Corriere 13.10.18
La sfida della Cgil
Il dopo Camusso e il populismo
di Dario Di Vico
Si
è aperta nei giorni scorsi quella che si presenta come la competizione
per il dopo-Camusso tra Maurizio Landini e Vincenzo Colla. La Cgil deve
scegliere il nuovo segretario generale e la procedura è iniziata con
qualche strappo e ampie recriminazioni. Ma al di là della cronaca
spicciola e dei conflitti interni il congresso della maggiore
confederazione italiana merita interesse perché nella stagione del
populismo di governo è il primo corpo intermedio che, per l’importanza
delle scelte da operare, dovrà giocoforza elaborare una strategia capace
di fare i conti con una situazione del tutto nuova. Sui corpi
intermedi, infatti, incombe come non mai l’incubo della
disintermediazione. Il populismo si è insediato non solo elettoralmente
nel corpaccione del lavoro dipendente ma ci tiene a una sorta di
manutenzione quotidiana del rapporto con «il popolo», giocata sul filo
della comunicazione più spregiudicata e demagogica. Per il sindacato è
una sfida senza precedenti e tanto più per un’organizzazione come la
Cgil giustamente gelosa della propria autonomia. Sia chiaro, in passato
anche al Pci capitava spesso di bypassare il sindacato ma i codici erano
comuni e si trattava per lo più di conflitti contingenti. Ora le
confederazioni devono convivere con un condominio che non hanno scelto,
la tuta blu o l’impiegato restano tesserati al sindacato ma le loro
istanze in materia di lavoro/retribuzioni/diritti rappresentano la
«materia prima» dell’offensiva populista. La disuguaglianza — per dirla
con un termine che sintetizza il campo d’azione dei sindacati — non è
più monopolio dell’azione dei corpi intermedi (e della sinistra) ma è
come se fosse stata scalata e fatta propria dal populismo.
È
questa la ragione strutturale della crisi odierna del sindacato che nel
day by day si può facilmente constatare nei balbettii sul Def di
Salvini-Di Maio o nell’assordante silenzio sul rischio di uscita
dall’euro. Il sindacato confederale sa che per riconquistare la propria
base deve competere con una politica aggressiva ed è come se non avesse i
denti giusti per mordere. Sulle singole vertenze aziendali le categorie
hanno ancora peso e incisività, il tesseramento scende ma non tracolla,
l’impasse della confederazione si rivela invece proprio nell’incapacità
di approcciare la novità populista e di battersi per superare il
condominio. La risposta di medio periodo probabilmente sta
nell’accettare la sfida sulla democrazia: ampliandola all’interno delle
proprie strutture, avvicinando la contrattazione al luogo di lavoro,
costruendo una prospettiva «alta» di partecipazione e democrazia
economica.
E siccome stiamo parlando della Cgil sarà utile
rapportare questa discussione alla storia e agli schemi di
quest’organizzazione. E allora va detto che il sindacato ha bisogno sia
di un «momento Lama» sia di un «momento Trentin». Nel primo caso la
metafora storica serve per indicare come l’azione di sostegno e di
miglioramento della condizione di lavoro non debba entrare in
contraddizione con la salvaguardia degli equilibri di sistema. Il debito
o la permanenza nell’euro non sono materie che vanno «nascoste» al
dibattito sindacale, anzi in qualche maniera possono qualificarlo
smascherando il populismo di governo. Il momento Trentin indica invece
un’attenzione quasi spasmodica da rivolgere ai cambiamenti dell’economia
reale e delle imprese. Solo ricostruendo la mappa dell’innovazione con
tutte le sue discontinuità e le sue sfide il sindacato può trovare il
modo di radicarsi nel presente e di costruire quelle esperienze di
contrattazione capaci di concretizzare una proposta di
re-intermediazione. Confidiamo che la Cgil discuta di questo e non di
sole beghe interne e che il suo dibattito spinga anche gli altri corpi
intermedi a fare altrettanto.