giovedì 6 settembre 2018

Repubblica 6.9.18
Il dinamismo immobile
di Michele Ainis


C’è sempre un rischio quando fai le cose: il rischio di toppare. Ma se non fai, non sbagli. Ecco, è esattamente questa la specifica virtù del governo giallo-verde: un dinamismo immobile, mettiamola così. Berlusconi, nel 2008, battezzò il governo del fare; dieci anni dopo Conte ha inaugurato il governo del faremo. E del parliamo, bisogna altresì aggiungere. Perché in questi mesi una nuvola di parole si è depositata dentro i nostri timpani. Uno smog compatto d’annunci, di polemiche, di dichiarazioni ossessive e compulsive. Un giorno Salvini battaglia con Macron, il giorno dopo Di Maio incrocia le lame con il commissario europeo Oettinger, e intanto Toninelli sbuffa contro i Benetton, e intanto Salvini risbuffa contro Fico, e intanto s’alza un vocio confuso sulle pensioni d’oro o sull’Air Force Renzi.
Diciamolo: stargli dietro è una fatica. Ma quanti provvedimenti, quante decisioni contundenti zampillano fin qui dal nuovo esecutivo? Il conto è presto fatto: 17 sedute del Consiglio dei ministri, però le prime quattro destinate alla nomina di vicepresidenti e sottosegretari, un altro paio per lo stato d’emergenza a Genova. Ne restano quindi una decina, a occhio e croce. Durante le quali il governo ha varato 6 decreti legge, non uno di più. O meglio uno soltanto: il decreto Dignità, caro ai 5 Stelle. Negli altri casi giravano milleproroghe o milletribunali.
Dopo di che s’aggiungono 17 decreti legislativi, tutti però ornati di quisquilie: per esempio sui requisiti tecnici dei natanti, sulle competenze dei Vigili del fuoco, sul casellario giudiziale. Decreti che correggono decreti, o che altrimenti offrono attuazione a un pugno di direttive europee, senza tuttavia fabbricare nuove norme, nuove soluzioni. E nessun disegno di legge nei primi cento giorni di governo, se non quello — dovuto — per il bilancio dello Stato, o per qualche ratifica d’accordi internazionali.
Una volta Angelo Falzea, grande luminare del diritto civile, salutò così la monografia firmata da un suo allievo: « Che libro felice, nessuno potrà criticarlo: non dice nulla! » . Da qui la chiave del successo, del perdurante consenso popolare che sta accompagnando questa prova di governo. Da un lato, attinge a un’esperienza antica quanto l’uomo: se fai una nomina, se dispensi un provvedimento di favore, ne otterrai in cambio molti nemici e un ingrato. Meglio star fermi, meglio non offrire munizioni all’avversario. Dall’altro lato, la strategia del nuovo esecutivo deriva dal surplus d’attese e di promesse innescate durante la campagna elettorale. 50 miliardi per la flat tax, 8 per sbarazzarsi della legge Fornero, 17 per il reddito di cittadinanza: come si fa? Si fa appellandosi all’arte del rinvio, su cui la Democrazia cristiana aveva costruito i suoi successi. La fretta genera l’errore, diceva il saggio Erodoto.
Sicché l’orizzonte temporale si dilata, s’allunga verso l’arco della legislatura. Il ministro Tria comunica « l’avvio » delle misure elencate nel contratto di governo: l’anno prossimo, o forse l’anno dopo ancora. Salvini aveva promesso l’abolizione delle accise sulla benzina nella prima riunione del Consiglio dei ministri, ma adesso dice che se ne parlerà a Natale. Rinvio di sei mesi della fatturazione elettronica per i carburanti. Rinvio del rinvio sull’Ilva. Nulla di fatto sul gasdotto Tap, che l’incauto Di Battista voleva bloccare in quindici giorni. Né sul salvataggio di Alitalia, sugli sgravi per le partite Iva, sulla mitica pace fiscale. Quanto al reddito di cittadinanza, s’annunzia unicamente qualche rinforzo alla cassa integrazione. Il reddito verrà, per il momento accontentiamoci della cittadinanza.
Da qui la doppia cifra dell’esecutivo Conte: ordinaria amministrazione, straordinaria comunicazione. Che picchia come grandine in testa agli avversari, ma pure agli alleati. Con un contenzioso permanente fra Lega e 5 Stelle sulle nazionalizzazioni, sui migranti, sulla legittima difesa, sulle grandi opere pubbliche, sui tagli alle pensioni. Sicché il cerchio si chiude: lassù c’è un governo che è anche opposizione, senza mai offrire agli altri uno straccio di provvedimento cui fare opposizione.