Reubblica 27.9.18
La storia del Santa Fe Institute
Così il caos divenne scienza esatta
di Marco Belpoliti
Il
saggio di Morris Mitchell Waldrop mai più ristampato racconta la storia
del Santa Fe Institute. Fondato in New Mexico negli anni Ottanta, mise
insieme un pool multidisciplinare di ricercatori che cambiò l’approccio
epistemologico
Grande è il disordine sotto il cielo, eppure oggi
sembra prevalere l’idea che sia possibile semplificare i problemi per
risolverli. Nell’economia, nella scienza, nell’arte, nella letteratura, e
soprattutto nella società e nella politica, le formule semplici, che
cercano di ridurre le questioni, sembrano dominare.
Più aumenta il
caos e più questa tendenza prende piede. Nel 1984 un gruppo di studiosi
americani di varie discipline scientifiche pensò bene di dare vita a
un’istituzione che studiasse proprio la complessità. Non era ancora
caduto il Muro di Berlino, il terrorismo non era diventato un fenomeno
planetario, la finanza internazionale non era andata in crisi, eppure
molti segnali indicavano che il pianeta era attraversato da fenomeni
complessi e imprevedibili. Nel 1972 un matematico, che si era dedicato
alla meteorologia, Edward Lorenz, formulò la teoria del cosiddetto
"effetto farfalla", da lui delineato nel 1962. In una conferenza si
chiese: «Può, il batter d’ali di una farfalla in Brasile, provocare un
tornado in Texas?». La risposta era: sì. Era nata ufficialmente la
"teoria del caos". A Santa Fe, nel New Mexico, alcuni studiosi di fisica
decisero perciò a metà degli anni Ottanta di mettere in piedi
un’istituzione che radunasse ricercatori di differenti discipline per
uno studio del caos.
Sembrava loro che nessuna disciplina potesse
da sola risolvere le grandi questioni in campo e che fosse necessario
incrociare i diversi ambiti di studio: matematica, economia, biologia,
fisica, statistica. L’idea venne a George Cowan, chimico
sessantasettenne. Era stato uno degli scienziati che avevano partecipato
al progetto nucleare.
Convinto che nelle università americane non
vi fosse il clima giusto per una ricerca interdisciplinare, era giunto
alla conclusione di fondare un apposito istituto non profit. Perciò
decise di parlarne con due consulenti scientifici della Casa Bianca, tra
cui David Packard, fondatore della Hewlett-Packard.
Saranno scettici, si dice; invece lo incoraggiano a proseguire.
Coinvolge
tre premi Nobel per la fisica e l’economia: Murray Gell-Mann, Philip
Anderson e Kennet Arrow e in un ex convento di Santa Fe installa il
primo gruppo di lavoro: un istituto senza docenti fissi, che organizza
seminari e incontri, permanenze di lavoro per scienziati. Servono i
soldi per farlo e uno dei partecipanti ne parla con il capo della
Citicorp, la banca americana, e lo convince che forse lì si possono
studiare modelli economici non tradizionali per capire i mercati
finanziari. I soldi, 120.000 dollari, arrivano a una condizione: fare
qualsiasi cosa purché non sia convenzionale. La storia del Santa Fe
Institut è stata raccontata da Morris Mitchell Waldrop, fisico di
formazione e giornalista scientifico di professione, in un libro mai più
ristampato: Complessità. Uomini e idee al confine tra ordine e caos
(traduzione
di Libero Sosio) edito nel 1996 da Instar Libri, che nel 2002 pubblicò
poi anche Simmetrie. Scienza, fede e ricerca dell’ordine di George
Johnson, sempre sulla medesima avventura. Waldrop narra la storia delle
anime solitarie che hanno incrociato menti bizzarre e idee strane,
percorsi tra ricerche, passioni e incontri. Ne esce un profilo
affascinante di scienziati e studiosi originali, eccentrici, poco
prevedibili, che hanno fornito un contributo importante al cambiamento
del paradigma dominante della scienza classica.
Per quanto siano
trascorsi parecchi decenni da allora, la nascita del Santa Fe Institute
rappresenta una vicenda paradigmatica di come la scienza sia l’effetto
di continui scambi di idee al di fuori degli ambiti disciplinari dei
singoli scienziati, perché la complessità è diventata la condizione
preponderante del mondo contemporaneo.
Il libro, che sarebbe bello
veder ristampato per il suo andamento narrativo, è fondato su
interviste e conversazioni con i protagonisti di quell’avventura.
Racconta la storia di Brian Arthur, un giovane matematico che si
occupava di "rendimenti crescenti", ovvero di come si affermano
tecnologie, o si aggregano aziende in una medesima zona, smentendo le
teorie neoclassiche del mercato libero. Oppure quella di John H.
Holland,
studioso di "sistemi complessi adattivi" che arriva a Santa Fe dopo
decenni di ricerche e scopre a cinquantasette anni compiuti che i suoi
studi non sono così marginali o strani come credeva. C’è poi la vicenda
di un altro eccentrico, Chris Langton, ex hippy, appassionato di
alianti, precipitato disastrosamente durante un volo, che dopo anni nel
New Mexico non ha ancora completato la sua tesi di Post-Doc tutto preso
com’è dall’organizzare convegni e compiere le sue solitarie ricerche
sulla "vita artificiale". Mago del computer – molti dei membri giovani
dell’Institute sono degli autodidatti in questo – è arrivato, senza una
vera carriera accademica a formulare ambiti di ricerca tra biologia e
computer grazie al sostegno dei colleghi di Santa Fe. Gli elaboratori
elettronici sono lo strumento che consente ricerche e modellizzazioni in
precedenza impossibili. La cosa interessante che Waldrop racconta è che
la scienza, sia del passato come del presente, funziona in base alle
metafore, e che queste si modificano. Quella della fisica newtoniana era
fondata sull’immagine dell’orologio: semplice, regolare, intuibile,
autonomo: così ancora l’economia classica della "Mano invisibile".
Poi
con l’inizio del XX secolo Russell, Whitehead, Frege, Wittgenstein
misero mano a un’immagine diversa della scienza; Gödel mise in luce
l’incompletezza dei sistemi matematici e Turing diede un altro scossone
all’idea della decidibilità delle nostre operazioni. Nel 1989 il Muro di
Berlino crollò; nel 2008 la Lehman Brothers fece fallimento; nel 2018 a
Santa Fe hanno organizzato un seminario: After Trump and Brexit: A New
Economics.