Repubblica 9.9.18
Eduard Limonov
Il carcere. L’esilio. E il
sogno dell’impero russo. Lo scrittore e militante reso famoso da Carrère
("Ma che noia il suo libro su di me") parla e attacca tutti. Dando
scacco pure a Kasparov
di Antonio Gnoli
Qualche
settimana fa, durante una cena, ho chiesto alla scrittrice russa Ludmila
Ulitskaja e alla sua traduttrice che cosa pensavano di Eduard Limonov.
Si sono guardate, hanno parlottato e poi mi hanno risposto che Limonov è
forse il più grande poeta russo vivente, ma anche il più insopportabile
tra gli scrittori: non sa unire la scrittura alla vita, ma fa di tutto
per confonderle. Avevo incontrato Limonov circa un mese prima,
considerando un vantaggio averlo fatto fuori dal clamore mediatico che
la sua presenza aveva suscitato in Italia. Passare con lui un paio d’ore
nella casa editrice Teti, ultimo baluardo di un comunismo vintage che
come i vinili sospetto prima o poi tornerà di moda, è stata
un’esperienza curiosa. Ho visto un uomo fisicamente elegante, curato nel
vestire (di scuro), con un meraviglioso taglio di capelli, fortemente
sfumato sui parietali, quasi ad accentuare così la forma dolicocefala
del cranio. Aveva modi cortesi. E ad essere sincero mi è apparso molto
diverso dalle descrizioni un po’ brutali, alla Bukowski verrebbe da
dire, che ne ha fatto Emmanuel Carrére. Mi colpiscono le scarpe: fattura
decisamente italiana con fibbia laterale da prelato avvezzo alla
mondanità. Eppure, è un uomo che rivendica di non avere niente e per
questo ha tutto. Ai piedi della sedia noto una piccola borsa di stoffa,
color verde militare, acquistata in un mercatino: «È il mio bagaglio » ,
commenta. Tutto qui? Chiedo. La sua faccia, che il pizzo fa somigliare a
Trotsky, si apre come a dire: di cos’altro avrei bisogno. Già, di
cos’altro avrebbe bisogno lo scrittore russo oggi più famoso in
Occidente (e probabilmente anche il meno letto) che dimostra dieci anni
di meno rispetto a quelli che ha?
Dove è nato?
«In qualunque
parte sia nato conta solo l’ultimo domicilio. In ogni caso le mie
origini sono a Dzeržinsk, sul fiume Volga. Il nome della città era
l’omaggio a un pezzo grosso, un bolscevico, tra gli artefici della Ceka,
la polizia politica nella quale fu arruolato a forza mio padre. Col
tempo, il soldato Veniamin Savenko si guadagnò i gradi di tenente».
Lei ha cambiato nome.
«Limonov è molto meglio».
Ed è nato durante la guerra.
«Nel 1943. Che dire? Non ce la passavamo bene».
Cosa ricorda della sua infanzia?
«Nulla
di particolarmente significativo. Faccio fatica a riordinare i miei
primi anni di vita; ritengo siano stati una pura perdita di tempo. Non
penso possa esistere un’infanzia felice».
Però lei accorda all’infanzia una condizione speciale. Almeno è quello che si legge in "Zona industriale".
«Soprattutto
in Europa l’infanzia è da un paio di secoli oggetto di venerazione. Per
quanto sia stato in grado di osservarli, i bambini mi sembrano entità
preumane. Creature mistiche e complesse. Giunte dal Cosmo e che il tempo
trascorso quaggiù fa decadere. Alla fine per puro adattamento divengono
come tutti noi: esseri inferiori».
So che lei ha due figli. Che rapporto ha con loro?
«Sono
stati una porzione del mio grande caos. Creature interessanti finché
erano piccole. Quando la loro vita era ancora tutta dentro una
dimensione diversa. Perciò sarebbe stato arduo cercare di comprenderli».
Sono i figli che ha avuto da una donna che ha molto amato.
«Ho sempre molto amato. Ma non vorrei partecipare alle fantasie che sovente si scatenano su di me».
Beh, è lei che racconta, non omettendo quasi nulla, di storie a volte tormentate.
«Che vuole che le dica, quando scrivo non sono il delatore di me stesso. Niente pettegolezzi».
Mi permetta di insistere, visto che lei ci ha costruito parte della sua carriera letteraria.
«Più di sessanta libri, dunque perché limitarsi al piccolo universo femminile? Comunque cosa vuol sapere?»
La donna più importante?
