Corriere 6.9.18
Il mestiere perduto
Opposizione senza vere proposte
di Sabino Cassese
E
l’opposizione, dov’è l’opposizione? Una domanda che dobbiamo porci non
perché preoccupati dell’afonia della «sinistra» (Forza Italia è a
bagnomaria, metà opposizione, metà legata al governo), o solo perché
oggi il governo può agire indisturbato, come ha efficacemente rilevato
ieri Antonio Polito, ma perché senza dialettica maggioranza-opposizione
non c’è democrazia. Questa dialettica è tanto importante per la
democrazia quanto libere elezioni. Come ha osservato, scrivendo quasi un
secolo fa, Hans Kelsen, la democrazia consiste nel «mettere la
conquista del potere in pubblica gara», una gara che comincia nelle urne
e continua nelle aule parlamentari, dove la minoranza contesta la
maggioranza, la tiene sotto controllo, con uno sguardo rivolto al Paese e
alle prossime elezioni.
Quale momento migliore di questo, perché
l’opposizione faccia il mestiere che le è proprio? Un governo con due
timonieri, in costante concorrenza, con forze politiche che tirano in
direzioni opposte e risorse scarse da spartire, con difficili scelte da
fare. Ebbene la minoranza non solo non propone alternative, ma non trova
neppure la forza di far sentire la propria voce. Sa solo distinguersi,
definirsi negativamente («no al razzismo», «con l’Italia che non ha
paura»), non sa identificarsi con una politica, è incapace di
interpretare bisogni diffusi e proporre degli ideali.
Q uesta
afonia, questa atonia, derivano dalla sconfitta elettorale, che ha
tramortito, o dalla disunione, ovvero dall’assenza di un leader
riconosciuto?
Vorrei azzardare una spiegazione più radicale. La
sinistra (e il centrosinistra) attraversa una crisi esistenziale, che
deriva dall’esaurimento della sua spinta ideale, quella che l’ha mossa
negli ultimi 70-80 anni, a partire dal 1942.
Facciamo un passo
indietro. Nel 1942 il laburista inglese Beveridge pubblica il suo
«piano», ispirato all’idea di liberare uomini e donne dal bisogno. Era
una geniale reinterpretazione della critica marxiana dell’eguaglianza
borghese come eguaglianza solo formale.
Rendeva concreto l’ideale
di rendere sostanzialmente eguali, ai punti di partenza, gli uomini,
liberandoli dalla schiavitù dell’ignoranza, delle malattie, della
disoccupazione e dell’assenza di reddito una volta cessato il lavoro.
Nell’ultimo anno del fascismo persino sui giornali italiani si parlò di
questa che allora sembrò una prospettazione visionaria. Di essa si
impadronirono pochi costituenti illuminati, che la calarono nella
Costituzione, dove, tuttavia, rimase come una promessa.
Su quella
promessa ha costruito la sinistra italiana (anche quella democristiana)
la sua forza e i suoi successi: scuola dell’obbligo, servizio sanitario,
cassa integrazione, sistema pensionistico, per fare solo gli esempi
principali.
Questi obiettivi ideali, che sono andati ampliandosi
per strada (lo Stato del benessere), sono stati la «raison d’être» della
sinistra, delle sue due correnti ideali, quella popolare e quella
socialista. Ma questi obiettivi sono ora realizzati (in molti settori
male, in altri in modo incompleto) ed altre preoccupazioni, altri
bisogni, altre aspirazioni si affacciano, e richiedono chi li interpreti
e distingua tra le pulsioni quotidiane e le aspettative di lungo
periodo.
È qui che l’attuale minoranza appare incapace non solo di proporre, ma anche di contrapporsi.
Non
è un fattore di consolazione la circostanza che in una analoga
situazione si trovino le altre forze che in passato si sono ispirate, in
altri Paesi, agli stessi principi socialdemocratici, come i laburisti
britannici, ora guidati da un estremista o gli inconsistenti socialisti
francesi o svedesi.
Anzi questo dovrebbe ulteriormente
preoccupare, perché porta a concludere che la crisi esistenziale non è
solo italiana, ma generale.