Corriere 16.10.18
Il rapporto con l’altro sesso
Amava (anche) le donne E fu il primo a parlare di orgasmo simultaneo nei versi dell’Ars Amatoria
di Eva Cantarella
Con
le donne Ovidio aveva un rapporto speciale, per alcuni aspetti molto
diverso da quello dei suoi concittadini. Da un canto, infatti, come
tutti i maschi romani, egli riteneva normale avere rapporti sessuali con
altri uomini — sempre che, quantomeno teoricamente, questi non fossero
uomini liberi: il maschio romano, per definizione dominatore, doveva
essere il partner attivo del rapporto, il partner passivo doveva essere
schiavo.
E Ovidio dichiara di subire anche il fascino maschile: a
ispirare la sua poesia, scrive infatti, poteva essere tanto una donna
quanto un ragazzo (Amores I, 1, 20). Sin qui, dunque, era come gli
altri. Ma a differenza di questi preferiva le donne. E ce ne spiega la
ragione: il piacere doveva essere reciproco, e le donne, per lui,
provavano maggior piacere degli uomini, soprattutto se assecondate nei
loro desideri (cosa che non manca di raccomandare caldamente ai suoi
concittadini di fare). In un mondo nel quale il rapporto tra generi era
fondamentalmente predatorio per lui, dunque, dell’amore dovevano godere
anche le donne, e scriveva: «il piacere concesso per dovere non mi è
grato/ compiacenza di donna non la voglio» (Ars amatoria II, 687-688).
Cosa
addirittura impensabile all’epoca, poi, assicurava che il piacere era
maggiore se l’uomo e la donna raggiungevano contemporaneamente
l’orgasmo, ammonendo: «non sorpassarla, con le tue vele al vento/ e non
lasciarla andare innanzi a te./ Guadagnatela insieme, quella meta: solo
allora/ quando ugualmente vinti giacciono/ la donna e l’ uomo, pieno è
il piacere» (Ars amatoria II, 724-728). Ma come raggiungerlo questo
piacere, come sedurre? Per Ovidio l’amore era un gioco che allietava la
vita, ma quel gioco era un’arte: quella di godere solo degli aspetti
positivi del rapporto, eliminando le inutili sofferenze che questo
spesso comportava. Risultato non facile, raggiunto grazie a una guerra
spietata in cui il fine giustificava i mezzi, consentendo menzogne e
simulazioni, nel corso della quale ciascuno dei combattenti usava le
armi tipiche del proprio sesso. E poiché come tutte le arti anche quella
di amare richiedeva un’educazione, nell’Ars amatoria (la più celebre
delle sue opere) Ovidio assume il ruolo del precettore, insegnandola ai
suoi concittadini (nei primi due libri dell’opera alle donne, e nel
terzo agli uomini).
Insegnamenti diversi, ovviamente, a seconda
dei sessi (che hanno peraltro in comune l’idea che la conquista fosse
affidata all’inganno), descritti ricorrendo a metafore, tra le quali
quella della caccia: come il cacciatore, chi ama deve studiare la preda,
deve conoscerne i gusti e le abitudini, perché solo così potrà tendere
trappole efficaci e sfruttare ogni possibile occasione. Ma attenzione,
la vittoria, l’oggetto della conquista non è l’amore, è il piacere
sessuale. L’allievo-amante non deve mai farsi coinvolgere
sentimentalmente, se vuol continuare a reggere le redini del gioco e
dopo aver vinto la prima battaglia della conquista vincere la guerra. A
questo punto, ce n’è quanto basta per capire come la sua poesia
(purtroppo per lui) fosse in contrasto con la politica di Augusto, in
quegli anni impegnato in una grande opera di moralizzazione (peraltro
destinata a fallire) contro quella che egli riteneva una generale
dissolutezza causata dalla perdita dei valori familiari.
Caduto in
disgrazia nell’8 d.C., Ovidio venne relegato nella lontana Tomi (oggi
Costanza), sulle coste del Mar Nero, e ivi morrà, nel 17 o 18 d.C. A
nulla valsero i tentativi degli amici e della moglie, rimasta a Roma,
per ottenere che il bando venisse revocato. Nei Tristia, l’opera scritta
negli anni dell’esilio, Ovidio scriverà che a causare la sua disgrazia
erano stati un errore e un carmen. Quale fosse l’errore è cosa discussa,
quale il carmen è invece evidente: è l’Ars amatoria.