Corriere 10.10.18
Il carbone di Lenin
di Federico Fubini
Nel
1920 l’Italia era in preda alle convulsioni che seguirono la prima
guerra mondiale e una rivoluzione bolscevica pareva nell’aria. Angelica
Balabanoff, una marxista ucraina che avrebbe passato buona parte della
sua vita a Roma, ne parlò con Lenin in persona. «Compagna — rispose il
leader sovietico — ti ha mai colpito il fatto che l’Italia non ha
carbone?».
La stessa Balabanoff ha riferito l’episodio qualche
anno dopo a Gaetano Salvemini, che lo cita nelle sue lezioni sul
fascismo tenute nell’esilio di Harvard. Ed è chiaro il messaggio di
Lenin: l’Italia la rivoluzione non la può fare, perché non ha carbone.
Si sarebbe trovata tagliata fuori dagli scambi con le altre potenze
dell’epoca e incapace di sostenersi da sola. Il pericolo di restare
senza materie prime le impediva di sovvertire l’ordine economico
esistente, per quanto detestabile esso fosse.
Inutile dire che il
carbone di un secolo più tardi sono i flussi finanziari internazionali,
senza i quali l’Italia corre una versione moderna dei rischi descritti
da Lenin. Ed è un’ironia che il rivoluzionario più fanatico della storia
dovesse ricordare agli italiani lo stesso principio di realtà che oggi è
l’Unione Europea a rappresentare: quali che siano gli orientamenti
della massa dei disoccupati e di coloro che si sentono defraudati del
futuro, non c’è alternativa.
G li elettori possono votare chi
vogliono e su Facebook può diventare virale qualunque troll. Non importa
se condivisibile o no, se giusto o assurdo. Alla fine un Paese senza
carbone dovrà comunque fare più o meno ciò che serve perché il resto del
mondo se ne fidi abbastanza da non isolarlo, soffocandolo.
Ci è
passata la Grecia, dove la rivolta politica di Alexis Tsipras è finita
con il blocco dei conti bancari e la capitolazione alle richieste
europee. Non è chiaro se ci passerà l’Italia, dove la rivoluzione
equivale a un «reddito di cittadinanza» per l’otto per cento degli
abitanti oggi in povertà assoluta e al progetto di vivere per trent’anni
con una pensione piena. Né è chiaro il punto di arrivo di questa
rivolta, ma lo è quello di partenza: se gli elettori hanno la sensazione
che il loro voto sia inutile perché tanto si devono seguire sempre le
stesse politiche, se il sistema è liberale e rappresentativo ma «non
democratico» — nella definizione del politologo di Harvard Yasha Mounk —
allora tanto vale incoronare i populisti. Saranno rozzi e velleitari,
ma almeno non sono sconnessi dalla realtà sociale del loro Paese come
l’establishment riformista e liberale. Sono capaci di capire ed
esprimere la volontà popolare, saggia o meno che essa sia.
I
populisti hanno però anche un’altra caratteristica, che viene fuori solo
quando arrivano al potere. Essa in gran parte spiega perché in
Ungheria, in Polonia o in Italia — dove governano — la voce
dell’opposizione sia diventata impercettibile. Non è repressione da
parte di chi comanda. È che i populisti una volta nelle stanze dei
bottoni governano come se fossero ancora all’opposizione:
all’opposizione del governo precedente (vedi il caso del ponte di
Genova), delle istituzioni indipendenti e delle competenze tecniche
dell’amministrazione (vedi le minacce del portavoce di Palazzo Chigi al
ragioniere dello Stato o il sarcasmo di Luigi Di Maio verso la Banca
d’Italia) e di tutti i sistemi di pesi e contrappesi al potere esecutivo
(gli insulti di Salvini alla Commissione Ue).
È una strategia
geniale. Opporsi a coloro che governano pretendendo di essere essi
stessi opposizione fa apparire le minoranze — in Parlamento e nel Paese —
nei panni di un establishment incartapecorito e sulla difensiva.
Questa
strategia però ha anche un effetto collaterale, forse non involontario:
delegittima e cerca di depotenziare le autorità indipendenti, le
competenze tecniche delle amministrazioni, i media tradizionali «venduti
e mentitori», i pesi e contrappesi e tutte le altre istituzioni che
rendono un sistema, oltre che democratico, anche liberale. Queste sono
le istituzioni disegnate per impedire gli abusi di potere e gli atti di
cieca ignoranza, garantendo che le maggioranze governino in nome di
tutti e non solo di se stesse; sono i sistemi che proteggono lo Stato di
diritto, la separazione dei poteri e le libertà individuali: il diritto
di espressione o associazione, e anche la possibilità di disporre dei
propri risparmi come si vuole.
Le forze di governo attuali sono
così democratiche da essere ossessionate dall’idea dell’avere il
consenso. Ma compiono gesti mirati a subordinare le istituzioni
liberali. Il Movimento 5 Stelle ha mosso una battaglia martellante
contro il presidente della Consob Mario Nava (che non doveva dar loro
partita vinta, aprendo un vuoto); ha proposto di togliere ai media la
pubblicità istituzionale e quella delle società partecipate dallo Stato,
una tattica già vista in Polonia; ha usato Palazzo Chigi e la piazza
antistante per una gazzarra grottesca con le bandiere di partito. Ma
quel palazzo e quella piazza non sono dei 5 Stelle, sono anche la sede
dei presidenti del Consiglio passati e futuri. Sono anche del 49% degli
italiani che non ha votato questo governo e del 68% che non ha votato
M5S.
In un celebre test psicologico, a un uomo viene mostrato un
gatto su uno schermo e gli si chiede cosa vede. Proprio mentre l’uomo
risponde che vede un gatto, la forma inizia a cambiare
impercettibilmente in quella di un cane eppure l’uomo — se non distoglie
gli occhi un istante — continuerà a dire che vede un gatto. La natura
umana riconosce le trasformazioni più subdole in ritardo, quando vi è in
mezzo. Non vorremmo aprire gli occhi un giorno, e scoprire che quello
era proprio un cane .