venerdì 7 settembre 2018

Repubblica 7.9.18
La città delusa
La rabbia di Taranto "Traditi dai 5 Stelle"
di Chiara Spagnolo


TARANTO Una città ferita che ha paura di morire.
Taranto non è una città sollevata nel giorno in cui al Mise è stato firmato l’accordo per la cessione dell’Ilva ad Arcelor Mittal. È delusa. Innanzitutto dal Movimento 5 Stelle, che in campagna elettorale aveva promesso la chiusura delle fonti inquinanti del siderurgico e a distanza di sette mesi ha suggellato la cessione. La contestazione è nell’aria. Davanti alla fabbrica in cui i pentastellati avevano raccolto una parte consistente di quel 47% che li aveva fatti diventare il primo partito della città. E poi sui social, dove la base si rivolta contro la dirigenza, e nelle strade. In piazza Della Vittoria, durante le 24 ore di sit-in al grido "Non c’è più tempo", si presenta la deputata pentastellata Rosalba De Giorgi.
La chiamano «venduta», le urlano «ci hai traditi», lei abbozza una replica ma va via sotto scorta. La tensione è alta e la rabbia negli occhi delle mamme che hanno perso i bambini, di chi ha dovuto piangere mariti, fratelli, amici, colleghi. L’accordo che a Roma è stato salutato come un successo, in questa Puglia che fu Magna Grecia diventa una beffa. Perché la salvaguardia dei posti, che pure si è strappata a fatica, non restituirà la salute a chi l’ha persa respirando i fumi dell’acciaieria. «I morti non torneranno — dice un operaio 43enne — e domani potrebbe toccare a uno di noi».
Disapprovazione e rassegnazione. Come accade da anni in una terra che è stata obbligata a scegliere fra salute e lavoro. E che pochi mesi fa aveva creduto nel miracolo 5 Stelle, quello che avrebbe invertito la rotta e chiuso le fonti inquinanti, che avrebbe bloccato le grandi opere: «Non soltanto l’Ilva — ricorda Virginia, del Comitato cittadini liberi e pensanti — ma anche il gasdotto Tap». La promessa era allettante: non chiusura ma riconversione, come aveva detto Beppe Grillo quando era venuto a Taranto.
Illusioni crollate in pochi mesi.
Che hanno riportato la gente per strada, mentre il sindaco Rinaldo Melucci si diceva soddisfatto «nonostante ci sia ancora tanto da fare in termini di bonifiche, tutela della salute e diversificazione produttiva». E l’arcivescovo, monsignor Filippo Santoro, parlava di «un punto di partenza che sembra positivo». Per molti tarantini, invece, questo è il punto del non ritorno. E per questo hanno deciso di passare la notte in piazza, come spiega Antonella Coronese del comitato Help Us: «Siamo stremati, abbiamo bisogno di supporto psicologico per andare avanti». Andare dove?
Molti vorrebbero fuggire via da Taranto, quasi nessuno può farlo.
«Chi vive ai Tamburi è come un condannato a morte». Nel quartiere in cui anche gli edifici sono diventati rossi, nulla ha più valore, né la salute né le case. Il destino appare segnato. E gli investimenti annunciati per la riconversione in impianto pulito vengono considerati inutili: «Nel contratto è stata mantenuta l’impunità per l’acquirente», dicono gli operai. Per loro significa che il nuovo proprietario potrà continuare a inquinare impunemente come fecero i Riva anche se il governatore Michele Emiliano avvisa: «Senza garanzie sulla salute non darò mai il mio assenso al piano ambientale». «E anche a non investire in sicurezza sul lavoro», dice Alessandro Semeraro, lavoratore con un passato da sindacalista deluso. Del resto, 12 morti sul lavoro in sei anni sono una una maledizione: la stessa che il 17 maggio ha portato via Angelo Fuggiano, che a 28 anni lavorava nell’Ilva per una ditta dell’indotto. Abitava ai Tamburi e respirava diossina dentro e fuori il siderurgico. «Forse è una fortuna che non abbia visto questa giornata in cui dicono che tutto è cambiato ma tutto è rimasto uguale», dice un suo amico.