Corriere 16.10.18
La storia esce allo scoperto
Da oggi in libreria un volume (Rizzoli) che rilancia la dimensione pubblica di una disciplina spesso trascurata
Recuperare il senso del passato, anche in tv: l’impegno civile di Paolo Mieli
di Aldo Grasso
I
lampi che guizzano nel cielo della storia non servono solo a
rischiarare questo o quel periodo. Spesso sono scintille che si
sprigionano all’improvviso, fiamme che divampano per ustionare le nostre
convinzioni, incendi che bruciano la complessità del passato e ci
lasciano soli con le nostre semplificazioni. Nel suo ultimo libro, Lampi
sulla storia. Intrecci tra passato e presente (Rizzoli), Paolo Mieli
non ha paura del fuoco, anzi lo affronta con la convinzione di chi
paventa che i pregiudizi nascano soprattutto dalla perdita del senso
della storia. O il passato lo facciamo nostro, interrogandolo e
spiegandolo, ma, beninteso, senza anacronismi e alterazioni deformanti, o
la storia e il bisogno di essa non hanno più alcun senso.
Fra le
varie discipline scientifiche, la storia è quella più soggetta a un
principio epistemologico fondamentale: se cambia l’angolo visuale,
cambia anche l’interpretazione del periodo analizzato. E come può, per
uno storico, cambiare il punto di vista? Mieli elenca alcune di queste
distorsioni. Sia ben chiaro: se un ricercatore scopre un documento
inedito, è giusto che molte cose vengano messe in discussione: la storia
è viva proprio perché si compone e si ricompone nel tempo. Ma se la
deformazione nasce da una moda, come quella del «politicamente
corretto»? L’America della political correctness ha deciso di rimuovere
le statue dei generali sudisti. È capitato a Charlottesville, in
Virginia, dove gruppi suprematisti hanno poi dato vita a tragiche
proteste. Anche Cristoforo Colombo è simbolo di divisione razziale per
il trattamento riservato ai nativi. Le sue statue vengono abbattute
dalla «cultura del piagnisteo». Così Robert Hughes definiva già nel 1993
quell’attitudine secondo cui si procede negando la realtà e dando tutto
il potere a formule verbali o comportamenti che deformano in modo
grottesco ciò che è.
Per non parlare delle forzature. Mieli
ricorda i conti che Papa Francesco ha dovuto fare con le controversie
generate dall’intreccio tra passato e presente per la beatificazione di
un gesuita nato a Maiorca nel 1713, Junípero Serra. Oggi quel prete
viene dipinto come un genocida, un edificatore non di anime ma di campi
di concentramento. Ma il traviamento più grande per uno storico è usare,
per il passato, categorie che appartengono al presente. La storia,
sostiene Mieli, richiede un grande esercizio di sottigliezza fra ragione
critica e verifica documentaria, senza prefigurare, nella ricostruzione
critica del passato, corsi e ricorsi prestabiliti. Se mai, per
circoscrivere l’incendio delle «revisioni», bisognerebbe far ricorso con
finezza intellettuale alla «legge dell’oblio» («Il ricordo è per quelli
che hanno dimenticato», sosteneva Plotino).
Scrive Mieli: «Oblio
che non deve equivalere a una sciatta dimenticanza che metta torti e
ragioni del passato sullo stesso piano, bensì a non far riproporre quei
torti e quelle ragioni nelle contese del presente. Si deve saper
rinunciare a mettere la propria comunità in condizione di riaprire
antiche ferite. È un esercizio complicato quello di tenere fermo il
giudizio sul passato, anzi di renderlo ogni giorno più denso di valori
e, a un tempo, di imparare a rispettare il passato stesso in tutta la
sua complessità. E c’è una sola strada per raggiungere questo obiettivo:
consegnare la storia agli storici, cioè a coloro che sono interessati
esclusivamente ad analizzarne le dinamiche e a scriverne nuove pagine».
