giovedì 6 settembre 2018

Repubblica 6.9.18
Paul Greengrass "La strage di Utoya poteva accadere ovunque in Europa"
Con "22 July" il regista racconta cosa successe dopo la carneficina dell’estremista norvegese Breivik
intervista di Arianna Finos


VENEZIAA pochi mesi da U- July 22, firmato dal norvegese Erik Poppe, presentato all’ultima Berlinale, arriva un film con un titolo simile, 22 July, e sullo stesso tema: la strage del 2011 a Utoya, il campeggio di adolescenti attaccato dall’estremista di destra Anders Breivik, che prima aveva fatto esplodere un’autobomba a Oslo.
Settantasette vittime in tutto.
Si tratta però di approcci e risultati completamente diversi.
Nei 72 minuti del film norvegese si ricostruiva in tempo reale la fuga dei ragazzi sull’isolotto, tra spari e uccisioni, senza mai vedere il killer. Quello del britannico Paul Greengrass invece, che si vedrà su Netflix dal 10 ottobre, è soprattutto il racconto umano e giudiziario di ciò che è successo dopo, attraverso la strategia processuale di Breivik e la riabilitazione fisica e psicologica di uno dei giovani feriti.
Greengrass, perché ha voluto questo film?
«Non ho visto quello norvegese.
In realtà lavoravo a un progetto sulle migrazioni. Ho fatto ricerche in posti come Lampedusa, sul traffico di esseri umani.
Ma poi ho deciso di raccontare i fatti di Utoya perché sono molto preoccupato della crescita della destra, attraverso l’occidente e l’Europa.
Un percorso che è iniziato con la grande crisi economica del 2008, si è accresciuto con i fenomeni della migrazione e la paura degli immigrati cavalcata da forze populiste nel mio paese, la Gran Bretagna, e anche in Italia. Non succedeva dalla Seconda guerra mondiale. I miei nonni e genitori hanno attraversato il conflitto, toccato con mano a cosa portino l’odio e la divisione. Sono riusciti a costruire una struttura capace di contenere il nazionalismo che però si è erosa negli ultimi quindici anni. Ciò che è successo in Norvegia poteva accadere in ogni parte d’Europa e degli Stati Uniti».
Nel film norvegese Breivik non compariva, lei lo ha messo al centro.
«Non volevo creare un ritratto simpatetico, ma sarebbe stato un errore dipingerlo come un mostro. Ma attraverso la caratterizzazione che ne abbiamo dato si capisce come, malgrado il passato tribolato e i problemi familiari, la motivazione principale di ciò che ha fatto era politica. Si vedeva come il portabandiera della rivolta dell’estrema destra in tutto l’Occidente. Quello che mi interessa è la sua retorica, gli argomenti usati che oggi sono diventate posizioni mainstream».
Alla Mostra c’è anche un documentario di Errol Morris dedicato a Steve Bannon.
«Non sarebbe giusto fare un collegamento diretto tra le posizioni di Breivik e quelle di Bannon. La retorica è la stessa, ma i metodi sono molto diversi.
Ma di certo in comune ci sono certe parole, certi argomenti, certi modi di vedere il mondo.
Il problema è che dentro forze di destra legittime che sono nate, anche in Europa, raccogliendo la rabbia degli sconfitti dalla globalizzazione, si annida un nucleo più oscuro che è quello del nazismo, della violenza.
E a quelle dobbiamo fare attenzione, perché è già successo negli anni Trenta in Germania e sappiamo come è andata a finire».
La reazione della Norvegia è stata una riaffermazione delle regole della democrazia, che tutela anche i colpevoli. Breivik è stato condannato a 21 anni.
«Sì. La reazione è stata la stessa da parte della società, dei politici, degli avvocati, delle famiglie delle vittime. Il mio non è un film sull’attacco ma su cosa è successo dopo la strage. Nei miei film ho dipinto spesso politici corrotti, è divertente e aiuta la democrazia essere scettici sui leader.
Ma stavolta volevo ricordare quelli che si pongono al servizio dello stato, come è successo in Norvegia. La democrazia deve lottare per difendere sé stessa attraverso i mezzi che ha a disposizione».
Il suo film sembra diretto al pubblico dei giovani.
«Non è la mia generazione ma quella nuova che dovrà rendersi conto di quel che succede e dovranno reagire per scegliere in che mondo vogliono vivere.
Non penso che si lasceranno sopraffare. Gramsci diceva: "Il vecchio muore e il nuovo non può nascere. Se non saremo più in grado di far nascere una più razionale organizzazione della società sulle rovine dell’attuale, andremo incontro a un’epoca ancora più oscurantista e imbarbarita della presente".
È quel che viviamo ora: dopo quarant’anni c’è qualcosa che sta cambiando nell’Occidente, ma non è chiaro cosa succederà.
Io sono ottimista».