Corriere 6.9.18
Enzo Ciconte ricostruisce le vicende della repressione del banditismo in Italia (Laterza)
Guerra ai briganti , non alle mafie Una politica scellerata e disastrosa
di Gian Antonio Stella
«C’è
un diffuso mercato delle teste. È abituale trovare in vari tribunali
ambigui figuri che si aggirano con capienti ceste piene di teste
tagliate e messe sotto sale perché si conservino meglio e più a lungo».
Gela il sangue il racconto di Enzo Ciconte sui momenti più bui della
guerra al brigantaggio. Quando, appunto, era in vigore in vari Stati
italiani «la regola che, ucciso un bandito e portata la sua testa al
podestà, si aveva diritto a scegliere tra una taglia proporzionata alla
nomea della vittima e la cancellazione del bando a carico di un parente,
di un amico o di un servitore». La testa di un bandito per la libertà
di un altro. Ammesso che il decapitato fosse sul serio un brigante e non
un poveretto messo a morte perché spiantato, come un certo Antonio
Benaglio che il Consiglio dei Dieci veneziano ordinò ai rettori di
Bergamo di arrestare «trattandosi di sogeto di conditione vile et
consuetudinario nei delitti li soli inditii bastano per ordinarne la
retentione».
Fu spietata e disumana, per secoli, soprattutto nel
Mezzogiorno ma non solo, la repressione dei «briganti», criminali o
idealisti che fossero, di cui parlerà oggi lo storico calabrese
presentando a Mantova il libro La grande mattanza. Storia della guerra
al brigantaggio (Laterza). Basti ricordare che quasi tre secoli prima
dell’eccidio degli abitanti di Casalduni e Pontelandolfo, il peggior
crimine compiuto dalle truppe italiane dopo l’Unità, Papa Sisto V era
stato così duro nel «metter ordine» che, scrive la Treccani, «il noto
avviso del 18 settembre 1585» ironizzava che «quell’anno erano state
esposte più teste di banditi a ponte S. Angelo che meloni al mercato».
«Per
distruggere il brigantaggio abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi:
ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato», ammonì Paquale Villari.
Certo, non tutti furono ciechi. Il deputato milanese Giuseppe Ferrari,
raggiunta faticosamente Pontelandolfo, denunciò in Parlamento già nel
1861: «Io vi proposi di fare un’inchiesta affinché una metà della
nazione conoscesse appieno l’altra metà, e le due parti della Penisola
si unissero fraternamente; mi rispondeste essere l’inchiesta inutile, i
mali passeggeri…».Tutti sordi.
E così, spiega Ciconte, «esiste un
numero sterminato di libri o articoli che hanno descritto le
efferatezze, la crudeltà, gli eccidi, le stragi, gli episodi di gratuita
e selvaggia violenza dei briganti» e insieme, per citare Giuseppe
Galasso, «pagine e pagine di romanzieri o di storici» che al contrario
li descrivono «come eroi, uomini senza paura in grado di tenere testa ai
potenti del tempo, giovani affascinanti con un grande sprezzo del
pericolo», al punto che «le figure dei briganti e le loro gesta sembrano
essere entrate nell’albo d’oro delle memorie locali». Ma «come si
conciliano o si spiegano due letture così opposte e divergenti?»
Risposta
non facile. A volte i briganti furono davvero dei ribelli che via via
combattevano le angherie spagnole, francesi, borboniche, savoiarde…
Altre erano disperati oppressi dalla fame, altre ancora criminali
calzati e vestiti o un impasto degli uni e degli altri. La grande
mattanza si concentra però non sui vinti (torto o ragione che avessero),
ma sulla belluina «ferocia di Stato» dei vari repressori. Che
dichiaravano d’aver tutti lo stesso obiettivo: «Il Terrore. Seminare il
Terrore».
Ed ecco le teste mozzate riposte in piccole gabbie di cui
scrive Édouard Gachot parlando di «cinquecento gabbie esposte lungo la
strada per Napoli». E l’ordine di Gioacchino Murat: «È una guerra di
sterminio che voglio contro questi miserabili!» E l’invettiva del
generale Manhès contro gli abitanti di Serra San Bruno: «Vivrete come i
lupi delle vostre foreste. Voi donne, genererete figli che vi saranno
aspidi!» E la lettera del generale Morozzo Della Rocca a Cavour: «Un po’
di metodo soldatesco è medicina salutare a codesto popolo». E certi
messaggi da brivido: «La testa di Palma mi giunse ieri verso le sei e
mezzo. È una figura piuttosto distinta e somigliante ad un fabbricante
di birra inglese. La testa l’ho fatta mettere in un vaso di cristallo
ripieno di spirito…».
Solo le mafie, sostiene l‘autore de La grande
mattanza, furono lasciate in pace: «Negli anni cruciali della
costruzione dello Stato unitario c’è una guerra spietata ai briganti, ma
la stessa durezza non è rivolta a fenomeni criminali e mafiosi noti e
conosciuti in Campania, Sicilia e Calabria. Con i moderni agglomerati
mafiosi lo Stato sceglie il quieto vivere, la convivenza, la
coabitazione…». Una scelta scellerata, «le cui conseguenze arrivano sino
a noi».