Il
libro raccoglie vari saggi disposti secondo tre grandi categorie:
«Dentro le apparenze» (niente è come appare, ci sono personaggi o fatti
storici che sembrano composti unicamente di facciata, come case non
finite o come il set di un film); «Forzature e deformazioni» (ci sono
zone di confine, non solo della storia ma anche della riflessione sulla
storia, dove oscillano verità altrimenti negate); e infine «La storia
capovolta» (anche la storia a volte è colpita dallo smacco dell’assurdo:
«Cosa vuol dire capovolgere la storia? Spesso significa porsi gli
interrogativi giusti. E se fosse stato Socrate stesso a decidere di
morire?»).
I libri e i personaggi che entrano con eleganza nel
laboratorio di Mieli sono molti e disparati, ma tutti raccordati da un
filo rosso concettuale. La perdita del senso della storia, in un’epoca
come la nostra ossessionata dall’informazione dei social media, sta per
trasformarci in arroganti prigionieri di un linguaggio pietrificato:
crediamo facilmente solo a ciò di cui abbiamo bisogno di credere. Ed
eccola la galleria di personaggi illustri con cui misurarsi, una
quadreria che va da Robespierre a de Gaulle, dal giovane Gramsci al
maresciallo Pétain, da Federico II di Svevia a Caterina de’ Medici, da
Cesare Beccaria a Pio XI, da Giustiniano a Bernardino da Siena, solo per
citarne alcuni.
Accanto alla produzione saggistica, Mieli unisce
una solida presenza televisiva. Quante volte lo abbiamo apprezzato come
conduttore de La Grande Storia, un programma che in Italia ha
trasformato la televisione da semplice evocatrice di memoria a strumento
di narrazione storica. Ma la vera svolta avviene nel 2017 con la
rubrica quotidiana Passato e presente. Il programma si occupa di fatti
storici e ha una struttura dialogica (un professore invitato in studio è
interpellato da tre giovani studenti universitari) fondata su un
principio ormai minoritario: l’autorevolezza. Cultura in tv, come viene
interpretata dalla conduzione di Mieli, non significa riempirsi la bocca
di date e di nomi, significa invece creare suggestioni, stabilire
connessioni (connettere vuol dire unire cose distanti, produrre un
pensiero), affidarsi alla competenza.
Ma c’è un passo ulteriore,
ancora più decisivo. Attraverso la struttura dialogica di Passato e
presente, Mieli introduce in Italia il concetto di public history, che
non è soltanto divulgazione o comunicazione della storia, è anche
formazione degli individui (dottorandi, masterandi, giovani ricercatori)
che porteranno la storia attraverso nuovi media a diversi pubblici, è
anche interrogarsi su quale sia l’utilità e la funzione della storia
nella sua nuova dimensione pubblica. Lo sappiamo, spesso la storia è
fatta soprattutto da persone che dentro l’università scrivono non
pensando troppo alla diffusione, alla scambievolezza con i pubblici più
vasti e diversi. Quello che invece la public history intende fare è
reinventare un ruolo sociale dello storico, ponendolo al centro della
comunità nella quale e con la quale riflettere di storia. Questo è
l’elemento civile della public history: la capacità di portare verso il
pubblico una riflessione e un metodo rigorosamente storico, ma che
l’accademia ha concentrato nella figura non di rado fantasmatica della
«comunità scientifica» (magari solo a fini concorsuali).
Nel
contesto statunitense, per esempio, la public history ha recentemente
acquisito un suo statuto dignitario, entrando di fatto nei curricula
universitari con l’intento di formare professionisti della comunicazione
storica. La stessa idea di public history supera la vecchia categoria
di divulgazione: se, da un lato, il concetto sta nominalmente a indicare
una vera e propria invasione della storia nella sfera pubblica,
dall’altro esso indica il cammino verso un pubblico non specialista, ma
sempre più esigente, globalizzato e tecnologicamente avanzato.
Questo sta facendo Paolo Mieli, sul «Corriere», su Rai Storia e su Rai3.