Corriere 11.10.18
Il Pci non tradì il popolo
di Emanuele Macaluso
Caro
direttore, Ernesto Galli della Loggia è un mio amico, conosco le sue
idee sul Pci, anche perché ha partecipato alla presentazione di miei
libri sulla storia del partito. Tuttavia devo dire che il suo editoriale
di lunedì scorso (8 ottobre) – «La sinistra e il popolo tradito» – mi
ha stupito per quel che Ernesto ha scritto sulla vicenda politica del
Pci e anche su ciò che ha sostenuto sulla storia delle socialdemocrazie
europee.
Ha scritto della Loggia: «Il Partito comunista non ha mai
voluto essere un partito popolare, tipo il Partito laburista o la Spd
tedesca», partiti «spesso guidati non a caso anche da leader usciti
dagli strati popolari». E ancora: «Il Pci nacque come partito di
avanguardie rivoluzionarie, perlopiù intellettuali, le quali verso il
popolo come tale e verso il suo universo nutrivano una notevole
diffidenza». Di più: «Nei confronti della stessa classe operaia quelle
avanguardie si ponevano in un ruolo superiore di guida».
Caro
Ernesto, la tua analisi non regge di fronte ai fatti. Innanzitutto, i
partiti socialdemocratici europei sono stati fondati e diretti da
intellettuali. Karl Marx diresse la I Internazionale e l’austromarxismo è
stato la base politico-elettorale della socialdemocrazia tedesca. Dopo
la Seconda Guerra Mondiale e il passaggio di Bad Godesberg,
l’intellettuale Willy Brandt divenne capo della socialdemocrazia e
presidente dell’Internazionale socialista. E nel Partito laburista la
storia fu la stessa. In Italia, Turati, Modigliani, Prampolini e altri
erano intellettuali e, dopo la Liberazione, ricordo che ci fu
l’intellettuale Saragat.
Il Pci nacque, come scrivi, dal gruppo
dell’Ordine Nuovo: Togliatti, Terracini, Tasca erano intellettuali ma
penso soprattutto a Gramsci che aveva avuto un organico rapporto con il
popolo. Ma l’Ordine Nuovo nacque dall’esperienza dei consigli di
fabbrica a Torino e quegli operai si chiamavano Roveda, Parodi, Comollo,
Amoretti, per citarne alcuni, che poi, dopo la Liberazione, furono
dirigenti del partito. Anche il gruppo meridionale di Bordiga,
soprattutto a Napoli, si formò su importanti adesioni operaie.
Caro
Ernesto, io ho aderito al Pci clandestino nel 1941 e non avevo letto
Marx. Mio padre era manovale nelle Ferrovie e ho vissuto nei quartieri
degli zolfatari (i miei nonni lavoravano nelle miniere) e furono la
questione sociale e l’antifascismo a spingermi verso il Pci. E non sono
stato di certo un’eccezione; tanti dirigenti del Pci venivano da una
storia che, dopo la Liberazione, intrecciava le lotte contadine ed
operaie con le battaglie per le prime ed essenziali conquiste sociali.
Si era con il popolo e il suo modo di essere. Tu ricordi Bruno Trentin,
intellettuale e segretario della Cgil negli Anni Ottanta. Ma Trentin era
nella Cgil con Di Vittorio, Bitossi, Parodi, Roveda, Novella, tutti di
origine operaia: dopo Lama e l’operaio Pizzinato fu segretario della
Cgil e, in precedenza, anche della Fiom, con una grande capacità di
legame, non solo con la «classe» ma con singoli operai. Le testimonianze
sono tante.
Ernesto, tu scrivi che «dopo il 1989 il nome
comunista è diventato impresentabile, il Pci ha preferito cambiarlo
chiamandosi “di sinistra” e poi “democratico” ma dio ne scampi, giammai
socialista o socialdemocratico». Ma quale Pci? Il Pci, dopo il 1989-90
non c’è più e tu dimentichi che Pajetta, Natta, Ingrao, Tortorella,
Cossutta, Garavini e molti altri non vollero chiamarsi «democratici di
sinistra», ma ancora comunisti. E Napolitano, Bufalini, Chiaromonte,
Cervetti, Rubbi e il sottoscritto (anche con tanlo stile non era
«popolare»
di Ernesto Galli della Loggia
Ca ro Emanuele, ti
ringrazio di cuore per aver ricordato la nostra amicizia e per le tue
osservazioni, che mi consentono, rispondendo, di cercare di fugare
alcune perplessità che il mio articolo ha suscitato anche in altri
lettori.
Quando dico «partito popolare» dobbiamo intenderci. È
ovvio, come tu sottolinei, che all’origine di tutti i partiti socialisti
europei (farei qualche riserva per il Labour Party) ci sono state
figure di intellettuali e in essi hanno militato degli intellettuali
veri e propri che talvolta ne sono stati anche ai vertici. Ma ciò che
conta è il «tono», l’«humus» che ha caratterizzato la vita dei quadri e
della dirigenza di tali partiti. Ciò che conta è, per così dire, il
tratto dominante che caratterizza l’ambiente della leadership, il suo
«stile» di vita, l’abbigliamento, gli svaghi, i matrimoni, il modo di
vestirsi e di parlare, le sue frequentazioni abituali. Questo alla fine
conta molto, molto di più che non la specifica origine sociale di questo
o quel dirigente.
Se dunque è vero come tu dici portando
l’esempio di te stesso che al vertice del Pci troviamo storicamente non
pochi individui di origine popolare (ma fino a quando? mi pare anche dai
nomi che fai, che dalla metà degli anni 60 del Novecento siano davvero
pochissimi), mi sembra ancora più vero che almeno dal 1944 in avanti,
magister supremo Togliatti, il tratto dominante, lo stile di vita e
l’autorappresentazione del gruppo dirigente comunista non fu davvero un
tratto lontanamente definibile come «popolare» e certamente neppure
piccolo-borghese – come invece fu certamente quello che molto a lungo
aveva distinto i vertici dell’Spd e del Partito laburista – bensì un
tratto di tipo schiettamente borghese-intellettuale. Un modello a cui
era sottinteso che dovessero adeguarsi, o al quale comunque erano
spontaneamente portati ad adeguarsi, tutti coloro che pur di diversa
origine sociale volevano arrivare in alto attraverso la cooptazione. Il
che non vuol dire, naturalmente, che chiunque potesse tranquillamente
avere quanti amici operai volesse: ci mancherebbe altro!
Quanto
alla questione della scelta del nome dopo l’89, condivido la tua
ricostruzione, caro Emanuele. Ma sta di fatto che la maggioranza di
quello che era stato il Pci scelse il nome che sappiamo: dove la parola
socialismo non c’era.ti giovani) aderirono alla «svolta» di Occhetto ma
proposero la definizione di «Partito del socialismo europeo». Cos’è il
Pci di cui parli senza quelli che continuarono a chiamarsi comunisti e
senza di noi riformisti? Certo, su un punto hai ragione: la fine dei
partiti del dopoguerra e della Costituzione ha lasciato un vuoto che, a
mio avviso, dura da 30 anni. E nel vuoto oggi, come dici, parte del
popolo si identifica con la felpa di Salvini e gli arditi congiuntivi di
Di Maio. E la responsabilità di questo vuoto è, in buona parte, di quel
gruppo di ex Pci, che dal Pds al Pd hanno interpretato la «sinistra».
Ma questo è un altro discorso.