Corriere 16.10.18
Ovidio il valore dell’eros
L’amore come simbolo del destino instabile così augusto punì il suo essere diverso
Una mostra a Roma celebra il grande poeta che pagò con l’esilio la visione della vita espressa nelle Metamorfosi
di Nicola Gardini
Ci
sono poeti che dalla storia ricevono il dono del bifrontismo. Guardano
indietro e guardano avanti, riepilogano una tradizione e ne iniziano
una. A simili poeti capita di vivere in tempi di mutazioni radicali e
alla loro opera, motivata dalla paura della disgregazione, di
raccogliere e di contenere il più possibile, sistematizzando ed
enciclopedizzando. Un caso emblematico è quello di Dante, nei primi
secoli del secondo millennio dopo Cristo. Altrettanto emblematico, sulla
soglia del primo, quello di Ovidio, che di Dante – guarda un po’ – è un
alter ego.
Era finita dopo quasi cinque secoli la repubblica e
Roma rinasceva nel principato di Augusto, riformulando istituzioni e
propaganda. Ovidio reagì con un esibito disimpegno. Veniva da Sulmona,
dove era nato nel 43 a. C. e dove il padre aveva progettato di avviarlo
all’avvocatura. Nella capitale elevò il suo nome scrivendo d’amore, come
già altri. L’amore, però, sotto la sua penna si raffinò da emozione in
progetto. Perse di naturalezza, ma acquistò in autocoscienza. Gli
istinti, perfino la fame di sesso, sono costruzioni; sono esercizio
dell’intelligenza: ecco la lezione degli Amori, dell’Arte dell’amore,
delle Lettere d’eroine.
Ovidio impersonò il libertino,
l’intrigante, il dissoluto (e ancora, a torto, per molti la sua essenza
si riduce a tale ruolo), senza badare alle moralizzazioni che stavano a
cuore ad Augusto. Scherzava, si divertiva, divertiva, attribuiva al
maschio e alla femmina uguale diritto al piacere, e intanto, dissidente
suo malgrado, sfidava la legge, derideva gli stessi dei, adattava i
luoghi del potere alle proiezioni del desiderio. Fu il primo Don
Giovanni del mondo occidentale; bramoso, insoddisfacibile, votato a
ripetere incessantemente l’impulso a possedere. Sarebbe diventato il
poeta delle metamorfosi fisiche, ma la sorte del trasformarsi la scoprì e
definì prima di tutto nella pratica dell’eros, perché il voglioso che
parla nelle sue poesie non smette di rimodellarsi sull’oggetto voluto,
sempre diverso. La voglia non è volontà; e senza volontà non hai
identità. Fu una rivoluzione.
Arrivò, dunque, al grande poema, le
Metamorfosi. Sembrava un salto nel buio. Di fatto, in quel cosmo
trasportava la luce di precedenti invenzioni, una volta di più e tanto
più stupendamente dimostrando che non esiste differenza tra corpo e
psiche. Qualcosa di nuovo, senza dubbio, nacque: un intreccio di miti e
personaggi che costituivano molta memoria antica e che avrebbero
costituito un archivio di archetipi per secoli a venire, giù giù fino a
noi; e una rappresentazione della natura che, pur continuando Lucrezio e
Virgilio, metteva in scena l’universo in maniera inedita, con una
capacità di osservazione che aveva del miracoloso. Ai suoi lettori e
probabilmente anche a sé stesso dava a intendere che pure lui, Ovidio,
finalmente era approdato all’epica, come Virgilio.
Ma che epica
poteva essere un poema che della narrazione distesa faceva non un
percorso provvidenziale, non il progredire della gloria romana verso un
apice inviolabile, non la missione di un eroe, ma una continua
esemplificazione dell’alterità? Che epica poteva essere l’esaltazione
del transeunte, dell’instabile, del perituro, la distruzione di
qualunque fede nell’eternità dell’impero e nell’assolutezza del
romanocentrismo? Come poteva ormai Augusto non disapprovare apertamente?
E infatti Augusto disapprovò e tanto apertamente che se lo tolse dai
piedi una volta per tutte.
Le ragioni della cacciata rimangono
incerte. Certo è che Ovidio dovette lasciare il carissimo caput mundi
subito dopo aver completato le Metamorfosi. Non potremo mai capire fino
in fondo lo sgomento e la disillusione che lo presero. Si ritrovò senza
meriti, consapevole di aver cambiato la mente dell’umanità. Era l’8 d.
C. Si smarrì a Tomi, sul mar Nero, la Costanza dell’odierna Romania, e
lì morì, nel 17 d. C., nell’abbandono più umiliante. Laggiù, tra geli e
minacce continue, come raccontano i Tristia e le Epistole dal Ponto,
scoprì un’estrema alterità: la sua. A Tomi Ovidio comprese che ora lo
straniero, l’altro, era lui: il civis Romanus. Fu l’ultimo, il più
vitale dei suoi insegnamenti.
Nicola Gardini, professore di
Letteratura italiana e comparata a Oxford, è autore di «Con Ovidio. La
felicità di leggere un classico» (Garzanti, 2017)