giovedì 18 ottobre 2018

Corriere 18.10.18
La replica L’autore del libro dedicato a Mussolini risponde all’editorialista del «Corriere»
Raccontare è un’arte non una scienza Così è nato il mio «M»
Scurati: un romanzo ha obiettivi diversi da un saggio
di Antonio Scurati

Stimo Galli della Loggia e non gli farò il torto di attribuire a sentimenti poco nobili il suo attacco al mio M. Il figlio del secolo . Né mi rifugerò nella sprezzatura di opporre il silenzio alle critiche.
Cominciamo dagli errori. Ci sono e l’onestà intellettuale m’impone di riconoscerli. La data di Caporetto è slittata dall’ottobre a novembre per un refuso con la medesima data di un altro anno menzionata poche righe più sotto. Il cortocircuito tra Pascoli e Carducci è accaduto. Mea culpa. La lettera sulla fiducia al governo Mussolini è autentica, e molto significativa, ma a causa di una svista viene attribuita a Francesco De Sanctis quando, evidentemente, fu scritta dal suo quasi omonimo Gaetano De Sanctis. Ci sono, nel mio libro, questi errori e probabilmente anche altri, nonostante Bompiani abbia sottoposto il testo a doppia revisione da parte di un letterato e di uno storico specialista del periodo. Sono sfuggiti. Non dovrebbe accadere ma l’imperfezione è inevitabile, soprattutto in un libro di 850 pagine che abbraccia un’intera epoca. Io ho studiato per anni per fornire al romanzo una solida base documentale e mi sono impegnato con i lettori a non inserire nessun personaggio, accadimento o discorso liberamente inventati secondo un criterio rigoroso. Confermo di essermi attenuto con il massimo scrupolo a questo criterio, nei limiti delle mie possibilità. Non ho mai sostenuto di essere infallibile.
Da altri errori imputatimi credo di poter essere discolpato. Le telescriventi effettivamente «ticchettavano» nella sala del Viminale la notte della marcia su Roma stando alla testimonianza di Efrem Ferraris che descrive il loro suono inquietante in una pagina delle sue memorie. Soprattutto, però, non è un errore l’aver qualificato Benedetto Croce come «professore». So benissimo che disprezzò per tutta la vita l’Accademia. Gli errori sono la banalità della condizione umana, testimoniano soltanto la nostra fallibilità. Qui, invece, la questione mi pare si faccia più interessante. Qui c’è un equivoco che getta luce sulla differenza tra lo sguardo dello storico e quello del romanziere. Non sono io, autore del romanzo, a qualificare Croce come «professore», ma è Mussolini, suo protagonista. È il disprezzo dei fascisti, dal cui punto di vista il romanzo è prevalentemente narrato, a bollare il grande filosofo con quell’epiteto che loro ritenevano spregiativo. Questa tecnica narrativa, che riferisce il punto di vista dei personaggi ad accadimenti e persone, si chiama discorso indiretto libero ed è una risorsa fondamentale della narrazione letteraria.
Il nocciolo della questione è tutto qui, credo: M, per quanto fondato su una vasta base documentale, è un romanzo, non un saggio storico. Conosco e ammiro il lavoro di ricostruzione puntuale dei fatti svolto dagli storici di professione. Un lavoro senza il quale non potrebbe esistere coscienza storica e senza il quale un romanzo come M non sarebbe nemmeno pensabile. Ma M è un romanzo, gioca un diverso gioco linguistico, riesce o fallisce mirando a un diverso obiettivo, quello di integrare, di completare, magari, il lavoro analitico della ricerca storica con la forza sintetica della narrazione.
Da decenni il dibattito intellettuale contrappone storici e romanzieri mettendoli in competizione. Io, al pari di altri romanzieri europei della mia generazione, credo che la nostra epoca inviti, invece, a una cooperazione tra il rigore della scienza storica e l’arte del racconto romanzesco. Una sorta di nuova alleanza tra storici e romanzieri. Credo sia auspicabile per molti motivi. Il primo tra tutti è l’avvenire delle nostre scuole, lo sforzo comune per contrastare l’ignoranza della storia, e la scomparsa del sentimento di essa, in cui i nostri studenti vanno sprofondando. Un tema, questo, molto caro anche a Galli della Loggia.
Per quel che mi concerne, per anni mi sono sforzato di dare alla smisurata massa documentale riguardante Mussolini una forma narrativa che fosse rigorosa e avvincente, innovativa e rispettosa, appassionata e appassionante, commossa e commovente, un racconto che fosse esigente e popolare, capace di riscuotere quel periodo cruciale dal torpore delle aride elencazioni di date, luoghi e nomi nel quale spesso lo hanno sprofondato le aule scolastiche. E di fare tutto ciò commettendo il minor numero di errori possibile. L’ho fatto nella convinzione che, come sosteneva Ricœur, il tempo crudele che ci annienta divenga «tempo umano» solo quando entra in un racconto e che il racconto del tempo trascorso raggiunga il suo pieno significato solo quando diviene a sua volta parte del nostro sforzo quotidiano di vivere il nostro tempo.
Giudichino pure i lettori se ho fallito, ma sospetto che inchiodare la letteratura — o la vita, se è per questo — ai suoi inevitabili errori sia, a sua volta, un errore.