«Probabilmente
Natalija Medvedeva. È morta il 2 febbraio 2003. Ero disponibile ed
esposto al suo giudizio; volevo stupirla, renderla orgogliosa di me e
che mi considerasse il suo eroe».
La donna più bella?
«Katja
che soprannominai l’"attrice". Ci conoscemmo a un vernissage per un mio
amico pittore. Mi sembrò arrivata dal cielo. Delicata come lo stelo di
un fiore. Era lì ad attendere un amico oligarca. Che non venne. Fui io a
prendere il suo posto. Ci siamo sposati. Abbiamo avuto due figli. Dopo
il parto cominciò ad andare a Goa, quel posto prima frequentato da
fricchettoni e oggi da annoiati ricchi. Ci andò disse per riprendersi
dal trauma».
Cosa accadde?
«Non tornava più. Telefonavo e
lei diceva, mi sto curando. Sentivo voci maschili che le stavano accanto
e che sghignazzavano. Fu la prima seria rottura. Me ne andai una sera
dicendole che non aveva mai capito un cazzo del mio essere scrittore e
uomo politico».
La donna più trasgressiva?
«Natasha, una
spogliarellista che ribattezzai Lola Wagner. Le chiesi di venire a
convivere con me. Arrivò con i suoi bagagli da Pietroburgo. Scoprii che
scriveva poesie. La notte usciva per andare a ballare ai night.
Rincasava all’alba. Le dedicai dei versi. Mi resi conto che era una
ragazza negativa, una bad girl. Pensai che, se la nostra storia fosse
proseguita, prima o poi avrebbe passeggiato sul mio cadavere. Le diedi
il benservito. Lei disse: sei crudele. La vita è crudele darling,
risposi».
La vita è stata crudele anche con lei?
«Qualche annetto di prigione ti lascia modo di riflettere».
La condannarono a quanti anni?
«In
tutto 14 anni. Fui arrestato una mattina di aprile del 2001. Eravamo in
otto in una casetta di legno sui monti dell’Altaj. All’alba una squadra
speciale ci circondò. Erano soldati. Una settantina. Ci trascinarono
fuori uno a uno. Ero convinto che ci avrebbero sgozzati e invece ci
portarono in galera».
Con quale accusa?
«Terrorismo,
eversione contro lo Stato, il partito che avevo fondato fu dichiarato
fuori legge. La pena in seguito fu ridotta sensibilmente. Alla fine
scontai 15 mesi in una prigione militare e altri dieci in una prigione
normale. Ho scritto sette libri durante la mia detenzione ».
Glielo consentivano?
«Sì,
il problema semmai era farli uscire. Avevo la libertà di leggere e
scrivere. Non quella di comunicare i contenuti all’esterno. Nella
prigione di Stato c’era una biblioteca molto ben fornita».
Come è stata l’esperienza del carcere?
«Diversamente
da quella vissuta dalla gran parte dei galeotti, che vi vedevano un
ambiente ostile e violento, il carcere è stato per me l’incontro con un
luogo mistico, di purificazione».
Si sentiva un privilegiato?
«No, scelsi vita comune con gli altri. Con la gente più diversa e straordinaria che potessi incontrare».
Quando è uscito cosa ha fatto?
«Andai
a vivere in un appartamento ampio e caotico di un palazzo a sei piani
nella zona industriale di Syry. Nel quartiere, poi gentrificato, c’erano
personaggi stravaganti, musicisti falliti, ex poliziotti, scrittori di
mezza tacca e branchi di cani da cui guardarsi per non essere assaliti».
Era molto diverso dagli anni trascorsi a New York?
«A
New York giunsi nel 1975 con un volo da Roma. Furono anni di montagne
russe, è il caso di dire. Miliardari e pezzenti, bianchi e neri,
migranti e stanziali, puritani e blasfemi. Ho visto e frequentato di
tutto. Senza pregiudizi, con il solo scopo di sopravvivere».
Emmanuel Carrère ha raccontato tutto questo. So che non ama parlarne.
«Gli sono grato di avermi reso famoso. Ma della sua biografia ho letto una cinquantina di pagine».
È un bel libro. Perché lo ha interrotto?
«Mi annoiava e poi è affetto da una specie di perbenismo letterario ».
Non mi pare, la mette piuttosto crudamente a nudo.
«Ci
siamo frequentati per due settimane. Crede sia un tempo sufficiente per
conoscere una persona come me? Diciamo che ha pescato nei miei libri».
Perché ha deciso di andare a vivere a New York?
«Avevo
lo stato di rifugiato politico. E c’erano due soli posti dove poter
andare. Uno il Canada, l’altro gli Stati Uniti. Ero con mia moglie
Tanja, decidemmo per New York. Prima di partire nel 1974 passai un
inverno a Roma».
