giovedì 6 settembre 2018

Corriere 6.9.18
Khaled Hosseini e il monologo per Alan: accogliere è un dovere, in Sicilia generosità travolgente
In libreria per Sem la «Preghiera del mare» che l’autore del «Cacciatore di aquiloni» dedica al padre del bimbo siriano annegato
«Con me, nella pelle dei profughi »
di Luigi Ippolito


LONDRA Un libro in controtendenza, l’ultimo lavoro di Khaled Hosseini, l’autore di bestseller planetari come Il cacciatore di aquiloni o Mille splendidi soli. Un libro che parla di profughi, di chi affronta la traversata, spesso mortale, delle acque del Mediterraneo: e che si mette dalla loro parte, nei loro pensieri, nella loro pelle. E questo nel momento in cui l’Europa, l’Italia, preferisce guardare da un’altra parte, alzare i ponti, chiudere i porti. Come se distogliere lo sguardo servisse a negare la tragedia.
Preghiera del mare è il monologo di un padre che stringe tra le braccia il suo bambino su una spiaggia, di notte, prima di affrontare il viaggio verso l’ignoto. È un testo breve, scritto di getto, in un pomeriggio — forse resterà deluso chi si aspettava un nuovo romanzo di Hosseini — ma di grande intensità, illuminato da una parola poetica che è accompagnata dai disegni evocativi di Dan Williams, artista londinese.
Il libro è stato ispirato direttamente dall’immagine di Alan Kurdi, il piccolo profugo siriano fotografato morto, bocconi su una spiaggia turca, nel settembre di tre anni fa: un’istantanea che aveva scosso, per una breve stagione, le coscienze del mondo. «Ho visto Alan come genitore — racconta Hosseini — i miei pensieri sono andati subito a suo padre, che era sopravvissuto al naufragio. Ho provato a immaginare come fosse essere lui, quali potessero essere i suoi pensieri. Ho voluto scrivere un tributo a quella fotografia: ma non soltanto a loro, bensì alle migliaia di persone che si trovano in quella stessa situazione».
Hosseini è andato a scavare nella singolarità del profugo, nella sua umanità irripetibile, perché «dietro i titoli dei telegiornali e le statistiche che leggiamo ci sono esseri umani, che hanno diritto di esistere e di essere trattati con rispetto». Ma chi è il profugo, per lo scrittore afghano trapiantato in America? «Prendi uno specchio e guardati — dice — potresti essere tu. Ognuno di noi può diventare profugo, avere la vita sconvolta da eventi imprevedibili, essere costretto ad abbandonare tutto». E lui sa di cosa sta parlando: aveva 14 anni quando i carri armati sovietici invasero l’Afghanistan, sorprendendo lui e la sua famiglia a Parigi, al seguito del padre diplomatico. Capirono subito che la loro patria, la loro casa, le loro cose erano perdute. Approdarono da rifugiati negli Stati Uniti: il giovane Khaled si ritrovò in una scuola della California senza parlare una parola di inglese, incapace di comprendere i suoi coetanei e i loro costumi. Finì a passare il tempo con un gruppo di ragazzi cambogiani: non si capivano, ma li accomunava la stessa condizione, quella del profugo.
È per questo, perché l’esperienza dello sradicamento lo ha toccato nel vissuto più profondo, che Hosseini ha dedicato il suo impegno alla causa dei rifugiati, diventando Ambasciatore di buona volontà dell’Unhcr, l’agenzia Onu che si occupa dei profughi: e così anche i proventi di Preghiera del mare andranno ai fondi umanitari. In questo suo ruolo lo scrittore ha visitato le regioni che ospitano gli sfollati, è stato nei campi di raccolta, si è seduto con la gente, ha ascoltato le loro storie. Ed è rimasto impressionato da quello che ha visto in Sicilia: «A Pachino ho visitato un centro per rifugiati minorenni — racconta — e sono stato travolto dalla generosità dimostrata dalla gente locale: l’intera città aveva aperto le porte e i cuori».
Non è sempre così, tuttavia. Anzi. Il sentimento che percorre in questo momento l’Europa è di ostilità verso chi si affaccia sulle sue sponde, i partiti e i movimenti che si fanno impresari della paura mietono consensi.
«Penso che molta della negatività e della paura che vediamo in giro sia basata su una cattiva comprensione della realtà, che però è diventata prevalente. Ogni discussione deve cominciare con questa verità fondamentale: fuggire dal propio Paese non è qualcosa che la gente sceglie di fare. Nessuno mette i bambini nella barca finché l’acqua non è piu sicura della terra, nessuno lascia la casa senza che la casa dica: vai via, non so cosa sono diventata. Sono scelte esistenziali, la gente non viene per sfruttare le ricchezze o i lussi dell’Europa, vengono perché sono costretti dalle circostanze che li portano a prendere queste decisioni difficili, che sono la loro ultima istanza. Questo bisogna capire, che non è una scelta».
Lei però in questo modo sembra inquadrare l’intero fenomeno migratorio come una questione di rifugiati, di gente che fugge da guerre o dittature. Siamo invece di fronte a qualcosa di più ampio, di portata epocale, che richiede risposte di lungo periodo.
«Certo, non è solo un problema di profughi, è qualcosa di più grande. Ma il mio primo pensiero va alle persone che hanno bisogno di protezione: che invece viene negata da certe politiche, tipo affidarsi ad autorità al di fuori dell’Europa, come la Libia, dove la gente soffre indicibili abusi. La Libia non è sicura, non si può rimandare lì la gente: che scelte abbiamo quando le persone muoiono sulle nostre spiagge? Non possiamo guardare altrove e spostare le responsabilità fuori dall’Europa. Dobbiamo assicurarci che chi ha diritto all’asilo vi abbia accesso. È vero, non c’è solo questo, molti vengono alla ricerca di una vita migliore: ma dobbiamo guardare perché la gente parte. La risposta a lungo termine è affrontare le condizioni che costringono le persone ad abbandonare le loro case, a pagare i trafficanti e rischiare di annegare per arrivare sulle coste europee: dobbiamo investire in quei Paesi, nello sviluppo, nelle infrastrutture, mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Non ci sono soluzioni semplici o rapide, dobbiamo pensare sul lungo termine».
Cosa direbbe ai politici che scelgono invece la strada della chiusura, dei respingimenti?
«Non giudico chi ha paura ma, a meno che tu non sia un sociopatico, quando ti siedi di fronte a quella gente non puoi non capirli. Allora direi: guarda, pensiamo a politiche che possano ridurre queste tragedie, le persone non dovrebbero morire sulla nostra soglia quando neghiamo alle navi di attraccare. C’è una santità nella vita umana. Quelle persone in mare sono spesso famiglie , bambini soli: in quel momento la priorità deve essere di salvare le vite, la decisione su chi ha diritto all’asilo deve essere presa dopo averli salvati, dopo lo sbarco, in modo sicuro, in centri di accoglienza. Abbiamo una responsabilità legale verso le persone che si presentano alla nostra porta».
Molti in Europa, più che dagli effetti economici, sono spaventati dai contraccolpi culturali dell’immigrazione di massa.
«Io non sono europeo, vivo negli Stati Uniti, dove abbiamo una popolazione di immigrati e rifugiati molto ricca e variegata. E posso dire con la mia esperienza che gli Usa sono diventati una nazione migliore e più forte grazie alla loro diversità. I rifugiati e gli immigrati contribuiscono con milioni di dollari all’economia americana: sì, c’è un costo iniziale, ma dando tempo i rifugiati alla fine sono una risorsa dovunque giungano».