La Stampa 6.9.18
Il mito della storia
Non sempre è vero che ci aiuta a prevedere il futuro
di Alessandro Barbero
Nella
sua autobiografia, La luna è un pallone, il grande attore inglese David
Niven racconta un dialogo con Winston Churchill, durante la Seconda
guerra mondiale. Il primo ministro, masticando il solito sigaro,
sentenziò che non c’era nessun dubbio, gli Alleati avrebbero vinto la
guerra e Hitler sarebbe stato sconfitto. Niven gli chiese come faceva a
essere così sicuro, e Churchill rispose: «Perché, giovanotto, io studio
la storia». A me, commenta Niven, vennero i brividi.
Questo aneddoto
mi è tornato in mente leggendo, in questi giorni, le dichiarazioni di
Liliana Cavani alla mostra del Cinema di Venezia: «Quel che manca oggi è
la storia: non si impara più niente dal passato, e ne viene una
superficialità pazzesca... Nessuno capisce come la storia aiuti a
leggere il presente». Sempre a Venezia il regista Florian Henckel von
Donnersmarck, già premio Oscar per quel film bellissimo sulla Ddr e la
Stasi che era Le vite degli altri, ha presentato un’opera sulla Germania
tra nazismo e stalinismo, e anche lui ha dichiarato ai giornalisti che
chi fa politica oggi è inconsapevole della storia che l’ha preceduto, e
così è condannato a ripetere gli stessi errori.
Non bisogna però
credere che mentre oggi i politici non danno ascolto alla storia, una
volta avessero invece l’abitudine di farlo. Churchill era un’eccezione, e
se ne vantava; in generale, ai politici non è mai passato per la testa
di ascoltare gli storici, altrimenti non avrebbero ripetuto così spesso
gli stessi errori. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti. La storia
non garantisce molte certezze, ma almeno una sì: non bisogna invadere la
Russia (e sarei tentato di aggiungere anche l’Afghanistan). Eppure
tutti nel Novecento hanno continuato a provarci lo stesso! Ecco perché
non conviene farsi troppe illusioni sul fatto che i governi europei si
decidano a lasciare tranquilli la Siria, la Libia, l’Iraq, visto che
tutto quello che abbiamo fatto da quelle parti a partire dall’accordo
Sykes-Picot ha prodotto soltanto disastri. La storia può anche essere
magistra vitae, ma bisogna che ci sia qualcuno che vuole imparare.
Imparare
dal passato non significa però illudersi che la storia possa aiutarci a
prevedere il futuro. È una frase che si sente ripetere spesso, ma non è
vero. L’esperienza del passato ci obbliga a mettere in conto che nessun
governo riuscirà mai a mantenere tutte le sue promesse, e che chi
invade l’Afghanistan ne uscirà con le ossa rotte, ma questo non
significa davvero prevedere il futuro e le sue sorprese. Non c’è niente
di più istruttivo che rileggere oggi i racconti di fantascienza che
cinquanta o cent’anni fa immaginavano la vita nel Duemila.
Gli abbagli di Bradbury
Un
racconto di Ray Bradbury, del 1948, descrive come sarà il parto nel
futuro: all’avvicinarsi del momento, marito e moglie partono per
l’ospedale sul loro elicottero. Il cielo è solcato dai razzi
interplanetari che trasportano i pendolari da Marte. In ospedale, la
donna entra nell’apposita macchina da parto, che farà tutto da sola,
mentre la puerpera è sotto anestesia e si risveglierà il giorno dopo. In
compenso, non sanno ancora se il nascituro sarà maschio o femmina!
Bradbury, insomma, non è riuscito a prevedere l’ecografia. Ma la cosa
più straordinaria è che nell’attesa del lieto evento il marito viene
accompagnato in una sala d’attesa, dove trascorrerà tutto il tempo
fumando nervosamente una sigaretta dopo l’altra. Anticipare le nuove
tecnologie non è facile, ma la cosa veramente impossibile è prevedere il
cambiamento dei comportamenti: nel 1948 non era immaginabile in nessun
modo che cinquant’anni dopo i mariti avrebbero assistito al parto
tenendo la moglie per mano, e che in nessun ospedale sarebbe stato
permesso fumare.
Ed è proprio perché in realtà prevedere il futuro è
impossibile, che i politici sono così spesso indotti a ripetere gli
stessi errori del passato. È troppo forte la tentazione di scommettere: a
tutti gli altri è andata male, ma chissà che stavolta non vada meglio!
Solo a cose fatte tutti scrollano il capo e concludono che doveva andare
così per forza. Il passato ha per noi il grande vantaggio che sappiamo
come è andata a finire, e acquista la stabilità di un macigno, mentre in
realtà gli eventi si sono svolti in un presente incerto e fluttuante.
La guerra civile americana doveva vincerla il Nord, per forza. E come
mai i leader del Sud non lo sapevano? La linea Maginot era destinata a
essere aggirata dai tedeschi. E non uno dei politici che l’hanno fatta
costruire se ne è reso conto? L’Unione Sovietica era un gigante dai
piedi d’argilla, non poteva non crollare. E come mai l’uomo più potente e
meglio informato del paese, Gorbaciov, non se lo immaginava?
L’handicap dello storico
In
questo senso lo storico che studia un qualsiasi momento del passato ha
un enorme vantaggio rispetto agli uomini dell’epoca, inchiodati nel loro
presente, e incapaci di prevedere il futuro. È un vantaggio persino
sleale: noi sappiamo che Churchill è passato alla storia come un gigante
e il suo avversario Chamberlain come un illuso, ma loro non lo
sapevano. E chissà quante volte Churchill sarà stato sveglio la notte,
chiedendosi se dopo tutto aveva fatto la scelta giusta dichiarando
quella guerra, e se tutto non sarebbe andato a finire molto male. A
questo punto, però, il vantaggio di cui gode lo storico si trasforma in
un handicap: noi possiamo sapere tutto di cosa è successo in una data
epoca, anzi lo sappiamo meglio di quelli che c’erano, ma una cosa non
riusciremo mai a ricreare: l’incertezza di chi era là, in mezzo agli
avvenimenti, e non sapeva cosa sarebbe successo l’indomani. L’incertezza
che è la condizione esistenziale di tutti noi, prigionieri come siamo
del nostro presente.