio di Vienna, a cui era stato aggiunto un balcone in legno appositamente per il dittatore, poche settimane dopo Heldenplatz, la piazza degli eroi. Inizialmente, si trattava di un elemento architettonico temporaneo, poi fu sostituito con uno in pietra, come ricordo duraturo di un momento glorioso del Reich. Oggi, i turisti lo fotografano senza sapere che è una reliquia del potere nazista.
Forse lo fotograferanno ancora per poco, visto che il balcone rischia di essere demolito. Lo chiede con forza un comitato di cittadini, il gruppo Memory Gaps, e l’istanza ha aperto un acceso dibattito a Vienna, tra chi è pro e chi è contro la cancellazione della memoria storica. La torre principale del municipio dovrà essere comunque rinnovata l’anno prossimo, quindi potrebbe essere l’occasione buona per smantellare il balcone di Hitler. Il costo dell’abbattimento ammonterebbe a 100 mila euro. La prima a mettersi di traverso è Eva Blimlinger, direttrice dell’Accademia di Belle Arti e capo della commissione incaricata di ricercare le proprietà rubate dai nazisti, che ha dichiarato al quotidiano austriaco «Kurier»: «Anche questo balcone, come tante cose rinvenute dopo il nazismo, è parte della nostra storia».
Chi è contrario e perché
L’assessore alla Cultura di Vienna Veronica, Kaup-Hasler, vorrebbe apporre una targa commemorativa, per spiegare ai turisti la Storia del luogo, e preferirebbe che la struttura rimanesse al suo posto. Era stato l’ex sindaco nazista Hermann Neubacher che aveva pensato di eternare la memoria del balcone di quella che era diventata la «Adolf Hitler Platz», ed equipaggiarlo di microfono e impianto di amplificazione. Ora, le autorità cittadine sembrano essere state colte alla sprovvista, ma il gruppo Memory Gasp va avanti. Chiede che l’abbattimento avvenga al più presto, per gli 80 anni dell’Anschluss e come commemorazioni per il centenario della prima Repubblica austriaca. Ha anche suggerito che, prima di essere smantellato, il balcone ospiti un «discorso per la pace». Al momento non ha vinto nessuno, ma i cittadini sono intenzionati a dar battaglia.

Corriere 19.10.18
La scelta del Canada
Lo spinello libero non è ribellione
di Carlo Rovelli

Marijuana legale in Canada. Ma ha ancora il gusto della trasgressione?


E vviva! La marijuana è diventata legale in Canada! Certamente adesso i giovani canadesi moriranno tutti di overdose di spinelli, diventeranno tutti intontiti e scemi, gli si brucerà il cervello, si butteranno tutti dalla finestra pensando di saper volare, e diventeranno tutti banditi e tutti eroinomani, come si aspettano i bigotti nostrani. O magari no. Forse chissà uno spinello non porta necessariamente alla rovina. Magari tenendo conto che due degli ultimi presidenti degli Stati Uniti, la maggioranza dei miei colleghi nei dipartimenti di fisica, la pressoché totalità dei miei amici di gioventù e una lunghissima lista di popolazioni tradizionali del mondo hanno fumato e fumano marijuana senza esagerati danni. Scherzi a parte, è fuori da ogni dubbio che la marijuana è molto meno dannosa dell’alcol e del tabacco, e vedere una grande nazione eminentemente ragionevole come il Canada seguire le scelte dettate dalla ragione di paesi come l’Uruguay, la California e l’Olanda, disarmare la criminalità dei trafficanti e rendere la marijuana legale, apre il cuore. Non c’è solo bigottismo sciocco a questo mondo.
La domanda interessante secondo me è piuttosto: perché sostanze come la marijuana sono vietate, quando sostanze indubbiamente molto più pericolose sono vendute in ogni bar d’angolo? Me lo sono chiesto spesso, senza davvero arrivare a rispondermi. Certo è in parte una questione culturale, ogni cultura è affezionata alle proprie droghe tradizionali, ed è infastidita dalle altre. Ma forse è qualcosa di più. L’uso della marijuana si è diffuso nelle società occidentali alla fine degli anni sessanta, ed è stato rapidamente adottato in quella vasta parte della gioventù di allora che coltivava sogni di rivolta radicale contro il mondo adulto. Era la gioventù che parlava di libertà, sognava un mondo più giusto, credeva nell’eguaglianza fra uomini e donne, istintivamente riconosceva a ciascuno il diritto di amare chi voleva. Era il primo riconoscimento collettivo che la natura del pianeta è a rischio e ha bisogno delle nostre cure, che l’umanità intera è un’unica famiglia che prospera o perisce insieme. Era la rivolta contro il moralismo peloso, i poteri incrostati, il grigiore del conformismo, l’avidità, l’ipocrisia dei principi che servono a difendere privilegi, i localismi, la grettezza di un mondo chiuso in se stesso e incapace di aprirsi alla diversità e alla bellezza. Fumare insieme marijuana è stato per una generazione un piccolo rito collettivo per dirsi l’un l’altro: crediamo nella possibilità di un mondo migliore di questo.
È passato tanto tempo da allora, e certo la marijuana ha perso la sua carica simbolica di dichiarazione di rifiuto dello stato delle cose presenti. Ma l’ha perso per tutti, forse, eccetto che nell’immaginazione dei perbenisti, per i quali ancora è uno spettro temibile che evoca disordine, ribellione, sporcizia, che mette loro paura. Per quale altro motivo mai dovrebbero vietarla? Allora forse una piccola parte di me, dopo avere gioito per la notizia dal Canada, ha un attimo di malinconia. Si normalizza tutto. Come Herbert Marcuse insegnava allora, le società moderne affossano il dissenso rendendolo normale e legittimo. E forse un pochino spero allora che i parrucconi italiani vietino ancora per un po’ gli spinelli, così almeno i ragazzi possono provare il gusto del proibito senza rischiare di farsi male.
Non fumo spinelli da parecchio. Ogni tanto qualche mio studente me ne allunga uno con un sorriso a qualche party, io il più delle volte rifiuto gentilmente, o faccio solo il gesto di tirare una piccola boccata, giusto per cortesia e simpatia. La realtà è che non ho mai amato molto questa droga, come non ho mai amato molto l’alcol o il tabacco. Da ragazzo ho passato un inverno stonato come una campana; era anche molto bello qualche volta, ricordo soprattutto come diventava intensa e viva la musica; è stata una stagione utile per levarmi di dosso una eccessiva rigidezza e tensione adolescenziale. Ma poi a me piacciono di più altri stati di coscienza: camminare fra i monti, immergermi in un libro, o fare conti di fisica, per esempio. E riesco a stare con gli altri meglio senza spinelli che con gli spinelli: mi sembra di comunicare molto meglio. Da qualche tempo ho perfino scoperto che dopo un paio di settimane di disintossicazione abbastanza spiacevoli si vive benissimo, anzi si è addirittura più lucidi, abolendo del tutto il caffè, e quindi oramai credo di essere fra le persone meno drogate del paese. Niente spinelli, niente alcol, niente tabacco e niente caffè: sono pulito come un bimbo. Ma ricordo con affetto gli spinelli della mia gioventù (ero molto orgoglioso di come sapevo rollare) e quindi, tutto sommato, festeggio con allegria la notizia dal Canada. Bravi canadesi! Quasi quasi mi accendo una canna nostalgica per festeggiare!