sabato 8 settembre 2018

Repubblica 8.9.18
Contro la democrazia
di Massimo Giannini


Io sono stato eletto, i giudici no.
Eccola, dunque, la “dottrina Salvini”. Semplice, cristallina, tecnicamente golpista. A metà strada tra Robespierre e il Marchese del Grillo. La diretta Facebook con la quale il capo della Lega ha lanciato la sua sfida finale ai magistrati segna un punto di non ritorno, nell’autunno della Repubblica che è già cominciato.
Con la consumata arte tribunizia che purtroppo gli va riconosciuta, il vicepremier celebra in Rete il suo “martirio”, davanti e insieme agli italiani. Sovvertendo tutte le regole e invertendo tutti i ruoli.
Aveva già iniziato a farlo da settimane. In questi ultimi giorni ha completato l’opera.
Prima l’affondo durissimo contro il tribunale del Riesame di Genova sui 49 milioni imboscati da Bossi&famiglia. «Temete l’ira dei giusti»: un anatema biblico, che nasconde una minaccia politica.
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Poi l’attacco violento alla Procura di Palermo sulla vicenda della nave Diciotti. «Qui non si molla di un millimetro, finché gli italiani me lo chiedono vado avanti » : una carezza ai suoi elettori, che nasconde uno schiaffo alle istituzioni. Nella sapiente e manipolatoria “ narrazione” salviniana, l’avviso di garanzia non è la notifica di un possibile reato che ha forse commesso (ipotesi tutta da dimostrare ma già di per sé gravissima, visto che riguarda il suo operato da ministro dell’Interno). Diventa invece una “medaglietta” da esibire, il suo j’accuse politico contro i magistrati che hanno osato tanto. E questi pm non sono servitori dello Stato che esercitano l’azione penale, come impone per obbligo la legge. Diventano invece gli aguzzini di una magistratura politicizzata, che questo “ governo del cambiamento” spazzerà via.
Salvini si dimostra ancora una volta abilissimo a trasformare un maleficio giudiziario in un beneficio politico. A neutralizzare le decisioni della magistratura facendole apparire come un “ favore” invece che un inciampo. È possibile che l’accusa di sequestro di persona aggravato a suo carico non sfocerà mai in un processo. È probabile che alla fine anche questa vicenda gli consentirà di volare ancora più in alto nei sondaggi, e di godersi altri e ancora più inquietanti bagni di folla come quello di Viterbo. Ma il suo rimane un “atto sedizioso” e ai limiti dell’eversione, come denuncia l’Anm correttamente, benché purtroppo inutilmente. Nel suo delirio social, il responsabile del Viminale fa a pezzi i principi- cardine della Costituzione con poche ma devastanti parole: «Qui c’è la certificazione che un organo dello Stato indaga un altro organo dello Stato, con la piccolissima differenza che questo organo dello Stato, pieno di difetti e di limiti per carità, è stato eletto, mentre altri non sono stati eletti da nessuno».
Tesi aberrante, che diventa destabilizzante perché a enunciarla è il vicepremier e ministro dell’Interno. Il depositario della forza pubblica e dello Stato di diritto, cioè, occupa l’agorà per buttare al macero il costituzionalismo che regge da oltre un secolo le civiltà occidentali. La democrazia come limite, il bilanciamento e il controllo dei poteri, la fisiologica e paritaria dialettica tra esecutivo, legislativo e giudiziario. Si compie così la parabola della destra populista iniziata con Berlusconi, il primo ad auto-proclamarsi legibus solutus grazie al voto degli italiani. Salvini segue e allarga il solco tracciato dal Cavaliere nel suo Ventennio (e farebbero bene a riconoscerlo quei giornali e quei politologi che invece vedono in questa deriva salviniana il frutto avvelenato non del berlusconismo da combattimento, ma del “giustizialismo di sinistra” dilagato da Mani Pulite in poi).
Da perfetto populista, il capo della Lega costruisce i suoi nemici e considera il consenso elettorale come un lascia- passare politico e uno scudo giudiziario. Il voto del popolo lo guida e lo protegge, la maggioranza conquistata nell’urna non è solo fonte di legittimità, ma sottintende una pretesa di impunità passata, presente e futura. La stessa pretesa “rivoluzionaria” che faceva dire a Robespierre, rivolto alle toghe chiamate a condannare Luigi XVI, « voi non siete giudici, siete soltanto uomini che rappresentano la nazione » . E poiché oggi la nazione sono io (è l’implicita chiosa del leader del Carroccio, forte del 32% che gli attribuiscono i sondaggi) voi non potete decidere nulla contro di me.
Questa è già un’enormità, che si aggiunge alle tante nefandezze finora compiute o annunciate da Salvini ( l’asse con Orbán nel nome del nazionalismo anti- europeo, il rancore xenofobo contro i migranti e i marginali, la brodaglia securitaria somministrata ogni giorno agli italiani stanchi e spaventati, che tuttavia l’apprezzano in assenza di un’altra minestra da mangiare). Ma c’è un fatto ancora più enorme, ed è la solidarietà che arriva a un ministro tecnicamente sovversivo dal suo presidente del Consiglio, che invece di censurarlo lo difenderebbe in giudizio, se potesse. Il Conte Silente questa volta parla, e purtroppo lo fa nel modo più vergognoso che si possa immaginare. Di Maio e Bonafede provano almeno ad assestare un buffetto al “collega” di governo. Ma usano il guanto di velluto, e dunque si ripropone il dilemma che pesa fin dall’inizio sulla coalizione gialloverde: fino a quando i pavidi Cinque Stelle sopporteranno di essere umiliati e cannibalizzati da un socio di maggioranza che li sbugiarda persino sui temi della legalità?
Mussolini diceva « io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani » . Oggi, nel declino inesorabile delle vecchie culture politiche del Novecento europeo e nell’ascesa irresistibile delle nuove destre sovraniste, sta accadendo un fenomeno analogo. Per intenderci: non abbiamo “ il fascismo alle porte”, perché la Storia non si ripete mai uguale a se stessa. Ma abbiamo “ il leghismo dentro casa”, che non è la stessa cosa ma un po’ gli somiglia.
E tanto basta, per essere preoccupati. E per ricordare le parole di Norberto Bobbio (se non suonassero blasfeme, nel Paese smemorato e arrabbiato in cui viviamo): serve un’Italia di “democratici sempre in allarme”. Vengano fuori, se esistono ancora.