giovedì 6 settembre 2018

Corriere 6.9.18
Quei ragazzi uccisi a Utoya Tensione e crisi di coscienza
Greengrass racconta la strage e i dubbi dell’avvocato di Breivik
di Paolo Mereghetti


Come tanti film che raccontano fatti reali, anche 22 July di Paul Greengrass si chiude con una serie di cartelli su fondo nero. Prima, il film ha ricostruito la follia omicida di Anders Breivik (l’autobomba a Oslo e la spedizione sull’isolotto di Utoya armi in pugno: 77 morti e più di 300 feriti) e poi ha raccontato in parallelo la difficile riabilitazione di uno dei giovani, la difesa che un avvocato progressista si sente obbligato a offrire al terrorista e l’inchiesta promossa dal primo ministro per accertare le responsabilità.
Dopo che la ricostruzione (in corretto stile professional-seriale: Greengrass sa come tenere alta l’attenzione) è terminata con la condanna dell’imputato, sullo schermo nero leggiamo i destini dei vari protagonisti: Breivik in isolamento, l’avvocato al lavoro a Oslo, il giovane all’università, il primo ministro in carica fino al 2013.
Ma per una volta il «messaggio» ci viene da quello schermo nero, perfetta rappresentazione della resa del cinema (cosa c’è di più evidente della mancanza di immagini per rappresentarla?) di fronte a qualcosa che per tutta la durata del film abbiamo avuto sotto gli occhi ma che sembrava volerci sfuggire: la radicale distanza tra l’agire degli uomini — le loro leggi e le loro regole — e l’agire di chi quel patto sociale lo nega col terrore. L’impossibilità di un qualsiasi confronto.
Nelle scene finali, l’avvocato si rifiuta di stringere la mano al suo «cliente» e il giovane, che ha perso anche un occhio, finisce per esserne contento perché così può «non vederlo».
Ma l’imperturbabile volto di Breivik è lì a ricordarci che né la condanna del tribunale né il dolore o il disprezzo sono riusciti a scalfire le sue certezze. E quello schermo nero ribadisce una distanza drammaticamente invalicabile, una differenza così radicale da non essere nemmeno rappresentabile.
Chi invece non si tira indietro rispetto alle immagini è Carlos Reygadas che impiega i 173 minuti di Nuestro tiempo (Il nostro tempo) per raccontare la crisi matrimoniale tra Juan e Esther, allevatori di tori da combattimento nella campagna messicana. Lui, che è anche un poeta di fama mondiale, ha sempre teorizzato la libertà del vincolo matrimoniale ma quando lei si accende di passione per un addestratore di cavalli, le sue teorie entrano in crisi. Juan le rinfaccia la mancanza di sincerità, Esther le sue contraddizioni mentre si moltiplicano le tentazioni adulterine, a volte favorite da un marito voyeur.
Rispetto al precedente e discusso Post Tenebra Lux, Reygadas abbandona i simbolismi e le situazioni simil-hard, stemperando anche il suo spirito anti-borghese; ma l’impressione è che la sincerità che a tratti si legge tra gli estenuanti soliloqui dei protagonisti (pensieri o lettere declamati a voce alta) finisca per perdersi nella sua voglia di filmare tutto e il contrario di tutto.
I tori allo stato brado che lottano per non si sa quale supremazia possono anche essere metafore del maschilismo alfa, i bambini che giocano e scherzano nel fango sono forse il segnale di una vitalità primigenia ma si fatica a trovare la necessità di queste scene dentro l’economia del racconto. E alla fine vince la sensazione che sia il piacere della ripresa a prendere il sopravvento sulla regia, non viceversa.