Perché?
«C’era la fondazione Tolstoj che
aiutava i rifugiati con i visti per l’America. Sapevo che a Roma viveva
Pasolini. Avevo visto alcuni suoi film. Ero incuriosito dalla sua vita.
Lessi in francese una biografia su di lui di Enzo Siciliano. Mi colpì la
descrizione di una vita parallela ».
Cosa intende?
«Una vita che si muoveva su una costante distanza da quella reale. È come se la sua morte avesse congiunto le due rette».
È stato ora a Ostia sul posto dove fu ucciso.
«Un luogo che mi ricorda Syry».
C’è molta estetica nella sua vita?
«Non lo so. C’è la letteratura che scrivo e che leggo».
In "Zona industriale" torna spesso la figura di Faust.
«È
vero. La mia passione per Goethe non va però spiegata letterariamente.
Quando seppi che beveva compresi che non sapeva resistere alle sue
debolezze. E allora cominciò a piacermi. Ripresi a leggerlo cogliendo
finalmente la sua grandezza. Lo spirito di Faust è Nietzsche allo stato
puro, ma mezzo secolo prima che Nietzsche prendesse a martellate la
filosofia».
Per restare ancora un attimo sulla letteratura so che ha amato "Il lupo della steppa" di Hermann Hesse.
«Me
lo regalarono negli anni Settanta, quando ero a New York e vivevo a
casa di un multimilionario. Non mi piacque allora. Lo rilessi a Parigi.
Abitavo in una mansarda di rue Turenne. Quell’anno, era il 1985, entrò
in crisi il mio rapporto con Natasha. Pensai che il romanzo di Hesse
fosse la cosa più vicina al mio stato d’animo. Aprii una pagina a caso,
dove Harry, il lupo della steppa, cita un verso del poeta Novalis:
"Bisognerebbe essere orgogliosi del proprio dolore". Io lo ero? Penso di
sì. Negli anni successivi ho riletto ancora quel romanzo, sempre più
convinto che tra me e il lupo della steppa ci fossero delle somiglianze.
A cominciare dall’età per finire col senso di solitudine che prendeva
entrambi».
Ha combattuto la solitudine con la politica?
«La solitudine non si deve combattere, si deve usare. Questa è politica ».
Lei si è perfino alleato con l’ex campione del mondo di scacchi Kasparov.
«Detesto
gli scacchi, un gioco troppo pensoso per una persona impaziente come
me. Il mio alleato Kasparov: gran bel giocatore ma totalmente incapace
di prospettiva politica».
So che lei si definisce imperialista. Cosa intende esattamente?
«Intendo
l’impero russo. Che il popolo continua ad amare. Dal 1991 il popolo
russo è stato umiliato, preso a schiaffi. Siamo stati trattati come dei
falliti. Dimenticando il passato di questa grande nazione ».
Non crede che sia un’idea antiquata?
«Perché mai. L’Occidente si nutre di globalizzazione, cioè di un imperialismo mascherato. Dovremmo far finta di niente?»
I suoi rapporti con Putin?
«Ci
ha perseguitati. Lui è l’espressione di una trentina di famiglie
potenti. Non può prescinderne per ogni decisione. Ma condivido la sua
visione imperiale».
Più sogno o nostalgia?
«Nessuna nostalgia. Un sano realismo che sa anche prevedere la sconfitta. Sono un onesto reazionario. Dalle molte vite».
Lei
ha scritto che la vita è fatta di porte sbattute; di clacson di furgoni
che nella luce fioca del mattino trasportano pasta e carne in scatola;
di ragazze che fanno frusciare i loro collant e implacabilmente
invecchiano; di ragazzi che si violentano con l’alcol e il lavoro; di
soldati su gelidi camion che ignorano la propria destinazione; e di spie
in macchine riscaldate che tengono d’occhio il mio portone. È questa la
Russia che oggi vede e nella quale sentirsi prigioniero?
«Se mi
guardo indietro vedo molte vite diverse di me stesso: quella letteraria,
quella politica, quella mistica e poi c’è quella privata. Quanto a
quest’ultima ho sempre lottato per mettere su una famiglia che fosse
solida e unita. Non ci sono riuscito. Ogni volta che ho tentato ho
fallito. Le famiglie nelle mie mani si sbriciolano come biscotti secchi.
Cosa faccio allora? Vivo in buona solitudine. Incontrando qualche
ragazza disposta a passare un po’ di tempo con un vecchio poeta».